Günter Grass: tra la razionalità delle parole e la passionalità

Ieri mattina si è spento all’età di 87 anni, lo scrittore tedesco e drammaturgo Günter Grass, Nobel per la letteratura nel 1999.

Con lui ci ha lasciato un intellettuale controverso, scomodo forse nel senso pieno del termine che per molto tempo è stato considerato la ‘coscienza morale’ di una Germania che era chiamata a fare i conti con il proprio passato. Ci lascia colui che ha fatto della propria esistenza una battaglia morale contro l’oblio del passato nazista e delle sue colpe, lottando contro la rimozione della memoria.

Non solo uno scrittore ma anche pittore, grafico e sculture, autore del più importante romanzo tedesco del dopoguerra: Il tamburo di latta, inserito insieme a Gatto e topo e Anni di cani nella Danzige Trilogie (Trilogia di Danzica) nella quale Grass, a partire dai ricordi d’infanzia nella sua città Natale, rileggeva la storia tedesca, osteggiando quella “fuga dalla storia” esplicitata dalla teoria dell’anno zero, o meglio teoria dell’ora zero, che prevedeva l’annullamento dell’esperienza di terrore che era ancora presente nelle loro menti. Così scriveva in un suo passo: «Si cercava di dare alla fine del ter­rore il signi­fi­cato di ora zero, come se si potesse rico­min­ciare tutto da capo, come se bastasse rimuo­vere le mace­rie, come se fosse con­sen­tito cavar­sela impuniti».

Scoppiò poi lo scandalo, nel 2006, quando Grass confessò nel suo libro Sbucciando una cipolla e un’intervista, di aver fatto parte della Waffen SS, arruolandosi a 17 anni. Molti si chiedono perché, per oltre 60 anni, sia rimasto in silenzio su quella che potremmo considerare l’esperienza più importante della sua vita. Quello che è certo, è che Grass ha cercato per tutta la vita di emendarsi da quell’errore, sia attraverso i suoi libri sia attraverso il suo attivo impegno politico come militante. Nell’intervista del 2009 dell’Espresso, in riferimento al perché della scelta di parlare della sua reale esperienza solo in tarda età, Grass così dichiara:

«dovevo diventare vecchio per poter rivivere la mia biografia. Solo ottantenne mi è stato possibile rivedermi ragazzino di 14, 15 anni».

Aldilà della questione del suo arruolamento al nazismo, Günter Grass fu uno di quegli autori che non ebbe paura di esporre i suoi testi e metterli al confronto con coloro invece che volevo nascondere e occultavano le atrocità del nazismo. Noi vogliamo ricordarlo con queste parole:

la società ha bisogno di una letteratura che si immischi nei discorsi quotidiani, che faccia vedere senza pietà i misfatti dei potenti e mostri ai giovani i limiti delle utopie radicali. C’è sempre bisogno dell’arte che, come Oskar col suo tamburo, svegli le coscienze intorpidite”

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]

Sè come un altro

Quella dell’alterità è una questione che attraversa lo spazio storico e teoretico della modernità, da Husserl a Heidegger, da Sartre a Lévinas: chi affronta la questione mette in campo sempre una retorica dell’altro, dell’alterità, che, però, acquista validità di discorso a patto che si mettano in evidenza gli attori che lo animano: l’io, l’altro e il piano in cui ci si muove: sia esso gnoseologico, etico, linguistico, politico o ontologico.
Molteplici sono i contributi volti a comprendere la natura del legame che unisce il soggetto alla figura dell’altro, come molteplici sono le declinazioni che la categoria dell’alterità ha assunto nel corso della storia della filosofia.

La scelta di considerare, tra le diverse voci, la proposta e l’analisi che Paul Ricoeur elabora circa l’alterità, con particolare riferimento all’opera Sè come un altro, rinvia non solamente al fatto che egli occupa una posizione rilevante all’interno del panorama moderno, ma alla posizione di mediazione che ha saputo intraprendere, come alternativa alle due tendenze filosofiche opposte che hanno dominato dopo Cartesio: da una parte la posizione idealistica di un soggetto esaltato, la cui categoria dell’alterità viene sempre ricondotta al proprio; dall’altra parte la posizione nietzschiana di un soggetto umiliato e ridotto a una pura illusione.

La filosofia pratica di Ricoeur delinea un soggetto che agisce, patisce e si interpreta, nell’atto di interpretarsi e interrogarsi si scopre attraversato in modo costitutivo della figura dell’alterità che egli incontra nel cammino della proprio esistenza.

Al fine di capire a quale grado l’alterità sia costituiva dell’ipseità, dobbiamo ripercorrere l’analisi che Ricoeur opera circa la nozione di identità.
In Sè come un altro Ricoer distingue chiaramente due diverse sfacettature dell’identità: Ricoeur stesso dichiara che è nel termine soi-même che si costruisce la struttura ambigua e paradossale della soggettività umana; il termine même infatti, nella lingua francese, possiede una doppia valenza, a seconda che intendiamo l’identico al corrispondente latino di idem o dell’ipse. Ricoeur precisa come soi-même

«non è che una forma rafforzativa di soi, nella quale l’espressione même serve ad indicare che si tratta esattamente dell’essere o della cosa in questione»

Da una parte dunque identità-idem, nel significato di ‘medesimo’, sta a indicare il permanere identico e immutabile nel tempo da parte del soggetto, dall’altro identità-ipse, nel significato di ‘stesso’, indica il processo dinamico cui il soggetto è sottoposto temporalmente nell’operazione di identificazione. Con il concetto di identità-medesimezza Ricoeur intende esprimere il lato statico del processo identificatorio, cioè «il nucleo permanente del sé, sede da un lato dei tratti innati della personalità (carattere), dall’altro dei tratti acquisiti nell’arco dell’esperienza della vita temporale, e assimilati in forma di sedimentazione contratta».
Per carattere l’autore intende proprio l’insieme di quegli elementi distintivi che consentono di reidentificare un individuo come il medesimo anche col passare del tempo, scrive Ricoeur: «esso designa in modo emblematico la medesimezza della persona» attraverso quella che lui definisce l’identità numerica, qualitativa e la permanenza del tempo; prosegue sempre Ricoeur: «proprio in quanto seconda natura, il mio carattere sono io, io stesso, ipse, ma questo ipse si annuncia come idem», così ogni abitudine acquisita diventa una disposizione permanente e va a costituire uno dei tratti distintivi tramite i quali riconosciamo una persona come la medesima anche a differenza di anni. Il carattere per Ricoeur risulta essere proprio il che cosa del chi.

