Filosofia: se serve, a cosa serve e altre cavolate

Al mercato delle chiacchiere vendute a metà prezzo, c’è un banchetto più luccicante degli altri, dinnanzi al quale un banditore enumera con entusiasmo la mercanzia esposta e i vantaggi derivanti dall’acquisto. È il banchetto del “se serve, a cosa serve e a chi”, dov’è possibile comprare il senso di qualsiasi attività abbia un’utilità, dov’è possibile comprendere finalmente che il senso di qualcosa coincide con la sua utilità immediata. Il venditore è sapiente e di recente ha iniziato a vendere anche il senso della filosofia: a che cosa serve la filosofia? Perché mai qualcuno dovrebbe spendere i migliori anni della propria vita a leggere migliaia di pagine da questa gloriosa storia del pensiero?

Per essere felici, ovviamente.

Non si sa bene come – bisogna già essere grati al mercante di chiacchiere per averci concesso di comprare questa venerabile verità – ma ora finalmente sappiamo che lo studio della filosofia serve a essere felici. Finalmente sappiamo che leggere la Repubblica di Platone, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer o la Fondazione della metafisica dei costumi di Kant serve a diventare persone felici, a pescare gli ingredienti necessari per cucinarsi al volo una vita beata: un po’ di atteggiamento socratico, tendenza ascetica q.b., due manciate di cialtronerie sulla legge morale. Condire a piacere con un pizzico di spirito scientifico e una manciata abbondante di onestà intellettuale.

Per verificare questa verità basta fare una passeggiata tra le aule di una qualsiasi facoltà di Filosofia e godere dello spettacolo di dottori e dottorandi, laureati e laureandi beati che contemplano la propria felicità sotto salici abbondanti.

Anche fuori dalle università, è evidente che la felicità sia diventata finalmente a portata di mano: chiunque può comprarsi un libro o un e-book di un qualche filosofo oppure – meglio ancora – di qualcuno che spiega come diventare felici seguendo questo o quel pensiero.

È forse una delle stronzate con più risonanza tra quelle che la folla mastica e si vomita addosso: lo studio della filosofia non rende felici, non rende beati, non rende migliori. Perché non c’è disciplina il cui studio sia sufficiente per essere felici: non esiste una teoria che dia come esito necessario una vita beata.

La verità venduta al banchetto del “se serve, a cosa serve e a chi” è, a ben vedere, quel che resta dalla ruminazione di una verità più ampia, autentica e, dunque, difficile da digerire per gli stomaci delicati della folla a cui bastano rapide e sommarie indicazioni, che s’accontenta di ordini camuffati da consigli amorevoli.

Per incamminarsi lungo la propria felicità, non si può fare a meno di confrontarsi con le grandi questioni che pungolano l’umanità dall’inizio dei suoi giorni e la storia della filosofia può essere letta come una serie di tentativi più o meno espliciti di farvi i conti. Lo studio onesto della filosofia mette tuttavia dinnanzi alla necessità di trovare la via di mettere coerentemente in pratica ciò che si pensa, si dice, si scrive.

Se serve a qualcosa, la filosofia serve a interrogarsi sulla maniera migliore per fare della propria vita un tutt’uno con noi stessi, per agire secondo quello che la nostra coscienza ha dinnanzi. La radicale utilità del pensiero filosofico risiede nel fatto che informa la mente in maniera tale da non permetterle di accontentarsi di facili risposte, di ricette spacciate con maestria agli angoli delle strade; in maniera da non permetterle di chiudersi alla ricchezza dei fenomeni che appaiono all’umanità, alle sfide che ciascuno di noi ha da vincere contando, in fondo, soltanto su di sé.

Emanuele Lepore

 

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Il tempo giusto

Le parole del mito sono patrimonio transculturale dell’umanità. Attraverso una variegata miscela di suggestioni, ciascuna cultura elabora i propri miti che sono, in fondo, modelli di comprensione dell’esistenza umana. La narrazione del mito serve a tener vive queste parole e la ripetizione di schemi e figure fissa nell’ascoltare (o in generale nel fruitore) alcuni specifici insegnamenti. 

Con una certa periodicitá, mi accade di tornare a leggere i versi della storia di Leandro ed Ero, sui quali giá qualcosa avevo provato a dire. Mi hanno sempre suggerito un senso di attesa: divisi da un’infida lingua d’acqua, i due amanti sono costretti alla clandestinità. Nottetempo Leandro sfida i flutti, guidato da una lucerna tenuta viva da Ero. Egli sfida la tempesta una volta di troppo o, forse, nel momento sbagliato e viene condotto dai marosi sulla riva opposta, esanime, tra le braccia della sua amata. L’attesa lascia il passo all’audacia: nonostante il mare sia in burrasca, il giovane tenta l’impresa per amore di Ero. Avrebbe dovuto attendere, essere prudente, attendere un momento più propizio.

La sapienza occidentale sovrabbonda di indicazioni riguardo al tempo opportuno in cui agire, in cui collocare una determinata azione. Ma è sempre possibile distinguere tra un momento propizio e uno nefasto? É sempre possibile, anzi, è sempre sensato attendere la venuta di un momento migliore? E se il tempo opportuno non avesse a che fare tanto con la riuscita dell’azione, quanto più con la necessità del tentantivo?

