Per Anna Marchesini, attrice dalla vita “obesa di vita”

Nel 2014, rivolgendosi a Fabio Fazio che le chiese quale fosse per lei il senso della vita (una domanda facile, vero?!), Anna Marchesini, ormai straziata dall’artrite reumatoide, con una parlata strascicata ma dignitosa, quella di una grande persona e di una grande donna – una di quelle creature che non si arrende, e non vuole farlo, che vive di futuro come chiunque altro vivrebbe di ossigeno – rispose con una di quelle frasi che, se ascoltate, non può che cambiare il tuo modo di vedere le cose: «Sono così interessata, appiccicata, morbosamente ghiotta, obesa di vita che mi interessa pure la morte, che di essa è il finale e non è detto».
Da allora, questo divenne il mio motto – e mi risultava anche facile applicarlo, essendo io un ciccione. Ecco Anna, sono stato autoironico, sei fiera di me? Lo so che, da dietro quel sipario di broccato che chiamano “morte”, mi hai sentito.

Fu da quell’intervista che chi scrive capì che Anna Marchesini andava conosciuta appieno, e non solo come (pur eccezionale) attrice di varietà, di teatro, di televisione.
Comprai il suo romanzo Il terrazzino dei gerani timidi e lo lessi d’un fiato. Lo feci per curiosità, perché mi torturava una domanda, riguardo questa donna, che allora ricordavo “solo” per quei video che trovi su YouTube vestita da sessuologa o da Lollobrigida, da cartomante o da cameriera-secca-dei-signori-Montagnè: come può Anna, trovare la serenità nella sofferenza fisica? Dopo una vita che le ha dato così tanto, la malattia non l’ha forse infiacchita per sempre?
La risposta mi venne leggendo questa frase: «Respiravo profondamente l’aria della sera, si trascinava dietro un tiepido profumo di gerani, mi assalì il timore che tutto sarebbe rimasto identico e immutabile come quei vasi indifferenti, nulla era certo – mi dissi – ero stanca, quel difficile esercizio di equilibrio, in bilico tra l’infanzia, il presente e il futuro remoto, aveva incredibilmente moltiplicato il tempo […]. Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo».

Sono le piccole cose. Ecco il segreto per la felicità. Non lamentarsi per quello che non si ha più – o di quello che non s’avrà mai – ma gioire di quello che c’è. Fu la prima lezione di esistenzialismo della mia vita. E non m’era giunta da un grande filosofo, ma da una divertente attrice e delicata scrittrice.
La protagonista del romanzo non è Anna Marchesini, ma è una donna che le somiglia molto, indubbiamente, e per sua stessa ammissione; la grande attrice sublimava sé stessa, ultimo glorioso esercizio di metodo Stanislavskji, nelle vite degli altri; perché questo era per lei essere-Anna-Marchesini: vivere la propria vita per (e con) la vita-degli-altri. Ed ecco perché Anna non poteva che essere un’attrice, la più grande, la migliore.

Parlando con i ragazzi del Liceo Artistico “Ripetta” di Roma, nel 2008, la Marchesini disse: «Mi ero iscritta a psicologia, ma divenni attrice perché andando all’università in treno, vedevo sempre una finestrella accesa. Madonna, avevo una curiosità e mandavo una sfoglia di me a guardare. Mi immaginavo una donna che faceva il caffè, una camera da letto dopo che due persone avevano finito di stringersi, una ragazza che rincasava tardi, oppure uno che era in bagno a spingere e basta! Io mi immaginavo cose meravigliose. Avevo una passione per la vita-degli-altri, e io ci volevo guardare dentro. Avevo un voyeurismo ginecologico per la vita degli altri».
È così che nascono le grandi passioni, da grandi curiosità personali… che poi, nel progredire della storia dell’Universo, non sono che piccole meraviglie quotidiane. La giovane orvietana Anna, che ogni mattina si recava a La Sapienza per seguire le lezioni di Psicometria, si meravigliò di una lampadina accesa, e divenne Anna Marchesini – non è ironico? Lo è, e lei, anche raccontandolo, faceva di tutto perché apparisse tale.