il doppio segreto
Il concetto di identità-ipseità invece fa riferimento al lato dinamico del processo di identificazione, aprendo il soggetto all’esperienza dell’altro da sé. Emblematica è la figura della promessa, utilizzata da Ricoeur come esempio del permanere di sé nel tempo attraverso la capacità di mantenere la parola data nonostante il cambiamento: il soggetto infatti deve mantenersi fedele alla parola data a partire dall’istante della formulazione della promessa al momento della sua attuazione, fedele nel significato quindi di identico a se stesso.
Dalla prospettiva così delineata è chiaro come l’identità per Ricoeur non sia totalmente chiusa e di per sé già formata, ma risulti essere un reale processo sempre in corso, che si costituisce in modo dinamico nel tempo tramite la costante dialettica tra medesimezza e ipseità, la quale rende l’io da un lato una totalità chiusa e compiuta, l’io-idem appunto, dall’altro lato invece, una totalità aperta soggetta a mutamenti ed evoluzione, l’io-ipse
Ricoeur sottolinea come identità-medesimezza e identità-ipseità non vadano pensate l’una distinta dall’altra o di per sé autonome, quanto invece nella loro reciproca relazionalità:

«un ente è identico a se stesso soltanto rispetto a ciò che è altro da esso e nel corso del mutamento temporale».

Tale dialettica rappresenta alla fine un soggetto che oscilla perennemente tra la tendenza all’uscire fuori di sé aprendosi all’altro e il bisogno di una chiusura stabilizzante dall’altra; un soggetto tensionale quindi, in costante conflitto tra due tendenze apparentemente contraddittorie, un soggetto che pur aprendosi all’altro vuole proclamarsi autosufficiente. Questa costante tensione e inquietudine, agli occhi di Ricoeur, non è semplicemente uno stato emotivo quanto invece la struttura ontologica stessa dell’essere umano: il soggetto deve imparare, durante il cammino della proprio vita, a riconoscersi quale soggetto finito e abituarsi alla costante tensione rispetto alle molteplici possibilità di diventare se stesso nel rapporto con l’altro.

Elena Casagrande

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Intervista a David Sossella e Sara Penco: l’arte come scoperta di sè

David Sossella è Laureato con lode in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dal 2000 comincia a lavorare come illustratore e Graphic Designer. Dal 2006 svolge presso il più importante studio di cartoni animati in Italia il ruolo di responsabile dell’ufficio grafico. Affiancando a questa mansione quella di illustratore, collaborando alla realizzazione di diverse serie in animazione; questa collaborazione culmina nel 2009 con la realizzazione del lungometraggio in animazione per il cinema “Cuccioli – Il Codice di Marco Polo” con il ruolo di artdirector e responsabile texturing dei personaggi. Negli anni collabora come illustratore con diverse agenzie negli Stati Uniti (San Francisco, New York) ed Europa (Monaco, Barcellona). Una proficua carriera artistica lo porta a diverse pubblicazioni e mostre (collettive e personali) in Italia e all’estero.

Sara Penco  dal 2004 lavora nel più importante studios di cartoni animati in Italia svolgendo incarichi di Pre-produzione, sia organizzativi che artistici, accumulando così una conoscenza completa dell’intero ciclo di realizzazione del cartone animato (dal character design, allo storyboard, fino al doppiaggio).Dal 2006 collabora con David Sossella, affiancandolo nello studio di character design e nella produzione di illustrazioni, sia vettoriali che bitmap, realizzando lavori per agenzie a livello internazionale.

Puoi presentarti ai nostri lettori?

SARA: Ciao, sono Sara, socia e illustratrice dell’agenzia Manifactory e del progetto Gusto Robusto.

DAVID: Mi chiamo David Sossella, sono nato a Mestre nel ’76. Sono un pittore, illustratore e Graphic Designer. Sono socio dell’agenzia Manifactory e ideatore di Gusto Robusto.

In che modo l’illustrazione è entrata a far parte della tua vita? Come si è sviluppata la tua tecnica nel tempo?

SARA: Il disegno è la modalità con cui mi viene spontaneo esprimere le mie idee e sensazioni. L’illustrazione è un mondo che mi ha attirata e stimolata sin da piccola. Essendo autodidatta, la mia tecnica si è sviluppata inizialmente guardando i lavori dei disegnatori che seguivo cercando di copiare le immagini che mi piacevano. Poi, lavorando in uno studio di cartoni animati, ho cercato il più possibile di carpire suggerimenti e spunti dai miei colleghi disegnatori. Infine, negli ultimi quattro anni, sto lavorando sempre più a fondo sulla tecnica per essere una professionista dell’illustrazione che si distingue per il suo stile… ce la sto mettendo tutta 

DAVID: Ho cominciato a disegnare come tutti, da bambino. Mio padre era un lettore di fumetti, e io guardavo e riguardavo gli albi che giravano per casa. Quando è stato chiaro che per me il disegno stava diventando una passione, un amico di mio padre mi ha regalato la sua collezione di fumetti e albi di illustrazione. In quel momento ho cominciato a studiare pagina per pagina tutto il materiale che avevo, copiando qui e sbirciando là. Poi ho svolto gli studi artistici canonici (Liceo Artistico e Accademia di Belle Arti) questo mi ha permesso di sperimentare tantissimi mezzi di espressione, dalla pittura alla fotografia, dall’incisione alla grafica. In quel periodo mi sono allontanato e riavvicinato all’illustrazione più volte, a periodi alterni. Ogni volta che tornavo a illustrare il mio stile era in qualche modo cambiato. La mia tecnica si è molto stratificata, e tutte le esperienze che ho fatto mi hanno arricchito e mostrato punti di vista diversi, unendosi infine in una sintesi che mi permette di usare e sperimentare stili e tecniche diverse a seconda del progetto. Forse l’eclettismo è il mio tratto distintivo.

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Come definiresti il tuo stile? Hai avuto qualche maestro di riferimento o qualcuno a cui spirarti?

SARA: Penso che il mio stile si possa definire fumettistico. Da piccola ho letto molti manga e guardato tanti cartoni animati giapponesi. Crescendo ho cercato di lasciare il più possibile lo stile giapponese per occidentalizzare il mio tratto, cercando di inquadrare un mio personale modo di rappresentare i miei personaggi. Comunque tuttora amo Akira Toriyama e Hayao Miyazaki.

DAVID: In parte ho già anticipato questo nella risposta precedente. Non penso di avere un unico stile di disegno, e tanto meno di averne inseguito uno unico durante gli anni. Il passare da uno stile ad un altro, da una tecnica all’altra, forse è la cosa che più mi contraddistingue: dalla pittura informale al fumetto, dalla grafica alla pittura figurativa, alla fotografia. Adesso sto cercando, (con la massima umiltà) di trasformare l’illustrazione in arte con la “A” maiuscola, riposizionandola e cambiandone le regole base, per esempio, trasportandola su tele di grandi dimensioni, oppure lavorando su tirature limitate, o ancora rendendone criptico il messaggio (in contro tendenza con l’illustrazione contemporanea che sembra propensa a “semplificare” linguaggi alti rendendoli accessibili e comprensibili a tutti con il rischio però di banalizzarli). Il risultato finale è tutto da verificare. In passato ho guardato tantissimi artisti, ora lo faccio pochissimo, sopratutto se sono in fase creativa.