Rileggere i versi di Ovidio, questa volta, mi ha suggerito che talvolta bisogna far valere la propria esistenza rispetto alle condizioni spazio-temporali in cui ci si trova: occorre situarsi nel tempo che abbiamo, senza sfiorire nell’attesa di un attimo in cui tutto parrebbe compiersi da sé. Agire significa anche fare i conti con la possibilità di un esito inatteso, con la forza dei nodi che il tempo tesse attorno alla vita umana: significa anche rischiare qualsiasi cosa, abbandonare ogni misura di cautela. L’amore pare essere il configurarsi di questa situazione in cui non tutto è calcolabile, non ogni rischio è prevedibile, anzitutto per l’insondabilità della persona coinvolta che nel gesto d’amore si mette a tema. È l’amore un che di inatteso e ciò che si sa dell’inatteso è che occorre avvicinarsi, andargli incontro, per sperare di saperne qualcosa. Saperne qualcosa, sentirne un qualche sapore.

Emanuele Lepore

 

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“La filosofia consiste nei fatti”: parola di Lucio Anneo Seneca

 

Anche oggi, come ogni anno, le pagine dei maggiori social network si sono riempite di notizie, articoli, commenti relativi alla seconda delle prove con cui i maturandi sono chiamati a confrontarsi al termine del quinto anno. La maggior parte delle parole dedicate alla prova di traduzione dal latino o dal greco antico viene spesa a proposito della difficoltà linguistica del testo somministrato. Non mancano mai indagini pseudo-statistiche sulla veridicità di previsioni e vaticini.

Soprattutto quest’anno però non è il caso di soffermarsi tanto sulle asperità o sulla linearità del latino di Seneca, quanto più sul senso di parole la cui misura risiede nella loro propria lapidarietà: la filosofia è un’indagine, una ricerca che si traduce nella prassi con cui l’essere umano abita il mondo. La speculazione attorno alle domande che custodiscono il fine ultimo dell’esistenza umana, i discorsi attorno a concetti come essere, bene, virtù, significato, senso (ma la serie potrebbe continuare ad libitum) sono in fondo una messa in forma dello stesso umano che li pratica. Ciò che la filosofia offre all’umano è una scansione ragionata della propria vita, cioè un’esistenza secondo ragione: essa permette alla persona umana di solcare il mare della vita, le cui acque non sono prive di insidie, confortati dal legno d’una barca piccioletta1 e al tempo stesso mirabile. Le parole di Seneca sembrano dunque accadere opportunamente, indicando la via verso una forma di vita consapevole: agli studenti che hanno dovuto tradurle, dicono che la loro maturità consisterà nel saper adottare una postura critica e autentica nei confronti del mondo; a chi ha già lasciato la scuola secondaria da qualche tempo, invece, ricorda che la conoscenza del mondo e del suo senso non può essere raggiunta se non vivendo in esso, ordinatamente, ovverosia secondo ragione.

Vi lasciamo a questo punto al testo di Seneca, tratto dalla lettera XVI delle Epistulae morales ad Lucilium: immergiamoci in quelle parole così significative che ci provengono da oltre due millenni di distanza, scritte da un grande mentore al suo amico. Per un momento diventiamo anche noi Lucilio.

«La filosofia non è un’arte che cerca il favore popolare e non è fatta per essere ostentata; non consiste nelle parole, ma nei fatti. Di essa non ci si vale per far trascorrere piacevolmente le giornate, per eliminare il disgusto che viene dall’ozio: educa e forma l’animo, regola la vita, governa le azioni, mostra ciò che si deve o non si deve fare, siede al timone e dirige la rotta attraverso i pericoli di un mare agitato. Senza di lei nessuno può vivere tranquillo e sicuro; in ogni momento si presentano innumerevoli circostanze che esigono una direttiva, e questa bisogna cercarla nella filosofia.
Qualcuno dirà: “A che mi giova la filosofia, se esiste il fato? A che, se c’è un dio che ci governa? Ache, se il caso detta legge? Non si possono mutare gli eventi prestabiliti, né difendersi contro quelli incerti, ma o un dio è padrone delle mie decisioni e ha stabilito che cosa devo fare, o la sorte non mi concede nessuna decisione”.
Qualunque di queste forze esista, anche se esistono tutte, caro Lucilio, bisogna dedicarsi alla filosofia: sia che il destino ci vincoli con la sua legge inesorabile, sia che un dio, arbitro dell’universo, abbia disposto ogni cosa, sia che il caso sospinga e muova disordinatamente le vicende umane, deve proteggerci la filosofia. Ci esorterà a obbedire di buon grado a dio, e con fierezze alla sorte; ci insegnerà a seguire la volontà di dio, a sopportare il caso2».

Emanuele Lepore

NOTE:
1. L’espressione è dantesca: cfr. Paradiso, Canto II.
2. Riportiamo qui la traduzione di Caterina Barone, riportata dall’edizione che delle Lettere a Lucilio offre la Garzanti, Milano 2011.

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Mancanza, viaggio e verità

«“E allora perché vuoi imbarcarti? Non sarà mica per i soldi, no?”
[…] “Sì”, risposi cauto, “per i soldi che non ho”».
Björn Larsson, La vera storia del pirata John Long Silver

 

Mettersi in viaggio è, per certi versi, una delle esperienze più complesse della nostra esistenza: è un punto d’intersezione tra la naturalità dell’essere umano e la sua dimensione culturale, non immediatamente istintuale, non immediatamente riconducibile alla sua nuda vita. È naturale per l’essere vivente – almeno per le forme più evolute di vita – mettersi in cammino, esperire il movimento. Quel che per gli altri esseri viventi è un movimento lineare tra due punti, dettato dalle necessità della sopravvivenza o da altri fattori prettamente naturali, per l’essere umano è una pratica complessa in cui entra prepotentemente in gioco la dimensione simbolica: non è solo per sete che l’essere umano si muove, anche quando sembra stia solo cercando dell’acqua. Nell’esperienza del viaggio, s’intravvede la peculiarità dei bisogni umani rispetto a quelli delle altre forme di vita che popolano l’ecosistema. Per iniziare ad avvicinare questo tema, potremmo tentare di chiederci cosa cerchi l’essere umano quando si mette in viaggio, soprattutto in quella particolare forma di viaggio che è la ricerca del sapere. Meglio ancora: potremmo domandarci come sia possibile, per l’umano, mettersi in cammino lungo la via che conduce alla verità.

