Il dubbio nell’arte: il surrealismo psicoanalitico di Max Ernst

<p>F6EBYP Max Ernst - The Fireside Angel (The Triumph of Surrealism)</p>

Instancabile pensatore e prolifico artista, Max Ernst è una delle più eminenti personalità del XX secolo e protagonista d’una nuova e suggestiva mostra a Palazzo Reale (MI) a partire dal 4 ottobre 2022. In questo grande pittore tedesco naturalizzato francese convivono diverse sfaccettature, a partire dalla formazione filosofica che s’intreccia con la passione per la storia dell’arte e per il mondo onirico. Sotto l’influsso di De Chirico, del movimento dadaista ed in seguito di quello surrealista e dopo diversi studi su Freud e l’inconscio, inizia ad esprimere la propria vocazione artistica nei collages, nei quali convivono paesaggi onirici, figure ambigue, surreali, eterogenee.

Ernst vive tra il 1891 ed il 1976, riporta sulla propria pelle le ferite di un’epoca lacerata dalle guerre, teatri di violenza e sofferenza tanto fisica quanto psichica, che lo spingono ad immaginare una realtà inattuale, differente da quella presente da lui vissuta. A tal proposito vi sono diversi bizzarri aneddoti sulla sua vita, tra cui la sua strana passione per il mondo ornitologico nata da un episodio infantile: il suo pappagallo morì il medesimo giorno della nascita della sorellina, evento grazie al quale Ernst si convinse che l’anima dell’uccello si fosse trasferita nella neonata. Affermava persino di essere nato da un uovo d’aquila che sua madre aveva messo in un nido e nei suoi lavori appare frequentemente LopLop, una sorta di uccello supremo con cui si identificava.

Il processo creativo di Ernst trova ispirazione proprio nella capacità che i volatili hanno di abitare tra terra e cielo, facendosi trasportare da raffiche di libertà durante i loro voli. Questa metafora richiama il suo stile pittorico, eccentrico e basato su giustapposizioni di figure che prendono forma grazie ad un lessico che non può essere ingabbiato nella logica tradizionale. L’arte, per Ernst, è uno strumento che permette di scandagliare i fondali della realtà in tutta la sua arcana varietà, muovendosi sul palcoscenico della vita che mette in scena se stessa dopo essersi spogliata di quella parvenza di integrità che tenta di coprire i propri aspetti più scuri e catastrofici. L’arte è, per Ernst, ciò che permette di immergersi nel buio, andando oltre la luce; egli diceva, infatti, che «per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi, ma per comprenderla bisogna chiuderli» (A. Morandotti, Minime, 1980). Solo dopo aver scoperto il buio è possibile incontrare il dubbio; non a caso questo potrebbe essere uno dei principi cardini della filosofia, l’unico in grado di porci in ascolto di noi stessi, di fermare il flusso inesorabile del tempo comprendendo che non sempre la verità risiede nell’apparenza e nell’immediatezza. Il dubbio può mettere in difficoltà l’essere umano, in quanto lo priva delle proprie certezze, ma è l’unico modo che egli ha di accettare la vita nella sua totalità e nelle infinite possibilità che gli si presentano dinanzi, parafrasando Heidegger.

L’arte di Max Ernst incarna proprio questo principio: la vita che agisce nella sua totalità secondo la logica tradizionale ma che possiede delle venature inconsce, ambigue, oniriche che possono essere riportate sulla tela. Ed ecco che l’arte si qualifica non come la raffigurazione passiva di ciò che ci circonda, ma come un metodo di approfondimento del mondo e delle sue sfuggenti sfaccettature. Come scrive Jung nella sua opera del 1964, infatti: 

«Le idee creative rivelano il loro valore per il fatto che, come chiavi, servono a dissuggellare connessioni di fatti prima incomprensibili, e consentono quindi all’uomo di penetrare più a fondo nel mistero della vita» (C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, 2020).  

 

Elena Alberti

 

[immagine tratta da Google immagini]

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La bellezza oggi, tra social e profondità dell’immagine

Nella frenetica epoca delle tecnoscienze, del digitale e dell’avvento dei social media, com’è possibile respirare l’integralità dell’esperienza della bellezza?

Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, col suo lucido sguardo sul presente, nel suo libro La salvezza del bello propone una tesi alquanto angosciante: l’essere umano che nasce e cresce nell’era digitale fatica sempre più a dialogare con la profondità dell’esperienza della bellezza artistica. Condensando in poche pagine la lunga storia del bello, citando grandi capisaldi della filosofia come Platone, Nietzsche, Walter Benjamin, Gadamer e Adorno, Han ci invita a riflettere sulla deriva estrema della nostra esperienza estetica nell’epoca dei social media, di quelle immagini che lui definisce levigate. La prima riga del testo preso in questione recita proprio: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019).  Il nostro tempo è prigioniero di immagini piatte, levigate, setose: aggettivi perfettamente calzanti per la superficie degli smartphone che tutti noi abbiamo in tasca e che sembrano essere divenuti parte integrante del nostro organismo. La levigatezza di tali immagini rappresenta la superficialità, la fatuità, la corrività di immagini che quotidianamente sottoponiamo ai nostri occhi, a partire dalle decine di stories di Instagram o i diversi TikTok che si susseguono senza fine secondo un algoritmo e che guardiamo attraverso un rapido movimento dell’indice.

Ma è questo l’unico modo d’incontrare l’immagine? Cosa accadrebbe se ciascuno di noi interrompesse tale vacuo ed irriflessivo flusso di figure per provare ad addentrarsi in un’esperienza del bello abissalmente profonda? L’incessante proliferazione di immagini ci spinge ad impigliarci sempre più nella rete del consumismo che genera una produttività spinta all’estremo, dannosa sia per i suoi effetti ansiogeni sulla vita degli individui sia per il sovrasfruttamento del pianeta che abitiamo. E questo sistema bulimicamente consumistico mostra la vita nel suo strato più superficiale: un andirivieni di frammenti lisci, levigati, come le sculture dell’americano Jeff Koons.

A questa visione che ristagna nella piattezza, è possibile contrapporre un nuovo metodo per affrontare l’immagine, senza relegarle il compito di puro intrattenimento: soffermarsi sull’esperienza del bello che non accarezza soltanto, bensì ferisce, trafigge. È la bellezza abissalmente profonda della teatro greco, che fa esclamare che «lì c’è qualcosa che mi scuote, mi sconcerta, mi mette in questione» (ibidem). Secondo il grande filosofo tedesco Gadamer, fare esperienza dell’arte (e quindi anche dell’immagine) significa riconoscere che essa ha un potere trasformativo sull’esistenza umana, essendo una scossa estetica ben diversa dalla riduttiva immagine digitale che s’incontra quotidianamente e con più facilità.

La potenza dell’immagine impigliata nella rete digitale viene spogliata delle proprie increspature, delle proprie ferite e viene così ridotta a un’eccitazione momentanea destinata a non riemergere dalla massa di ricordi che nel corso dell’esistenza si sedimentano e vengono sommersi da altri eventi più importanti. E tale operazione – come mostra Han in un altro suo testo, La società senza dolore – non è altro che il riflesso di un mondo terrorizzato dalla sofferenza, la quale viene sempre più mascherata e celata in una società, che potremmo definire digitale, che delega al dito indice di coloro che ne fanno parte il compito di muoversi in un’infinita costellazione di volti, luoghi ed immagini che, salvo alcune eccezioni, difficilmente restano impresse tanto quanto la vista coi propri occhi di un mare burrascoso, di un roseo tramonto o di una grande opera artistica. Per questo è importante promuovere e fare esperienze di reale ed autentica bellezza, togliendo la polvere da uno sguardo (ahimè) talvolta assuefatto dalla natura, dai paesaggi e dalla grande arte di cui il nostro mondo pullula. Sta a ciascuno di noi scegliere quotidianamente se accontentarci dell’acqua limpida e cristallina della superficie o sforzarci di scandagliare i fondali di quell’acqua profonda, intensa la cui bellezza non accarezza bensì colpisce, trasformandoci.

 

Elena Alberti

 

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Il vincente e dialogico rapporto tra filosofia e sport

In questo breve articolo fornirò un’argomentazione di quello che ho chiamato il vincente e dialogico rapporto tra mente e corpo, soffermandomi sul fecondo intreccio tra filosofia e sport. Come possono questi due ambiti apparentemente così differenti avere un punto di contatto?