Come nasce e si sviluppa un tuo disegno?

SARA: A volte nasce da input esterni come la televisione, un libro, un cartone animato, o anche solo da una risata con gli amici. Dalla vita quotidiana si possono estrarre spunti divertenti per storielle e illustrazioni, basta affinare l’arte di riconoscerli!

DAVID: Il più delle volte nasce in doccia! O comunque nei momenti in cui non sono focalizzato su qualcosa in particolare, la mente è libera e aperta. Poi spesso nel processo di realizzazione tutto cambia, l’opera prende forma un poco per volta. Adoro sovrapporre significati, citazioni, stratificando i livelli di lettura di una singola opera. Il caso ha comunque una grandissima componente nei miei lavori, cosa vedo o ascolto in un certo momento, può cambiare il risultato finale anche di molto.

Cornice_orizzontaleDavid Sossella

Quale definizione attribuiresti all’ARTE? Che cos’è per te arte?

SARA: Per me l’arte è qualcosa che lascia allo spettatore un sentimento di positivo stupore. È un’emozione scaturita da qualcosa di bello o di profondo che colpisce l’occhio e il cuore. Tale bellezza può nascere da un’illustrazione, ma anche da un oggetto o un gesto.

DAVID: Non mi azzarderei a definire l’ARTE, nel periodo in cui viviamo una definizione univoca è impossibile. Per quanto riguarda la mia personale esperienza, l’arte è l’esteriorizzazione del proprio spazio interiore. Il più grande problema nell’arte è la sincerità, profonda e assoluta. Essere pienamente sinceri, da un lato obbliga a scoprirsi, dall’altro a esporsi con gli altri. Un foglio bianco è come uno specchio, ti mostra ciò che sei in quel momento, e non fa nessuno sconto.

Molti teorici dell’arte ritengono che non tutto ciò che è frutto di creatività può considerarsi un’ Opera d’arte. Athur Coleman Danto filosofo analitico e artista afferma che ciò che determina la differenza tra un semplice oggetto e un’opera d’arte è quel mondo dell’arte fatto di istituzioni, teorie e regole. Concordi con questa considerazione nel definire che cos’è un’opera d’arte?

SARA: È cosa comune che un oggetto venga considerato all’unanime opera d’arte quando è qualcuno del mondo della critica dell’arte a definirlo tale. Cosa molto limitativa, talvolta assurda. Mi riferisco ai casi in cui sono le fantasie di un critico o magnate a sovraccaricare di significato un’opera per cavalcare il mercato.

DAVID: Più che una discriminante mi sembra una regola per dar ordine e creare un mercato.  Personalmente lo trovo piuttosto autoreferenziale. E proprio perché penso sia “schizofrenico”, non ho mai sentito la frenesia di proporre i miei schizzi, le miei pazzie, le mie opere.

Maurizio Ferraris afferma che “avere rappresentazioni è la condizione dell’agire e del pensare, che sono le caratteristiche generalmente attribuite ai soggetti. […] così pure il desiderio o il timore, l’amore o l’odio, e insomma tutta la gamma dei sentimenti hanno bisogno di immagini“. Sei d’accordo con questa affermazione? Qual è per te il ruolo dell’immagine oggi?

SARA: Le immagini posso rappresentare i sentimenti meglio di quanto le parole possano esprimere perché non ci sono barriere linguistiche o temporali. Attraverso l’illustrazione l’empatia tra illustratore e spettatore è totale; inoltre possono essere un mezzo per tramandare insegnamenti.

DAVID: Siamo tutti produttori di immagini, ognuno produce le proprie, e le sovrappone alla realtà. Quando da illustratore mostro una mia opera a qualcuno mi accorgo che questi vi sovrappone le proprie immagini, dettate dalle idee, dai condizionamenti, dalla memoria. Questo penso spieghi perché davanti ad un’opera ognuno reagisce in maniera diversa e, addirittura, se la ricorda diversa da com’è. La realtà intanto resta sempre nascosta.

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Aristotele diceva che “l’anima non pensa mai senza immagini, e che pensare è come disegnare una figura”, cioè registrare e iscrivere, non si tratta solo del pensare per immagini, bensì di adoperare consapevolmente immagini e schemi per facilitare il pensiero. A tuo parere perché è così efficace la comunicazione visiva? Le immagini/illustrazioni possono essere informazioni visive tanto quanto un testo scritto o un documento?

SARA: Come dicevo le immagini sono ancora meglio di un testo perché riescono a comunicare i messaggi senza usare una lingua comune. In più possono raffigurare l’impossibile (ad esempio Escher), anticipare il futuro, cambiare le scale, le proporzioni. 
Se è impossibile “non pensare a un elefante” credo che potrei “non disegnarlo” pur suggerendolo!

DAVID: La comunicazione visiva, se usata bene, è una tecnica efficace per innestare nello spettatore idee per mezzo di immagini. Questo perché il senso delegato a percepire le immagini è la vista, il più connesso con l’intelletto, mentre udito, tatto e olfatto sono più vicine all’istinto o all’emozione. L’immagine di per se è sempre innocente, la sua manipolazione può esserlo meno: se usata con sincerità può permettere un racconto da cuore a cuore, diversamente diviene un mezzo di strumentalizzazione per generare bisogni.

Cornice_verticaleSara Penco

L’illustrazione veniva definita come “l’immagine che accompagna un testo”. L’illustrazione oggi è qualcosa di molto di più, ha superato il suo significato originale. L’illustratore non è più soltanto un “figurinaio” ovvero un artista che descrive un testo con un’immagine, ma è un autore egli stesso: costruisce immagini. Che cosa puoi dire degli illustratori d’oggi? L’illustrazione ha forse nuove finalità?

SARA: L’illustrazione oggigiorno ha decisamente nuove finalità. Sempre più spesso viene usata senza essere accompagnata dal testo anche in ambiti delicati e con missioni importati: dalla campagna pubblicitaria, alle copertine delle riviste, dei cd musicali, ai siti internet e alle applicazioni per smartphone e tablet. Non ha solo lo scopo di attirare l’attenzione in una frazione di secondo ma anche di raccontare una storia della quale è lei stessa protagonista.

DAVID: L’illustrazione oggi è sicuramente cambiata, come del resto è completamente cambiato il mondo della comunicazione. Personalmente sento che il passo successivo è cercare di trasformare l’illustrazione in Arte. I tempi credo siano maturi e così ho deciso di provarci. Per poter però cambiare la finalità di un medium bisogna per forza cambiare alcune delle sue regole. Quali cambiare e quali no, fa parte della sperimentazione. Se l’esperimento riuscirà non mi è dato saperlo.