Se una persona ha sete, è capace di recarsi in cucina e di versarsi un bicchiere d’acqua solo nella misura in cui a) sa riconoscere il proprio bisogno come sete, b) sa che la sua domanda sarà soddisfatta dall’acqua nel frigorifero, c) sa come arrivare all’acqua e goderne nella fruizione. Si può spiegare questo fenomeno in maniera piuttosto semplice, dicendo che la persona assetata è stata addestrata in un certo modo a riconoscere i propri bisogni e sa che a quella particolare sensazione di mancanza si può rispondere beneficamente con quell’oggetto particolare denominato acqua1.

Nel caso in cui la mancanza in questione riguardi la conoscenza e, in particolare, quella certa forma di conoscenza che può essere identificata con la verità2, il gioco è intrinsecamente più complesso, in quanto si ha mancanza di conoscenza e si è dunque in una condizione di ignoranza: non si sa ciò che manca, in quanto ciò che manca è il sapere stesso. Com’è dunque possibile, per la persona alla quale manchino conoscenza e verità, avviare la sequenza prima descritta e mettersi in ricerca?

Dietro la paradossalità di questa situazione si cela il problema della precomprensione della verità, che è una delle formulazioni della più generale indagine sulla conoscenza umana. Soffermarsi su simili questioni permette di portare alla luce una delle peculiarità che la pratica umana del viaggio ha rispetto al modo in cui gli altri esseri viventi fanno esperienza del movimento, celata da una somiglianza soltanto fenomenologica. Il tratto distintivo qui messo in evidenza può essere espresso come segue: affinché sia possibile mettersi in cammino lungo la via del sapere, è necessario che si abbia già una qualche idea di esso; è necessario che, in qualche modo, si conosca ciò che non si conosce ancora. Affinché non si creda che si stia qui violando palesemente il principio di non contraddizione, bisogna far leva sull’espressione in qualche modo che compare poco sopra: per mettersi alla ricerca del sapere e della verità, bisogna conoscere la verità come ciò che manca; altrimenti non avremmo alcuna ragione per metterci in moto lungo la via della conoscenza.

Il problema epistemologico ha delle ricadute pratiche estremamente rilevanti, in quanto insegna che ciascuno deve imparare ad avere a che fare con la propria mancanza, con la condizione deficitaria che contrassegna l’esistenza umana. Il viaggio, come pratica del mondo, ovverosia come pratica in cui si esperisce la realtà, è un articolato e complesso modo per incontrare la propria finitudine, la mancanza che ciascuno ha di qualche cosa, la necessità di procedere un passo dopo l’altro verso la scoperta di ciò che è già da sempre dinnanzi ai nostri occhi e che, sulle prime, si fa conoscere a ciascuno di noi sotto le spoglie dell’assenza.

Ma se la verità è già dinnanzi ai nostri occhi come ciò che manca, cioè appare a ciascuno in una certa forma, perché mettersi in cammino e non arrestarsi alla situazione iniziale in cui almeno si sa cosa manca? Perché arrischiarsi lungo le vie della ricerca, talvolta impervie, per mettersi in cerca di qualcosa il cui ottenimento non è affatto scontato? Per vivere, si potrebbe rispondere molto semplicemente.

La presa di coscienza della mancanza di qualcosa come la conoscenza permette di adottare una certa postura adeguata all’oggetto che si vuole mettere a tema e di riconoscere le condizioni di possibilità di mettersi in cammino, lungo tutta una vita, alla ricerca di ciò che per un verso è già da sempre parte di noi e di cui, per altro verso, siamo vocati a riappropriarci: il senso, la verità, noi stessi.

Emanuele Lepore

 

NOTE:
1. Il meccanismo qui all’opera, genericamente wittgensteiniano, è uno dei modi per spiegare la sequenza di azioni qui sommariamente descritta.
2. Si intenda qui verità come epistéme, come sapere stabile e capace di mostrare la propria tenuta.

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Sul gender e sul neutro: avvistare una contraddizione

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Iniziamo questa riflessione sul gender1 recuperando un contributo precedente: alcuni mesi fa una nostra autrice, in un articolo intitolato Una strana idea di femminismo, faceva notare come oggi siano particolarmente in voga alcuni discorsi e alcune pratiche che, nate dal nucleo forte che è la presa di parola pubblica da parte delle donne, sono scaduti in una forma di misandria. Come ogni volta in cui si mettono in questione posizioni e tendenze che s’ispirano a qualche discorso precedente, occorre fare attenzione a non appiattire la parola originaria a quella che da essa prende le mosse: dal discorso e dalla pratica femminista, preziosi per aver aperto una possibilità di liberazione politica e filosofica anzitutto per le donne, o piuttosto dalla vulgata che se ne è fatta, si sono originate una molteplicità di posizioni che da essi si allontanano a vario titolo e con differenti sfumature.