Sport e filosofia sono due discipline che trovano la loro origine in Grecia, ove la vigorosità del corpo e quella della mente erano considerate collegate e complementari al fine di riuscire a perfezionare se stessi. Viene superato così un insignificante dualismo che riconduce mente e corpo a una netta separazione, facilmente confutabile attraverso quelli che la psicologia definisce sintomi psicosomatici, ovvero le parole attraverso cui il nostro corpo esprime un possibile disagio psichico. Ne è un esempio il burnout, termine di origine inglese recentemente entrato nel lessico quotidiano significante bruciato, scoppiato. Il burnout è una condizione di stress cronico e persistente associato sempre con maggiore frequenza al contesto lavorativo. Gli Antichi lodavano l’attività fisica principalmente per le sue capacità educative e di sviluppo armonico delle persone, che attraverso lo sport imparavano ed imparano la disciplina, il rispetto delle regole, la gestione e l’organizzazione del proprio tempo, la cooperazione e l’accettazione della sconfitta, nella consapevolezza di trovare la forza, sia fisica che mentale, per migliorarsi quotidianamente.

Non tutti sanno che Platone, oltre ad essere il celebre filosofo fondatore dell’Accademia, fu anche un lottatore. Nel Timeo si legge, infatti, che «chi si dedica alla ricerca scientifica o qualche altra intensa attività intellettuale bisogna che anche al corpo dia il suo movimento». La filosofia, potremmo dire, è nata con lo sport, «vale a dire con quella cultura agonale del dialogo e del confronto equo tra pari che ispirava le antiche competizioni greche»1. Platone concepisce la filosofia come «dialogo vivo, corpo a corpo, lotta ed insegna ai suoi allievi assetati di conoscenza la epimeleia heautou, ossia la cura di sé come allenamento e combattimento permanente, perché nella vita ci si trova nella posizione di un lottatore che dev’essere in grado di fronteggiare, con coraggio, gli eventi». Ed è così che gli atleti agonistici di alto livello sono sempre più affiancati dalla figura del mental coach, professionista che guida a instaurare un self talk positivo ed efficace, aiutando l’atleta a rimuovere autosabotaggi e ad avere consapevolezza delle proprie capacità durante tutto il tempo della competizione.

Lo sport può inoltre rappresentare un microcosmo sociale in cui emergono implicazioni etiche e valoriali che possono essere indagate con sguardo critico. L’attività sportiva, infatti, è a priori una pratica umana in grado di generare valori. Per questo, se si assume una prospettiva filosofico-educativa per parlare di disciplina sportiva, emerge che la potenzialità dello sport risiede nel dare la possibilità ad adulti, ma anche bambini ed adolescenti di venire a contatto con concetti morali come onestà, equità, giustizia e rispetto reciproco tra avversari e compagni di squadra. Tali  valori si scontrano rumorosamente, come sottolinea il filosofo francese Jacques Deridda, con le pratiche di doping e le logiche di potere che sappiamo fare anch’esse parte del mondo agonistico, da cui può emergere un’interessante riflessione su come l’essere umano cerchi sempre più di spingersi oltre i propri limiti, tema ben inserito all’interno della nostra società ipertecnologica che mostra l’essere umano come in-finito e onnipotente.

Per concludere, non posso tralasciare uno dei grandi portavoci del rapporto tra filosofia e sport: Julio Velasco, allenatore di pallavolo argentino naturalizzato italiano con alle spalle un’immensa carriera. Uno dei suoi aforismi più importanti recita, infatti, «che il vero talento ce l’ha chi ha la capacità di apprendimento e la mantiene nel tempo, frase che riflette profondamente la sua formazione filosofica». Se la filosofia, infatti, è l’inesauribile amore per la sapienza e la conoscenza, lo sport è l’inesausta ricerca del miglioramento, della perfezione del gesto tecnico, della volontà di resistere e mantenere concentrazione e performatività fino all’ultimo secondo della partita. E se, come afferma Velasco, «allenare è un’arte», è impossibile non fare un riferimento artistico al Discobolo, scultura realizzata da Mirone nel 455 a. C., statua raffigurante l’atleta nell’atto di lanciare il disco, durante una competizione sportiva. Uno dei punti di forza di tale scultura è l’armonia della composizione, che richiama la consonanza armonica tra filosofia e sport, tema che, come ho mostrato, abbraccia l’umanità in tutta la sua storia.

 

Elena Alberti

 

NOTE:
[1] E. Isidori, Filosofia dello sport, 2011.
[2] S. Regazzoni, La palestra di Platone: Filosofia come allenamento, 2020.