A tuo parere l’illustrazione con l’avvento della tecnologia , del computer e delle immagini digitali è cambiata?

SARA: Molti illustratori utilizzano la tecnologia del computer per colorare le proprie illustrazioni ottenendo lavorazioni molto belle e complesse. È solo un altro modo di rappresentare le proprie opere. Certo, in certi casi la tecnologia agevola a livello tecnico, ma ci sono tuttora illustratori che lavorano comunque a mano con tecnica “classica”.

DAVID: Come dicevo tutta la comunicazione è cambiata. Il modo di fruirla è cambiato e sopratutto il modo di produrla. Moltissimi artisti producono esclusivamente illustrazioni digitali, e non conoscono le tecniche classiche. Del resto, i brand stessi richiedono per lo più illustrazioni digitali, in particolare vettoriali, questo per squisiti motivi tecnici, di riproducibilità e utilizzo. Il computer con l’avvento del “ctrl+z” ha comunque completamente cambiato il modo di produrre immagini.Sa

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Cosa puoi dire della figura dell’illustratore oggi?

SARA: All’estero, già da un po’ di anni, la figura dell’illustratore è tornata ad avere più appeal perché per le campagne pubblicitarie è stata messa da parte la fotografia in favore dell’illustrazione. In Italia si sta seguendo sempre di più questa scia.

DAVID: Qui in Italia capita spesso che quando dici che per lavoro fai l’illustratore le persone ti guardino con sguardo vacuo, a cui segue un “eh?” interrogativo. Oppure capita che se dici che fai il disegnatore ti rispondano ”sì ho capito, ma di lavoro cosa fai?”. Per fortuna qualcosa sta cambiando e pian piano anche il disegnatore sta arrivando ad avere una dignità professionale, anche se a mio avviso insufficiente, rispetto alla preparazione, al talento e alla costante ricerca che ci vuole per fare questo lavoro. All’estero le cose vanno meglio, con le dovute eccezioni, c’è una cultura più formata nell’ambito dell’illustrazione.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

SARA: Lavorare sulla mia tecnica per migliorare sempre di più e contribuire al proseguo del progetto Gusto Robusto.

DAVID: Non faccio grossi progetti a lungo termine, le cose cambiano troppo in fretta. Però ci sono molte cose che bollono in pentola per quanto riguarda il prossimo anno, staremo a vedere.

Ultima domanda dedicata ai nostri lettori, che cosa pensi della Filosofia?

SARA: Ho studiato filosofia al liceo. Mi è piaciuto studiare i filosofi delle varie epoche e come hanno cercato di dare delle spiegazioni al comportamento umano o al senso della vita. La filosofia è affascinante.

DAVID: Mi piace la filosofia, quando mira al proprio significato etimologico. Trovo che la ricerca della conoscenza dovrebbe essere la prima priorità dell’uomo, questo lo libererebbe da qualunque altro problema gli si possa presentare.GR_gloriaPERDAVIDDavid Sossella

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.
Paul Klee

L’arte può dirsi anche atto di totale sincerità nei confronti di se stessi, come se non esistesse nessun tipo di filtro tra l’opera prodotta e l’artista produttore, non esiste schermo che tenga tra le due parti, l’una è lo specchio dell’altra.

L’arte è espressione di una delle potenzialità che possiede l’essere umano, che possiede ogni persona, quella di elaborare in modo creativo tutto quel magma di sensazioni ed emozioni che altrimenti non riusciamo a far emergere con parole, ragionamenti e concetti.

L’arte, così come ogni altra attività creativa, ci mette a nudo, ci obbliga a scoprire noi stessi e così ad esporci, ci richiede un atto di estrema sincerità e trasparenza, di coraggio e apertura; non c’è maschera che tenga nel momento in cui l’artista dà forma alla materia. Attraverso l’azione creativa l’immagine interna diventa immagine esterna, e dunque visibile e forse anche condivisibile.

Tramite forme, disegni, colori, suoni e movimenti possiamo comunicare ciò che la nostra interiorità nasconde e che timidamente tiene per sè; così l’arte diviene espressione immediata, diretta, spontanea ma anche arcaica e istintiva di noi stessi, senza dover passare necessariamente attraverso l’intelletto.

L’arte è anche questo, il richiamo a guardare, scoprire, osservare anche in modo critico ciò che siamo, è la chiamata a riflettere, interrogare e valutare ciò che più di profondo ci appartiene, sia che siamo artisti sia fruitori.

Elena Casagrande 

www.manifactory.com

www.gustorobusto.com

[Immagini concesse da Sara Penco e David Sossella ]

La coscienza: un altro me stesso

La coscienza è il caos delle chimere, delle brame, dei tentativi; la fornace dei sogni; l’antro delle idee vergognose; il pandemonio dei sofismi; il campo di battaglia delle passioni.

Victor Hugo

La coscienza è senza dubbio uno dei concetti più difficili nel vocabolario dell’etica. Se chiediamo a noi stessi cosa la coscienza possa significare, questa ci appare già così viva e presente, come lo è la stessa sensazione di esserci. Non vi è dubbio che ciascuno di noi sente e percepisce di essere gettato, situato, presente all’esistenza, molto più difficile risulta sentire di essere presenti a se stessi, o meglio essere coscienti di sé e delle proprie azioni.

Quello che sembra essere un elemento condiviso quando si parla di coscienza è l’idea che questa sia il prendere consapevolezza di qualcosa o qualcuno, l’essere consapevoli di, rendersi conto di; molto spesso utilizziamo i due concetti come se fossero sinonimi, tant’è  sottile la differenza tra i due.

Penso sia necessario recuperare un significato di coscienza che non sia ridotto a semplice ‘capacità’ o ad una ‘facoltà’ della mente umana e componente parziale dell’uomo.

Molto spesso anche in ambito filosofico la coscienza viene ridotta a proprietà dell’uomo, in particolare a quella facoltà di conoscenza o autocoscienza; se pensiamo al Novecento il problema della coscienza si è allargato ulteriormente con l’introduzione dell’approccio psicanalitico di Freud: non è possibile ridurre la coscienza a consapevolezza di sé.