Una di queste posizioni, quella che pare allontanarsi maggiormente dalla rivendicazione femminista, è quella che per brevità è talvolta chiamata – impropriamente – ideologia gender. Occorre essere precisi: ciò che intendiamo mettere a tema non sono i gender studies e i contributi di chi ha voluto misurare l’ingenza delle costruzioni e delle rappresentazioni sociali sulla sessualità degli individui e tentare di decostruirla. Tutte le traiettorie lungo le quali si sviluppa la persona umana possono patire, secondo un meccanismo di interpellazione e identificazione, le pressioni della società e della cultura in cui ciascun soggetto si trova a vivere ed edificarsi; e rendersi conto di tali meccanismi è un passo in più verso l’articolazione di una soggettività libera.

La posizione che ci pare problematica e che tentiamo qui di discutere2 è quella che dal pensiero di matrice femminista (da alcune delle sue determinazioni: si pensi a mo’ di esempio a Judith Butler), passando per i gender studies, giunge alla rimozione della differenza sessuale, ritenuta un che di meramente biologico, un accidente su cui si può intervenire in vario modo e, ancor di più, un’opprimente costruzione sociale. È la posizione che sta oggi portando innanzi una liquefazione del genere.

Ma il pensiero che affermi la totale insignificanza della differenza sessuale e persegua la conseguente rimozione dei due sessi in vista di un più ampio e meno costringente gender pare contradditorio almeno per un punto: si vuole liberare il soggetto da quell’ennesima costruzione sociale e culturale che è la differenza tra maschile e femminile ma si finisce per reintrodurre il dominio del neutro, ciò contro cui il pensiero della differenza sessuale si è aspramente e lungamente pronunciato. Il patriarcato opprimeva donne e uomini3 istituendo un regime di neutralità, chiaramente edificato a partire da alcuni tratti che si astraevano dall’essere umano di sesso maschile. Il pensiero della differenza sessuale ha reso possibile per il soggetto umano il progetto di un’identità libera, ha aperto la possibilità di un libero articolarsi del molteplice che evidentemente differisce. E la neutralità che viene introdotta con il gender rende impossibile qualsiasi forma di dialogo, non contempla alcuna forma di relazione poiché impoverisce l’alterità con cui ciascuna soggettività è chiamata a mediare – anche nell’esperienza di autocoscienza.

Senza differenza non può emergere alterità e, dunque, non può nascere neppure l’individuazione del soggetto. Dalla libertà in virtù della differenza si ricade ad una forma dualisticamente connotata di libertas indifferentiae: non si è liberi di vivere il proprio corpo, soprattutto quanto alla dimensione della propria sessualità, ma si è liberi di astrarne sino all’indifferenza.

L’intento di aprire al soggetto la possibilità di identificarsi con qualsiasi modello istituito sulla base dei propri e singoli desiderata prende di mira alcune condizioni che sono necessarie – ancorché non sufficienti – alla libera fioritura della persona umana. Non si è colpito davvero l’apparato di potere che esercitava costrizione sui soggetti in cerca d’identità ma si è negata la consistenza della materia che il potere tentava di informare in una certa maniera.

Se quel che si vuole è davvero la liberazione del soggetto, allora bisogna soffermarsi a problematizzare il gender e non limitarsi a giustificarlo come un discorso che rivendica diritti fondamentali per alcuni soggetti messi al margine in forza delle loro scelte sessuali: si tratta di due discorsi totalmente differenti, la sovrapposizione dei quali produce quantomeno contraddizione. L’affermazione di una differenza tra i due generi, maschile e femminile, non produce alcuna esclusione aprioristica delle identità libere, di cui conserva la possibilità di differire e, per ciò stesso, di strutturarsi. Non è riaffermando il totalitarismo del neutro che si potrà dare alle cosiddette persone LGBTqi la possibilità di non vedersi negato il riconoscimento che ogni persona merita. Soprattutto perché il riconoscimento ha bisogno dell’alterità: di ciò che il neutro, in fine, uccide.

Emanuele Lepore

NOTE:
1. Visto il tema che ci proponiamo di trattare è necessaria un’avvertenza: mettere in questione il concetto di gender non vuol dire affermare l’opportunità di quelle pratiche sociali, culturali e politiche che mettono al margine le persone che decidono liberamente della propria sessualità, anche qualora una cultura o una società dovesse classificarle come distanti dalla normalità. Quel che qui presentiamo è un pensiero in fieri, che necessita anzitutto del riscontro di chi avrà la bontà di leggere le righe in cui si articola ma che non può essere ricondotto, per i suoi intenti e per il suo contenuto, al discorso di chi promuove l’esclusione dell’alterità.
2. Assumo come guida per questo breve e minimo giro di considerazioni il volume Differenza di genere e differenza sessuale: un problema di etica di frontiera, che il Professore Carmelo Vigna ha curato per i tipi di Orthotes e contiene i contributi di differenti studiosi, tra cui Susy Zanardo, Riccardo Fanciullacci, Fabrizio Turoldo.
3. Va detto che anche gli uomini hanno patito – e patiscono ancora ora, in una maniera differente – il patriarcato quanto alla necessità di identificarsi con determinate rappresentazioni socio-culturali.

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“Stiamo cambiando pelle”. Intervista a Remo Bodei

Abbiamo incontrato il Professore Remo Bodei in occasione del Festival Filosofia, le cui attività si articolano entro lo spazio delle tre città di Modena, Carpi e Sassuolo.