[Photo credit Martin Sanchez via unsplash.com]

la chiave di sophia

“Il cervello è più esteso del cielo”: poesia e astronomia in dialogo

«The Brain is wider than the Sky/ For put them other will contain/ with ease and you beside». (Il cervello è più esteso del Cielo/perché mettili fianco a fianco/l’uno l’altro conterrà/ e tu accanto). Così ha inizio uno dei più celebri componimenti dell’enigmatica poetessa americana Emily Dickinson (1830-1886), nota per la sua insolita e solitaria vita vissuta prevalentemente nella sua dimora. Proprio nei foglietti ch’ella ripiegava e cuciva tra loro con ago e filo, Dickinson trova un luogo sicuro ove esprimere e incidere la propria acuta sensibilità, una qualità sempre eccessivamente denigrata in un mondo da cui la poetessa decide di ritirarsi, immergendosi nei suoi brillanti e introspettivi versi. I suoi componimenti riflettono una fervida e prolifica immaginazione che s’intreccia a temi d’ampio respiro come l’immobilità, la solitudine e il silenzio, elementi che hanno contraddistinto la sua breve vita. Al contrario di altri poeti suoi contemporanei, la cui ambizione era descrivere idilliaci e lontani luoghi con cui avevano modo di nutrire la loro vista e la loro esistenza, Dickinson descrive i paesaggi dell’animo umano, insegnandoci come sia possibile vedere con gli occhi del cuore e della mente molti più luoghi di quanto uno sguardo superficiale potrebbe notare.

L’arte, in questo caso la poesia, ci offre la possibilità di scrutare con occhio vivace e instancabile curiosità gli spazi in cui siamo immersi e da cui non possiamo ritirarci, neppure chiudendoci nella nostra stanza. La poesia non è solo frivolezza intellettuale ma, richiamando la sua etimologia greca poiesis, ossia creazione, è un atto creativo che permette di scrutare la realtà. Lo sguardo del poeta è uno sguardo nuovo, aperto a sinestesie, connessioni apparentemente illogiche di parole, forme, colori che portano a scandagliare la realtà esistenziale scoprendone le sfumature che l’essere umano ha il privilegio d’indagare, se animato da un’impavida volontà di rompere la glaciale superficie su cui sarebbe più comodo sostare. Tale postura dello sguardo ci aiuta a riconoscere la bellezza intrinseca di ciò che ci circonda in un mondo talmente rapido e iperattivo che talvolta non concede il tempo di contemplarla.

Questa modalità di osservazione fortemente riscontrabile nello sguardo dell’artista è talvolta visibile anche in quello dello scienziato. Il noto cosmologo e astrofisico britannico Steven Hawking (1942-2018) invita con un’emblematica frase pronunciata nel 2016 durante una lezione tenutasi al Royal Institution di Londra, a «guardare le stelle e non i tuoi piedi». Ammirare le stelle significa alzare lo sguardo, riconoscere che dietro la finitezza della nostra vita può esservi un’infinita bellezza che soggiace all’esistenza e che va indagata con un occhio che si nutre della beltà che con pazienza riesce ad intuire e riconoscere.

Questa volontà di vedere il mondo con una prospettiva diversa rende gli intellettuali, anche in un’epoca così colonizzata da logiche utilitaristiche ed economiche, ancora figure fondamentali per pensare la viva complessità che tiene insieme ambiti come scienza, filosofia e arte che apparentemente risultano così differenti in una società come la nostra che tende a formare professionisti sempre più specializzati in un unico settore. L’intellettuale, se considerato in tale ottica, è colui che abbraccia la ricchezza interdisciplinare non solo di contenuti ipostatizzati, bensì anche di prospettive e saperi che s’intersecano uscendo dalle asettiche recinzioni in cui spesso vengono richiusi. Tale riflessione è importante per lasciarsi meravigliare dagli infiniti sentieri di conoscenza che il pensiero ci permette di percorrere, avendo il coraggio di abbracciare l’ignoto, come l’Icarus di Matisse cerca di fare nel celebre dipinto del 1944 nel tentativo di raggiungere le stelle.

Questa è la prospettiva con cui dovremmo pensare e intendere lo studio, la ricerca: la possibilità d’incontrare un sapere che non si lascia afferrare e che c’invita ad andare sempre più in profondità, poiché l’approccio dell’intellettuale aperto alla complessità può fare la differenza in un mondo che ancora fatica a concedersi tempo per contemplare ciò che non è preda dell’immediatezza.

 

Elena Alberti

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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