A questo si aggiunge poi il contributo in ambito scientifico ad opera delle neuroscienze e della psicanalisi, portando la questione sul piano ‘meccanicistico’ della dinamica della vita mentale e psichica. Per non rischiare che la questione si mantenga esclusivamente in ambito epistemologico o che venga ridotta all’analisi della relazione tra mente e corpo, dobbiamo porre attenzione più che alla conoscenza dei processi mentali, all’interpretazione dell’esperienza che viviamo, esperienza che rivela la sua natura di attività-passività; secondo la prospettiva fenomenologica infatti, ciò che è importante è che la prima attività del soggetto consiste nell’essere passivo rispetto all’oggetto. Sembra che la passività, intesa come alterità, come altro rispetto a noi, sia a fondamento delle nostre molteplici esperienze e così anche della nostra identità. Se la coscienza è sempre ‘coscienza di’, essa è sempre in rapporto ad un qualcosa che le è dato nella polisemia delle esperienze di vita.

Paul Ricoeur in Sé come un altro, individua tra le diverse figure di ciò che altro rispetto a noi, anche la coscienza: la coscienza come luogo del dialogo tra sé e se stessi, espressa dalla metafora della voce, è una passività senza paragone poiché essa è interiore e superiore a me. Ciò che per Ricoeur caratterizza la coscienza è il suo manifestarsi sia nella forma dell’attestazione sia in quella dell’ingiunzione morale. La coscienza proietta sulle diverse esperienze di passività che il soggetto incontra nel suo cammino, la sua forza di attestazione. Dal punto di vista ontologico, l’attestazione è la testimonianza ad opera del soggetto della sua radicale passività, del suo essere originariamente gettato nel mondo. L’ingiunzione morale invece costituisce

il momento di alterità propria al fenomeno della coscienza, conformemente alla metafora della voce. Ascoltare la voce della coscienza significherebbe essere ingiunto all’Altro ”

Paul Ricoeur – Sè come un altro

Altro che richiama il soggetto alla sua responsabilità morale attraverso la voce della coscienza.

Per Ricoeur questa passività che la coscienza incarna “consiste nella situazione di ascolto che a lui è rivolta alla seconda persona”.

Se la nostra identità è originariamente costituita di passività, proprio perché da sempre viviamo nel rapporto con ciò che altro rispetto a noi, la coscienza è la figura di passività più alta, poiché attesta, nel tessuto della nostra vita, ogni nostro modo di rapportarci all’altro, alle relazioni che instauriamo, alle situazioni che viviamo, attesta come percepiamo e riviviamo le esperienze, come affrontiamo i problemi, come giudichiamo le nostre azioni e quelle degli altri. Coscienza è molto più di consapevolezza o di autoconsapevolezza, la coscienza identifica ciò che siamo, identifica il soggetto nella sua totalità e nella sua unicità singolare.

Coscienza come Sé, come il racconto della nostra storia.

Elena Casagrande

[Immagini tratte da Google Immagini ]

Intervista ad Alberto Corradi: l’arte come atto catartico

Classe 1971, autore di fumetti, illustratore, visual artist e curatore: Alberto Corradi ci accompagna nella scoperta del suo percorso artistico esplorando quelle che sono le maglie complesse e intricate dell’illustrazione e del mondo dell’arte.

A partire dal 1993 le storie e le immagini di Alberto Corradi sono apparse in Italia e all’estero in riviste, antologie, graphic novel, mostre e progetti collettivi. Popolare per il suo stile unico, estremamente pop, ricco di personaggi e creature coloratissime, abbraccia lettori di tutte le età, collaborando con numerose e prestigiose testate come La Repubblica XL, dove ha realizzato dal 2006 i temibili personaggi di Mostro&Morto, e altre come Linus, Smemoranda e GBaby.

Ha esposto in diverse città italiane da Bolzano a Napoli spostandosi poi all’estero a Stoccolma, Parigi, Los Angeles, Seul e Belgrado sia in personali sia all’interno di collettive.

Negli ultimi anni ha collaborato con alcune band italiane tra cui Marco Notari, Facciascura e Yellow Moor, il nuovo progetto di Silvia Alfei & Andrea Viti (Afterhours, Karma, Juan Mordecai). I suoi graphic design coprono l’houseware con piatti (Stikka) e tazze (Les Éditions Mugs-design), l’interior design con wallpapers, carte da parati e orologi da parete (Stikka). Dal 2014 collabora con la società francese Extraverso alla realizzazione di una serie di cover / case per smartphone di nuova concezione

Alberto Corradi fa parte del supergruppo QU4TTRO, fondato nel 2013 insieme a David “Diavù” Vecchiato, Massimo Giacon e Ale Giorgini. Dal 2011 è il direttore artistico delle mostre internazionali del TCBF Treviso Comic Book Festival (Svezia -2011-, Nuova Zelanda -2012-, Danimarca -2013-, Portogallo -2014-).

Pinocchio

Ha realizzato inoltre il romanzo autobiografico Smilodonte, edito da Black Velvet Editrice e l’antologia senza parole Regno di Silenzio; attualmente sta lavorando su un graphic novel ambientato nel Seicento giapponese e sulla serie a fumetti per bambini “Il mostro nella tazzina” per il GBaby, mensile prescolare delle Edizioni San Paolo.

In che modo l’illustrazione è entrata a far parte della tua vita? Come si è sviluppata la tua tecnica nel tempo?

Nasco come autore di fumetti e solitamente ho due modi di costruire una storia: partendo da una visione/immagine che visualizzo nella mia mente, o da un testo che ho scritto in precedenza. Una illustrazione viene concepita più o meno nello stesso modo, mi ancoro a un sentimento profondo e cerco di portarlo a galla, qualcosa di indesiderato e sepolto, un sentimento che mantenga un leggero senso di disagio, che mi spinga all’urgenza di arrivare a una fine. All’illustrazione non ci pensavo all’inizio della mia carriera, ci sono arrivato tardi per la natura stessa del mio lavoro. Lavoro sull’immateriale il più delle volte, non uso / usavo figure o esseri umani per cui illustrare qualcosa connesso a un testo mi appariva un concetto piuttosto distante. Però è un qualcosa che mi è stato richiesto da subito da editori e committenti che di certo vedevano in me potenzialità maggiori di quelle che io stesso volevo immaginare. Per arrivare a delle illustrazioni che mi appagassero appieno sono dovuto tornare a dipingere: reimplodendo sulla materia surreale delle mie creature e delle mie simbologie ho trovato accesso a una nuova sorgente di motivazioni per creare delle illustrazioni, commerciali o puramente artistiche che fossero. La mia tecnica ancora adesso è per il 90% lavoro manuale, matite, pennelli e qualche rapido, poi implementato con photoshop o illustrator. Il mio mondo è sempre stato bidimensionale per cui un “eccesso di zelo” causato dai supporti digitali disponibili oggigiorno forse romperebbe un equilibrio così a lungo ricercato anche se, lo confesso, sono tentato da oggetti lucenti come le Cintiq.

Come definiresti il tuo stile? Hai avuto qualche maestro di riferimento o qualcuno a cui ispirarti?

Il mio stile è estremamente pop specie sul fronte illustrazione / graphic design, ma più di ogni altra cosa è Alberto Corradi.