Il professore è stato per molto tempo docente di Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato visiting professor in molti atenei internazionali ed attualmente insegna filosofia allo UCLA di Los Angeles. Ha inoltre pubblicato numerosi libri e saggi dei quali gli ultimi due nel 2016. I suoi studi si sono concentrati sull’idealismo tedesco, per poi ampliare gli orizzonti alla filosofia della storia e alla cultura filosofico-letteraria romantica, dalla quale emerge in particolare il binomio antitetico ragione-passioni, tema che ha spesso coinvolto il pensiero filosofico.

Nel corso dell’intervista che segue, abbiamo cercato di approfondire alcuni dei preziosi spunti contenuti nella lectio magistralis che ha tenuto nell’ultima edizione del Festival.

 

Professore Bodei, vorremmo iniziare da una suggestione che arriva dal suo ultimo libro Limite (Mulino, Bologna 2016), in cui riferisce che la filosofia moderna, da Locke fino a Kant, si interroga incessantemente sui limiti dell’intelletto umano, cercando di stabilire quali siano i limiti tra il conoscibile e l’inconoscibile. Secondo lei la filosofia contemporanea attorno a quali limiti si interroga?

I limiti variano col tempo: da Locke a Kant erano quelli dell’intelletto umano, si ricercava fin dove l’uomo potesse conoscere, avendo come base l’esperienza e la scienza. Fin dove la metafisica o la fede potessero estendersi. Oggi i problemi sono diversi e sono costituiti dall’incontro tra le varie culture e civiltà del mondo, in quanto si è rinunciato ad un’idea che valga per tutti, che poteva essere rappresentata dalla stessa forma di conoscenza. Un altro limite è segnato dalle biotecnologie: com’è che l’uomo si trasforma? Come si possono scoprire degli aspetti della natura umana che prima non c’erano? È la questione dell’artificialità e del post-umano. Un altro limite è segnato dalla comunicazione e dalle tecnlogie dell’informazione e di come queste possano trasformare persone e culture. Per certi aspetti si cerca il superamento dei limiti, per altri si cerca invece di stabilire dei confini che sono stati incautamente violati e che bisogna ricostruire: non siamo sicuri di avere una morale saldamente condivisa e per questo si cerca, ad esempio, di evitare che tutto sia permesso: da attraverso la spesso fraintesa espressione della morte di Dio, Nietzsche s’è accorto che non possono più sussistere regole insindacabili perché espresse da Dio: sono gli uomini che devono darsi regole credibili e solide, e di questo – Nietzsche lo capiva – non siamo stati capaci. Viviamo in una morale provvisoria permanente, che non è di per sé un male ma ci pone in una situazione difficile.

Un’altra posizione indubbiamente difficile e complessa è quella da lei evocata durante la sua lectio magistralis di Modena: la lotta contro se stessi pare essere un confronto drammatico per ritagliarsi un proprio spazio nel mondo. Secondo lei tra le sfide che l’uomo contemporaneo deve affrontare c’è anche quella che lo vede in cerca del suo posto nel mondo? Se sì, a che prezzo?

Trovare il proprio posto nel mondo è sempre stata un’impresa che ha riguardato gli uomini sin dall’età della preistoria: semplicemente cambiano questioni e limiti. Orientarsi oggi in un mondo così complesso e cangiante rispetto a quello della tradizione è più difficile o – per meglio dire – diversamente difficile: bisogna muoversi su d’un piano globale interconnesso e, d’altro canto, in un mondo che cambia continuamente e pone un problema di adattamento.

A proposito della complessità del nostro mondo: uno dei suoi tratti generalmente più riconosciuti è la liquidità, la quale – più di ogni altro – sembra dare un’illusione di libertà. In che modo la fluidità delle relazioni sociali e personali può aver compromesso la stabilità del tessuto sociale contemporaneo?

Questa caratteristica di liquidità egregiamente messa in luce da Bauman, per cui dall’inizio degli anni ’80 ad oggi sembra che non vi sia nulla di solido è una proposizione enunciata da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista: tutto ciò che è solido si squaglia. In questa situazione, con le difficoltà del terrorismo e della crisi finanziaria, stiamo scoprendo che il mondo è molto più duro e molto meno liquido di quanto pensavamo. Anzitutto abbiamo la necessità di trovare i limiti, di riconoscerli e comprendere come far fronte alla nuova rigidità della nostra esistenza.

In questo contesto sociale e politico così complesso, che ruolo crede abbiano le passioni umane, calate in un’epoca dominata da una tecnica che, sempre più a fondo, modifica i contesti e i soggetti che vi abitano?

Le passioni hanno sempre costituito un valore per il vivere comune: bisogna tuttavia distinguere tra le varie forme di passione. Noi viviamo in un’epoca in cui le passioni sono state sostituite dai desideri: questi non sono altro che passioni declinate al futuro, quindi passioni che non sono legate a qualcosa che, tradizionalmente, ha dei limiti. Abbiamo delle passioni che, in quanto proiettate verso il futuro, sono elastiche e procedono avanti. C’è poi una dimensione legata alle passioni private come l’amore (messe in risalto dalla modernità e dal Romanticismo) a cui fa da contraltare un declino della dimensione pubblica: in parte ci si richiude in se stessi davanti alla durezza dell’esistenza, in parte c’è una crisi delle passioni democratiche legate agli ideali di uguaglianza tra gli individui.