Di certo hanno avuto un grande influsso su di me Massimo Mattioli (Pinky, e ancora di più Joe Galaxy) e Luciano Bottaro (Redipicche, Il Paese dell’Alfabeto e non ultime le sue saghe dedicate a Paperino), ma più per alcune tematiche e certo sentimento insito nell’opera di entrambi. Mi sono sempre sentito molto vicino a Mirò per il suo senso della composizione. Il mio stile deriva da una riflessione stilistica operata sul segno che già contraddistingueva i lavori dei primi anni della mia formazione, portata costantemente in avanti nel corso del tempo. Non ho mai copiato da nessuno, solo a 12 anni ho riprodotto una decina di disegni di John Hart da Wizard of Id e BC e un paio di alieni di Mattioli, su carta millimetrata, per poi pentirmene e distruggere tutto o quasi.

Come nasce e si sviluppa un tuo disegno?

Prima creo una bozzaccia per dare forma alla “visione” a cui accennavo in precedenza, comprensibile solo a me in pratica, per capire dove collocare ogni elemento, poi realizzo delle matite piuttosto dettagliate e ripasso il tutto. La composizione deve essere il più equilibrata possibile, è una cosa per cui mi danno ogni santa volta, ogni elemento deve essere motivato e trovarsi in quel punto per una valida ragione, anche se lascio al caso sempre un 10% della realizzazione. Quando sono libero da committenti o lavoro al progetto di qualche amico/collega mi capita di andare direttamente di pennello, agendo a mano libera sul foglio bianco. Passo molto tempo a soffrire sul concetto, mentre l’azione sul foglio è immediata, una blitzkrieg che si esaurisce in qualche ora e tutto deve essere chiuso prima di andare a dormire.Drago Apocalisse

Quale definizione attribuiresti all’ARTE? Che cos’è per te arte?

Riuscire a focalizzare le emozioni e il dolore in un atto catartico e fantastico in grado di elevare la persona a un altro livello della percezione.

Molti teorici dell’arte ritengono che non tutto ciò che è frutto di creatività può considerarsi un’ Opera d’arte. Athur Coleman Danto filosofo analitico e artista afferma che ciò che determina la differenza tra un semplice oggetto e un’opera d’arte è quel mondo dell’arte fatto di istituzioni, teorie e regole. Concordi con questa considerazione nel definire che cos’è un’opera d’arte?

Venendo dal fumetto e operando nel neo-pop / pop surrealism, strettamente apparentato proprio con i comics (tanto quando la Lowbrow), ragiono sempre sulla necessaria dose di astrazione che separa due media correlati ma per certi versi così distanti come fumetto e pittura / illustrazione. Ma questo vale per me: non ritengo esista una regola, sono convinto che l’unica regola che definisca l’Arte sia l’artista stesso nel momento in cui la pratica, un atto magico, un atto su cui baso gran parte della mia ricerca, tutto il mio lavoro cela simbologie e tematiche ricorrenti. Uno dei livelli di lettura del mio romanzo (autobio)grafico Smilodonte (Black Velvet Editrice, 2007) tratta proprio l’importanza delle valenza magica di immagini e parole negli anni della mia formazione. Ma il problema è la veridicità dell’atto magico, dell’applicazione dell’Arte all’opera.

Maurizio Ferraris afferma che “avere rappresentazioni è la condizione dell’agire e del pensare, che sono le caratteristiche generalmente attribuite ai soggetti. […] così pure il desiderio o il timore, l’amore o l’odio, e insomma tutta la gamma dei sentimenti hanno bisogno di immagini. “sei d’accordo con questa affermazione? Qual’è per te il ruolo dell’immagine oggi?

L’immagine deve colpire, inquietare, emozionare ed estraniare lo spettatore dal contesto del reale che lo circonda proprio per poterlo ricondurre al reale e al contesto a cui l’immagine è collegata se si tratta di una illustrazione, o perderlo definitivamente se si tratta di un’opera pura e semplice (guardate un’opera di Charlie Immer, poi provate a tornare indietro). Dare immagini ai sentimenti è solo il primo passo, ma ormai la pittura e l’illustrazione assolvono un nuovo compito che bypassa il committente, un confine sempre più labile dove lo stile cela ragioni più profonde, e assistiamo alla necessità da parte del creativo di definire nuovi sentimenti con nuove immagini. Edward Gorey, David Lynch, Mark Ryden, Gary Baseman sono riusciti da tempo a portare nuovi semi dalle zone di confine dell’immaginario, non voglio fare elenchi, ma ritengo che l’illustrazione stia andando in questa direzione da tempo, cito Shout tra gli italiani, ma non riesco a togliermi dalla testa che un quadro di Ale Giorgini in scala di grigio potrebbe stare tranquillamente appeso nella camera d’albergo dell’agente Cooper nell’annunciata nuova stagione di Twin Peaks.

Aristotele diceva che “l’anima non pensa mai senza immagini, e che pensare è come disegnare una figura”, cioè registrare e iscrivere, non si tratta solo del pensare per immagini, bensì di adoperare consapevolmente immagini e schemi per facilitare il pensiero. A tuo parere perché è così efficace la comunicazione visiva? Le immagini/illustrazioni possono essere informazioni visive tanto quanto un testo scritto o un documento?

Concordo con Aristotele. La comunicazione visiva è efficace non solo perché quello dei segni è un linguaggio universale, per cui soggetto a codifiche, ma perché prima di essere codifica nasce come opera d’arte, quindi parte da quella capacità di instillare emozioni che è caratteristica principale dell’Arte. Penso ai geroglifici egizi o all’alfabeto alle sue origini: la nostra lettera A non è altro che una testa di bue capovolta, l’Aleph degli antichi fenici, un bue che prima di essere trasformato in convenzione molto probabilmente era un’opera d’arte primitiva, evoluta in segno nel corso del tempo. L’immagine e insiemi di immagini sono sempre stati impiegati nel corso dei secoli per raccontare e informare le persone capaci e incapaci di leggere, gli affreschi su palazzi e interni alle chiese (che illustravano parti dell’Antico e del Nuovo Testamento) ad esempio o la pittura d’infamia in epoca comunale, dove il condannato (anche se ancora vivente e spesso esule) veniva ritratto nell’ora del suo supplizio appeso per lo più per un piede, con artisti del livello di Andrea del Castagno o Andrea del Sarto a realizzare l’opera. L’illustrazione / opera d’arte assolveva quindi funzione di servizio pubblico. Certo, si tratta di diverse frequenze su cui viaggiano le informazioni, per cui non possiamo attestarci su un categorico “tanto quanto”, ma una illustrazione può informare e andare oltre, descrivendo e ispirando sentimenti ed emozioni, come un testo.QUESTA E' L'ORA

L’illustrazione veniva definita come “l’immagine che accompagna un testo”. L’illustrazione oggi è qualcosa di molto di più, ha superato il suo significato originale. L’illustratore non è più soltanto un “figurinaio” ovvero un artista che descrive un testo con un’immagine, ma è un autore egli stesso: costruisce immagini. Che cosa puoi dire degli illustratori d’oggi? L’illustrazione ha forse nuove finalità?