Secondo lei l’assenza di una bussola per l’agire comune piò dipendere dalla perdita di senso della nozione di bene comune? Se sì, crede che sia oggi possibile ricostruire tale nozione?

La nozione di bene comune è sempre stata da un lato un’aspirazione ideale e dall’altro una sorta di ingannevole prospettiva con cui si sono mascherate tutte le forme di soppressione: i totalitarismi del ‘900 hanno predicato un bene comune che, in realtà, si è rivelato un bene per certi tipi di classi, di individui. L’esistenza di un orizzonte che superi l’individuo segna il problema di trovare la strada per cui esso diventi effettivo e non diventi una maschera che serve a legittimare dei comportamenti che perseguono beni non comuni ma parziali.

Questo è un problema che sembra ripercuotersi anche nella dimensione individuale; nel suo libro Immaginare altre vite: realtà, progetti, desideri (Feltrinelli, Milano 2013) ricostruisce il ruolo fondamentale che ideali e modelli hanno giocato nelle dinamiche di costruzione di sé. Secondo lei a quali ideali, modelli si può ricorrere? Ve ne sono?

In generale questi modelli sono cambiati abbastanza recentemente perché in precedenza il nostro mondo (limitato, occidentale, europeo) questi ideali erano legati alla realizzazione di se stessi, alla possibilità di avere una soddisfazione in un mondo che, per certi versi, ha rinunciato all’al di là e richiede dunque che si possa trovare godimento nell’arco dell’esistenza fisica degli individui. Dopo il fallimento di certi regimi completamente laici, i quali ritenevano che l’uomo potesse, nell’arco dell’esistenza storica, trovare il proprio compimento, questi modelli si sono indeboliti ed è tronato il bisogno di trascendente e anche delle religioni: talvolta è tornato in forme piuttosto violente, come nel caso degli islamisti. Stiamo cambiando pelle: c’è un tentativo di ritrovare una soddisfazione che non è solo di questo mondo, non solo secondo una matrice religiosa ma anche estetica, secondo la maniera di Foucault per cui si fa di se stessi un’opera d’arte e si ha un’estetica dell’etica, si diventa come statue, si cerca di far vivere la bellezza nell’etica.

Lei da anni conduce parallelamente un’opera di ricerca filosofica e un’azione di divulgazione molto importante. Crede che il rinnovato e generalizzato interesse per le questioni della filosofia sia connesso con i bisogni del senso comune a cui si riferiva prima?

Penso che nell’esistenza delle persone, da quando ciascuno di noi è un bambino, ci si pone delle domande sul perché si esiste. Sono domande alle quali, a un certo punto, ci si rifiuta di rispondere: talvolta le domande diventano tarli fastidiosi. In forza di ciò ci si costruisce una visione del mondo fatta in casa, non suffragata da riflessioni profonde e perciò in genere non viene poi sviluppata dalla scuola, dalgi studi che guardano ad un sapere tecnico-professionale. Il bisogno di filosifa è una fame di senso che procura una sorta di esame di riparazione in età adulta di messa a fuoco di cose che non si sono osservate lungo la propria esistenza.

Quanto ha appena detto si sposa con la missione ideale de La Chiave di Sophia, che si propone di stimolare la comprensione di quanto la filosofia sia presente nella vita dell’umano, nella sua quotidianità, contrariamente a chi ritiene che essa sia – e, in certa misura, – debba rimanere una disciplina di nicchia, ristretta quanto a temi e pubblico cui si rivolge.

Fare filosofia significa cercare di capire il tessuto connettivo e orizzonte di senso entro cui noi ci situiamo, che non è appunto qualcosa di specifico. Rispetto alla frantumazione dei saperi e delle pratiche la filosofia è un tentativo continuamente rinnovato di trovare un orizzonte entro cui muoverci e situarci, perché essa non è un sapere specialistico. Si potrebbe dire che la filosofia è uno specialismo dell’universale: la filosofia ci riguarda tutti ma è molto difficile orientarsi filosoficamente perché si rischia di creare delle generalizzazioni astratte. Per questo si innesta in un sapere che riguarda un’acquisizione: per esempio, 2500 anni in cui nel nostro occidente si è pensato. Noi siamo debitori nei confronti di queste forme di ricerca che rappresentano una sorta di palestra mentale. Essa serve a tutti: senza di essa saremmo come automi. Essa è una forma di vivere in maniera consapevole. Se facessimo un esperimento mentale in cui la filosofia non avesse fecondato la nostra cultura, noi ci ritroveremmo certamente più creduloni, più stupidi e manipolabili e quindi meno liberi. È un valore per la democrazia, in quanto ci permette di vivere più consapevolmente e in maniera meno dogmatica.

 

Emanuele Lepore

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Il contratto sociale: Rousseau e la contemporaneità

<p>defocused crowd of people --- Image by © Images.com/Corbis</p>

È indubbio che l’Occidente stia vivendo un momento molto interessante della sua storia politica: anche grazie al concretizzarsi di alcuni scenari socio-politici che si credevano impossibili, assurdi, si ha un risveglio – forse lento, forse ancora iniziale – della coscienza politica dei cittadini occidentali. C’è voglia di occuparsi di politica e si è tornati a parlarne quotidianamente: quel che manca, a volte, son le categorie con cui interpretare alcuni fenomeni politici e la discussione pubblica diventa chiacchiericcio. In un sistema di mondi possibili ve n’è uno in cui ogni cittadino è adeguatamente informato a proposito di ciò di cui parla, in cui il discorso pubblico si colloca opportunamente rispetto ai fenomeni di cui si fa interprete. Questo mondo è ben lungi dall’essere identificabile con il nostro, in cui viviamo una tensione, un conflitto tra la voglia di partecipare al discorso pubblico e l’inadeguatezza della formazione generale dei cittadini: tra gli esiti di questo conflitto, vi sono alcune forme insane di partecipazione politica. Diciamo insane per intendere quelle forme di partecipazione alla cosa pubblica che mancano l’obiettivo, che illudono il cittadino di avere una qualche influenza sulla dimensione politica del mondo in cui vive.