Ancora adesso viene richiesto a molti professionisti di accompagnare il testo, ma appunto, chi si limita a questo oggi più che mai sta al di qua del confine dell’immaginario di cui ho fatto menzione in precedenza. L’illustratore oggi vive in un contesto nuovo, l’uomo è imploso, collassato su se stesso, la società stessa è implosa, gli illustratori del passato erano testimoni dell’“esplosione” della società, del boom economico, del divenire della vita nella società industrializzata. Adesso sono testimoni della sopravvivenza di questa società, la carne è messa a nudo, le cartilagini esposte. Bisogna vedere e saper prendere la mira: per citare il dizionario anglosassone “to see” è sia vedere che sapere, al contempo. Prima l’illustrazione commentava, ora è testimone.

A tuo parere l’illustrazione con l’avvento della tecnologia, del computer e delle immagini digitali è cambiata?

Tutto si evolve, anche se a volte le cose più cambiano più restano le stesse: abbiamo programmi che “mimano” tutte le tecniche di colorazione, dai pastelli agli acrilici o che permettono il 3D modeling, ma la cosa che più mi impressiona è il pensiero di quanto fossimo lenti negli anni Ottanta senza computer (per non parlare del margine di errore su misure e scale cromatiche) e di quanto mi pare di essere lento ancora adesso seppur munito di tecnologia. E nonostante tutto ci siamo paurosamente velocizzati! Il pensiero è sempre più veloce della mano. Sì ci sono stati logicamente dei cambiamenti, anche se alla fine il “limite” resterà sempre l’estensione umana della macchina, cioè noi, quello splendido “limite” che definisce la biodiversità di ogni singolo artista.Eye Cherubium

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sono all’opera su tre nuovi romanzi grafici e presto ripartirò a lavorare sulla mia nuova serie di quadri, Pink Darkness, inaugurata a inizio anno con la personale Pop Alone presso l’Hangar Tattoo

Studio & Art Gallery in Via dei Marsi, a San Lorenzo a Roma. Ho una nuova personale in programma, mentre sul fronte del graphic design stanno per arrivare un paio di novità, una è un progetto collettivo in compagnia di vari illustri colleghi, mentre nell’altro caso mi dedicherò al mondo degli skaters, un ambito che mi ha sempre affascinato.

Ultima domanda dedicata ai nostri lettori, che cosa pensi della Filosofia?

Della Filosofia? Panta Rei.Il Congresso dei Corvi

“L’osso è metafora suprema della verità, mentre il corpo è metafora della menzogna del vivere ogni giorno senza sapere perché”.

Così Alberto Corradi introduce il suo blog intitolato Ossario e delinea uno dei suoi topoi grafici che ricopre una parte fondamentale del suo percorso artistico da molti anni.

Quello che percepiamo chiaramente quando ci confrontiamo con una delle illustrazioni di Corradi è questa continua tensione tra il corpo, inteso come carne, che viene investito da molteplici ambiguità, differentemente dall’osso e della struttura scheletrica del corpo che invece ne annienta le ambiguità.

L’abilità di Corradi, a mio parere, si cela proprio nella sfida continua di voler comunicare un arcobaleno di emozioni e sentimenti tramite l’espressività statica e la nudità dello scheletro umano.

Se da un lato alcuni dei suoi lavori possono inquietarci, colpirci ed estraniarci dal reale, in un secondo momento questi ci riconducono alla nudità del reale, invitandoci a riflettere, e a cogliere la vita nelle sue più diverse sfumature.

L’arte come grande metafora della vita, così potremmo intendere il lavoro di Alberto Corradi, un’arte permeata di simbologia, intesa come un profondo atto catartico, non solo dalla parte dell’artista ma dallo stesso fruitore, il quale può, attraverso di essa, rileggersi, rileggere ciò che lo circonda e reinterpretare le esperienze del proprio vissuto.

Elena Casagrande

Blog: www.ossario.blogspot.it

FB: www.facebook.com/pages/Alberto-Corradi

[immagini concesse da Alberto Corradi ]

Sperare è quasi sognare

La speranza sembra essere un elemento dominante nella nostra vita, ancora di più se pensiamo ai momenti deboli e difficili della nostra esistenza o alle situazioni incerte e instabili cui molto spesso siamo chiamati ad affrontare. In tempo di crisi e sconforto, la speranza sembra elevarsi all’unica roccaforte reale dalla quale ricavare sollievo e sicurezza.

La speranza connota e distingue l’uomo dagli altri esseri viventi, come altrettanto la ragione, la cultura, il linguaggio, l’arte ecc. Dal latino spes, la speranza è propriamente quel sentimento di attesa fiduciosa nei confronti del futuro; essa appartiene all’essere umano nelle sue radici più profonde poiché questi è un essere dinamico, in continuo movimento perché incompiuto, un essere teso sempre verso il futuro.

Da grandi ricercatori di sicurezze quali siamo, consideriamo la speranza quell’unico sentimento in grado di metterci al riparo dalle grandi incertezze che la vita ci sottopone, piccole e grandi che siano.

Tommaso nel definire la speranza la pone a confronto con un altro sentimento affine con il quale spesso facciamo confusione, il desiderare. Così come la speranza, anche il desiderio, per S. Tommaso, è quel movimento verso un oggetto o un qualcosa che ancora non possediamo; la speranza però si distingue dal desiderio sotto due aspetti: innanzitutto il desiderio può riguardare qualsiasi bene, mentre la speranza riguarda un bene arduo e difficile; secondo “il desiderio è rivolto a qualsiasi bene, indipendentemente dal fatto che sia possibile o impossibile; invece la spe­ranza è volta a un bene raggiungibile e im­plica una certa sicurezza di poterlo raggiun­gere

Per Ernst Bloch, scrittore e filosofo tedesco marxista, la speranza è intesa come desiderio, desiderio che non è, e non potrà mai essere, una virtù in senso trascendentale.

La speranza è una proprietà universalmente umana, basata sulla più universale proprietà umana, intendo dire il desiderio e, ad un livello superiore, la nostalgia

È propriamente quel desiderio di rendere presente il futuro, è quella possibilità di conferire una forma concreta a ciò che non è ancora e a ciò che sarà. La speranza è quella forza di voler definire la realtà in termini razionali quando, in verità, a caratterizzare la realtà è solamente il dubbio.

L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono 

Così come per Bloch, dobbiamo considerare la speranza una delle nostre più grandi risorse, ciò che ci sprona a vivere e affrontare positivamente ciò che il futuro riserva per noi e per le persone presenti nella nostra vita; attraverso la speranza riusciamo a guardare al domani con forza vitale e con fiducia.

La speranza è presente nella nostra quotidianità in molte forse diverse: a partire dai nostri sogni, nelle nostre aspirazioni e ambizioni, nelle aspettative che riponiamo ogni giorno, nella forza della nostra immaginazione. Sperare come sinonimo di credere, costruire, lottare.

La speranza è un sogno fatto da svegli.

Aristotele

Elena Casagrande

[Immagini tratte da Google Immagini]

Il gioco dell’abitudine

Sembra che tutto si giochi sul l’abitudine: abituarsi al cambiamento, abituarsi alla presenza o assenza di una persona, abituarsi ad un nuovo luogo, a nuove attività o a nuove persone.
Abitudine come sinonimo di routine, non rimane il tempo per abituarci a un qualcosa che subito siamo chiamati a disabituarci a qualcos’altro. Può considerarsi questo l’effetto del nostro desiderio di regolarità? Della nostra tendenza ad aver tutto sotto controllo? Può l’abitudine essere la nostra risposta ad un profondo desiderio di sicurezza?

Tutti noi abbiamo delle abitudini e siamo abituati ad averne, il solo fatto di essere abituati a qualcosa comporta il non prestarci attenzione o addirittura a non farci caso. Molto spesso riteniamo che l’abitudine e l’abituarci a sia la soluzione perfetta di fronte a dei cambiamenti non voluti, a delle novità che difficilmente accettiamo, alla perdita di tua persona o di qualcosa a noi caro; “l’abitudine rende sopportabili anche le cose spaventose” direbbe Esopo.

Siamo convinti che questa possa ridurre il rischio di eventi accidentali, la possibilità di incontrare ostacoli insormontabili o di vivere situazioni a noi estranee e ingestibili. Sembra che la vita sia il grande gioco delle abitudini, sia buone e cattive che siano.

Il termine abitudine deriva dal latino habitudo, da habitus che indica una nostra qualità o una caratteristica e che deriva a sua volta dal verbo habere, possedere. Abitudine quindi come il possesso di una caratteristica o comportamento stabile, acquisito attraverso la ripetitività o la consuetudine ad essere o agire in un determinato modo. Aristotele definiva l’abitudine

 come una cosa che somiglia alla natura: la natura è ciò che si fa sempre, l’abitudine ciò che si fa spesso Metafisica

Se da un lato è evidente il ruolo fondamentale dell’acquisizione di abitudini all’interno del processo di sviluppo della persona, pensiamo alle conoscenze di tipo pratico-procedurale (saper fare) dall’altro non ci rendiamo conto di quanto l’abitudine spesso diventi una vera e propria strategia di vita. L’abitudine sembra essere la nostra risposta alle sfide che la vita quotidianamente ci pone, il miglior modo per economizzare le nostre energie fisiche e mentali, il mezzo più semplice per reagire a diverse situazioni.

Forse confondiamo troppo spesso l’abitudine con l’avere tutto sotto controllo, emozioni e sentimenti compresi, cerchiamo l’abitudinarietà delle cose perché cerchiamo fondamentalmente la regolarità, la sicurezza, il controllo; vediamo l’abitudine quale luogo sicuro e protetto, attraverso l’abitudine ci sentiamo meno vulnerabili e più forti e con essa teniamo lontano l’ignoto.

Da grandi abitudinari che siamo ci dimentichiamo di apprezzare e riconoscere il valore di tutte le nostre azioni, anche di quelle più semplici, di provare sempre lo stesso entusiasmo delle prime volte; schiavi dell’abitudine ci dimentichiamo di rinnovare ogni giorno l’amore, l’amicizia e l’affetto che ci lega alle persone care della nostre vita e troppo spesso, offuscati dalla routine della nostra vita non riconosciamo più l’importanza della spontaneità, del mettersi in gioco e del rischiare.

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine: chi non rischia la certezza per l’incertezza nel seguire un sogno”Pablo Neruda

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]

Scelta e cambiamento

Probabilmente non ce ne rendiamo conto, ma tutta la nostra esistenza è caratterizzata da una serie infinita di scelte: siamo costantemente chiamati a scegliere e tutto ciò che facciamo ogni giorno della nostra vita è frutto di una scelta. Anche quando non facciamo niente, in realtà abbiamo scelto consapevolmente di non scegliere, ma abbiamo scelto comunque. È chiaro dunque che

Ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere.

Jean-Paul Sartre,

Ci sono delle scelte che possiamo definire automatiche perché insite nei nostri meccanismi di apprendimento, per le quali emettiamo comportamenti in automatico senza renderci conto di aver fatto una scelta. Altre volte invece ci troviamo a dover affrontare situazioni per le quali la scelta risulta necessaria, innescando così processi di riflessione e valutazione. Read more

La forza del perdono

Siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze: questa è la prima legge di natura.

Voltaire

Una delle cose che risulta più difficile per l’essere umano è il saper perdonare; molto spesso siamo convinti che il perdono sia un semplice atto riducibile all’espressione “mettere una pietra sopra” o che basti il solo dimenticare per ripristinare un rapporto.

Un’errata concezione del perdono ritiene che chi perdona sia un debole; tale considerazione però porta con sé delle domande: se il perdono è veramente la risposta dei deboli, perché risulta così difficile? Perché ci costa così tanto? Pur sapendo che sia giusto, perché lo concediamo con così tanta fatica? Read more

Una rabbia costruttiva


La rabbia è una follia momentanea, quindi controlla questa passione o essa controllerà te.

Quinto Orazio Flacco, Epistole, 20 a.e.c.

Quante volte nell’arco della nostra vita e delle nostre giornate abbiamo sentito i nostri occhi diventare rosso sangue, i muscoli del viso contrarsi e sentito un’anomala vampata di calore nel petto? Chi a seguito di un risultato insoddisfacente, chi a seguito della perdita del proprio lavoro o vittima di ingiustizie, chi a seguito di una delusione amorosa nei confronti di un fidanzato/a o nell’aver ricevuto un torto da un amico.

È chiaro che la rabbia ci appartiene più di quanto possiamo immaginare vista la pluralità di situazioni nelle quali questa si può sviluppare, anche per coloro capaci di controllarla, gestirla e anche reprimerla.

La rabbia possiede diversi modi di manifestarsi e talvolta risulta essere la maschera di qualcos’altro. Esiste inoltre una rabbia del tutto diversa che potremmo definire “rabbia silenziosa”, priva di manifestazioni fisiche esteriori evidenti ma che si condensa in una specie di magma interiore. Read more