Come si può risolvere questo conflitto e rendere possibile per tutti, cioè per chiunque abbia voglia di formarsi adeguatamente, la partecipazione al discorso pubblico?

Bisogna tornare a riflettere sulle origini della comunità politica in cui il cittadino si propone di agire, tentare di comprendere le ragioni di questa estraneità che la generalità delle persone vive rispetto ad essa, per poi ricalibrare adeguatamente le forme di partecipazione: la politica – intesa qui in senso ampio – va evolvendosi a ritmi serrati e non è pensabile che i cittadini non elaborino forme di azione e discorso politico altrettanto evolute, a meno che non si voglia rinunciare del tutto a questa dimensione. La qual cosa significherebbe accettare tacitamente una qualsiasi forma di dispotismo, poiché verrebbe meno la forza politica del cittadino e, con essa, il principale limite di ogni limite costituito.

Per riflettere circa la formazione della comunità politica, è opportuno farsi guidare da quei pensatori che hanno dedicato a questo tema il meglio della loro riflessione filosofica.

Uno tra questi è senza dubbio Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che ha riflettuto a proposito dei momenti costitutivi della comunità politica, quelli in cui gli esseri umani entrano a far parte di un grande e unico corpo politico, attraverso la stipulazione di un contratto sociale. Quanto v’è di peculiare nella riflessione di Rousseau, a ben vedere, è il fatto che il cittadino debba rinunciare del tutto alla propria sovranità, di cui godeva in stato di natura, senza con ciò subire alcuna diminuzione: la cittadinanza riconsidera tutti e sana ogni deficit di potere. È nella partecipazione alla vita della comunità che l’essere umano è pienamente autonomo e libero: e ciò è possibile per il fatto che il cittadino partecipa alla nascita della comunità di cui sarà parte, esercitando in prima persona il proprio potere.

Ciò che sembra mancare alla nostra contemporaneità è la disponibilità ad assumersi, da parte di troppi singoli, porzioni seppur ridotte di responsabilità: a tale resistenza fa da contraltare, ad ogni modo, la richiesta sempre più forte di spazi d’azione critica rispetto alla vita politica. Sembra, cioè, che alcuni cittadini vivano una relazione posticcia con la propria comunità, alla cui ideale fondazione non prendono parte, restando inevitabilmente in una situazione conflittuale tra i propri desideri e le condizioni di attuabilità degli stessi.

Emanuele Lepore

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Ho capito che ti amo. Abbozzo di un omaggio a Luigi Tenco

Accostarsi alla figura di Luigi Tenco fa tremare le vene ai polsi1. La sua voce melanconica ha saputo, in una maniera assai particolare, cantare la nudità dell’animo umano e mostrare che l’amore, al di fuori di ogni retorica sentimentalistica, è ben poca cosa: è un’esperienza semplice, che l’uomo vive col poco che di sé ha a propria disposizione. Una cosa da poco, che si fa spazio nel cuore dell’umano quando meno ce lo si aspetta, come risposta al naturale bisogno di ciascuno di aprirsi all’altro da sé: nasce quando non si ha niente da fare, perché si desidera qualcosa da sognare2. L’amore di cui Tenco si è fatto cantore sensibile è essenzialmente desiderio: etimologicamente, questa parola indica la mancanza delle stelle (de-sidus).  L’essere umano sa bene ciò che propriamente realizzerebbe la sua pienezza: conosciuto come ciò che manca per eccellenza, l’oggetto3 del desiderio è ciò verso cui l’umano quotidianamente tende. Nulla di sovrannaturale, nulla che sovverta la natura umana: a ben vedere, l’amore è proprio ciò che fa dell’essere umano l’unico che esso è.

Ciò che di veramente straordinario v’è nell’esperienza d’amore è costituito dalle sue imprevedibili conseguenze. Affinché l’umano possa mettersi per via e raggiungere, col passo del desiderio, ciò di cui avverte la mancanza, è anzitutto necessario che tale mancanza sia riconosciuta: più precisamente, occorre che si riconosca ciò di cui si è mancanti come un che di altro rispetto a sé. Ecco che il desiderare ha come suo passo preliminare4 l’apertura all’altro da sé: bisogna vincere l’illusione che ciascuno basti a se stesso, che si possa vivere entro i confini della propria identità – andrebbe mostrato come si possa pensare la propria identità senza perciò riconoscere l’altro da sé, ma è un altro discorso – senza morire d’asfissia. Certamente riconoscere l’altro non è cosa semplice né indolore ma è pure l’unica via possibile per la fioritura di sé: l’essere umano è originariamente in una relazione tolta la quale viene meno lo stesso umano.

Nel settembre 1964 Luigi Tenco incide per l’etichetta Jolly il singolo Ho capito che ti amo, pubblicato come lato “A” di un 45 giri e inserito l’anno dopo nell’LP Luigi Tenco. Tra le tante canzoni del nostro cantautore, questa è forse una di quelle che meglio rende l’idea delle straordinarie conseguenze che l’amore può avere in quanto apertura all’altro. Il testo, accompagnato dal delicato arrangiamento di Ezio Leoni, può essere letto come una vera e propria fenomenologia dell’amore, così come esso è comunemente esperibile da tutti.

Una persona che aveva perduto la speranza d’innamorarsi ancora, si ritrova coinvolto anima e corpo in un desiderio di cui neppure aveva idea, di prende coscienza a mano a mano; un desiderio capace di vincere l’indifferenza dietro cui a volte ci si maschera, specialmente dopo aver fatto i conti col dolore (che pure è connesso in certa misura all’amore) e si vuole preventivamente mettersi al sicuro da eventuali patimenti: l’amore è cosa semplice, la cui posta in palio è incalcolabile. Per quanto ci si schermi, accade un giorno d’aprire gli occhi su di uno sguardo che non si era mai visto brillare così tanto e se ne resta indicibilmente affascinati. L’amore è una cosa semplice: una serata come un’altra si illumina solo perché ci si avvicina ciò di cui siamo mancanti, sotto le spoglie di una persona come noi, che ci apre a tutto ciò che, altrimenti, non avremmo mai potuto considerare.

Come ciascuno sa, come ciascuno può, quando una simile attrazione fa capolino, bisogna ingegnarsi per edificare al desiderio la via migliore possibile: se si può indicare il punto che il desiderio incrocia (l’altra persona), non si può fare altrettanto né col percorso né, tantomeno, col punto d’arrivo definitivo dell’amore. A ben vedere, infatti, l’amore non termina nella persona amata: quest’ultima, piuttosto, si fa per l’amante viatico verso un che di ulteriore al quale ci si può solo affidare, affidandosi all’amato che si incontra.

L’amante che s’abbandona all’amato, grazie all’amore guadagna un’intima prossimità col bagliore di quelle stelle di cui è mancante: fosse anche solo per un istante, chi ama ha ciò che gli manca5.

Emanuele Lepore

NOTE:
1. Il benevolo lettore vorrà dunque perdonarci se incontrerà suggestioni non approfondite adeguatamente.
2. Cfr. L.Tenco, Mi sono innamorato di te: il brano, già pubblicato su 45 giri, è poi confluito nel primo album del cantautore di Cassine, che prende il nome da quello del suo autore, pubblicato nel 1962.
3. Se qui si dice oggetto, lo si fa fuori di ogni retorica reificante: si intende propriamente il termine verso cui l’umano tende nel suo desiderare.
4. È a ben vedere una condizione necessaria, più che un presupposto.
5. L’espressione è paradossale ed è volutamente lasciata senza ulteriori spiegazioni, almeno per ora.

Che cos’è la virtù? Un piccolo scorcio sull’Etica aristotelica

Uno dei testi più importanti della tradizione filosofica occidentale è senza dubbio l’Etica Nicomachea di Aristotele, ricchissima di spunti di riflessione che, se correttamente contestualizzati, possono ancora oggi dire qualcosa di significativo riguardo alla vita pratica dell’essere umano. Tra i tanti, uno dei più potenti è la definizione della virtù come una disposizione che orienta la vita dell’essere umano alla migliore forma possibile il richiamo alla sua fisica è qui evidentissimo: come ogni forma tende alla sua configurazione più compiuta, così l’essere umano tende virtuosamente al bene. Accade frequentemente, oggi, di imbattersi nell’immagine secondo cui l’essere umano virtuoso è granitico e immobile, secondo cui il discorso etico non sarebbe altro che un residuato della religione, che vuole l’uomo costretto a rinunciare a vivere e godere della vita. Almeno per quel discorso etico che nasce a partire dalla lettera aristotelica, nulla è più sbagliato di una simile immagine.

Per descrivere ciò a cui guarda, in fondo, la filosofia morale – e, a ben vedere, ciò a cui tutta la filosofia dovrebbe badare – potremmo invece utilizzare un’immagine che ripercorre costantemente nel testo di un filosofo contemporaneo, che proprio con Aristotele e Tommaso d’Aquino inizia a fare i conti: è l’immagine della fioritura umana, di cui nel 1980 ritorna a parlarci John Finnis nel suo libro Natural Law and Natural Right (pubblicato per i tipi della Oxford University Press). Il punto nodale della riflessione è la seguente questione: cosa è buono? Ciò che favorisce la fioritura della persona umana, cioè il raggiungimento da parte della persona della sua propria forma migliore. Per riprendere il dettato aristotelico, potremmo dire che l’essere umano ha in sé una naturale disposizione al suo bene più grande, desiderando il quale questi va desiderando e realizzando nientemeno che se stesso. Siamo davanti ad una filosofia che ricorda di essere un discorso elaborato per il bene dell’essere umano in tutte le sue sfaccettature, che rifiuta di scadere a libretto di istruzioni di una qualche macchina, seppur sofisticata. Trattare gli esseri umani come tali costituisce una vera e propria sfida per la filosofia odierna e, dunque, per la persona umana stessa, sempre più ingabbiata in inganni socio-culturali ed economici che confondono – qui si mente sapendo di farlo – la virtù con la noia e la consumazione sistematica di tutto con la libertà. Leggere testi come l’Etica Nicomachea è oggi un vero e proprio atto politico, oltre che filosofico: è intercettare un segnavia importante lungo il cammino verso la propria evoluzione. È avere il coraggio di affermare che esiste un bene a cui la persona umana tende per natura, un bene che non può essere venduto o acquistato, che non può essere manipolato.

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]