Indipendentemente dal valore filosofico delle sue parole (valore di cui la Marchesini era perfettamente consapevole, e in cui si crogiolava: «D’altronde da bambina volevo essere il Messia donna!» disse nel 2008), Anna aveva una missione, e una volontà precisa: essere ironica – sempre e comunque. Sentiva come suo il compito di strappare un sorriso, un momento di gioia, di esilio dall’abisso dell’anima quotidiana: e per far ciò, lo aveva capito ben prima del grande successo con Il Trio, occorre necessariamente prendere in giro l’ordinario, ridicolizzare (con eleganza e intelligenza, però) la grande mitologia, portare all’estremo i tabù di una società, quella italiana in particolare.
Ed ecco spiegati la sublimità della parodia dei Promessi Sposi e personaggi immortali come la Signorina Carlo, inviata – con tanto di cofana à là Moira Orfei – da Quelli che il calcio… a commentare improbabilmente partite di pallone, di cui a malapena capiva regole; o come la sessuologa Merope Generosa che, al momento di pronunciare le parole più “sconce” tipiche della sua professione, si imborghesisce a tal punto da sostituire il termine “pene” con “malloppetto ciccioso e pendulo” e “ragazze che hanno rapporti pre-matrimoniali” con “zozzone sporcaccione”; o come la cartomante Amalia che – con esagerato accento romanaccio – invitava i suoi ascoltatori a telefonare e a “non porcastinare inoltre il tempo perché le linee ponno ésse ingorgate, ma la regia mi trasloca un buzzicone ch’ha acchiappato aa linea”.

Maestra di meta-teatro, Anna era fieramente donna, e donne erano i suoi personaggi, sempre e comunque: donne che si rapportano all’uomo, ridendo e prendendolo (e prendendosi) in giro, perché la vita è esattamente questo: autoironia, umiltà, abbandono. Maschera di sé stessa – perché la sua vera lei erano appunto le maschere – ci lascia cosa, se non un sorriso, una risata, forse una piccola lacrimuccia?

Ma forse no!, lei non vorrebbe che piangessimo: la morte è la fine, ma non è detto… perché, anche nel dolore e nella malattia, da vera maestra di esistenzialismo teatrale, Anna sapeva perfettamente che la situazione è grave, ma non è seria.
Solo che se in politica questa frase è un’accusa esplicita ad atteggiamenti vergognosi, nella vita di tutti giorni, sul palco della nostra storia particolare, e dietro le quinte dell’esistenza, è un valore, e si chiama leggerezza.

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

Intervista a Isabella Adinolfi: il non-tramonto dell’esistenzialismo

Prendo contatto con la professoressa Adinolfi lunedì 4 luglio, e per il giovedì successivo ho l’appuntamento per registrare l’intervista; mi reco all’udienza in un giorno afoso, infarcito di turisti: i volti bruciati dal sole o mangiati dalle zanzare, gli occhi colorati oppure nascosti sotto poderose lenti scuri, gli idiomi e gli stili di abbigliamento si fondono e si mescolano tra le calli, dando vita a un (leggermente) decadente anticipo del Carnevale che verrà; è Venezia; è casa mia. Lo è stata, perlomeno. Ma chi sa dove deve andare, lo fa senza troppo guardarsi attorno: gondolieri, avventori, ciceroni, consumatori di spritz od ombre de roso, (finti) intellettuali che sembrano aver come meta il Gran Teatro o qualunque altro luogo intelligente … sono anni che percorro queste vie e anche se, all’inizio, tutto poteva impressionarmi, ora mi lascia  indifferente; il carrozzone della vita di una città sommersa dalla sua gloria continua a procedere, senza bisogno che io vi presti attenzione.

Quando arrivo davanti all’ufficio della professoressa Adinolfi, provo un leggero senso di deja-vu; gli ultimi mesi della mia vita li ho trascorsi più in questo corridoio che a casa mia e tornar qui mi fa un certo effetto; sì, perché chi scrive ha avuto l’onore (e l’onere) di laurearsi con la professoressa Adinolfi, ed è per lui un onore (e un onere) tornare non più da studente, ma da “intervistatore”.

Arriva. Stiamo entrambi bene, non ci vediamo da mesi ormai, e ci siamo sentiti molto poco; l’intervista è frammentata da varie digressioni che riguardano solo noi due che non è il caso che riporti qui … devo tantissimo a questa donna, sia dal punto di vista umano, che accademico – e spesso le due cose, viste alcune esperienze dolorose avute proprio a ridosso della laurea, si sono fuse tra loro: non c’è stato un momento in cui mi sia mancata una sua parola d’incoraggiamento, soprattutto nel buio momento in cui i pensieri angosciati e i ricordi soffusi, ti bloccano innanzi a una cartella Word intitolata Tesi di laurea che resta, tragicamente, bianca come un cadavere per settimane e settimane.

Isabella Adinolfi è una delle maggiori studiose di Kierkegaard in Italia; si laurea a Ca’ Foscari nel 1989 con una tesi intitolata Kierkegaard. Uno scrittore a servizio del cristianesimo, poi pubblicata per la casa editrice Marietti; insegna all’Università di Venezia dal 1992 – attualmente è professore associato di Filosofia Morale; insegna Filosofia della Storia, Storia del pensiero etico-religioso e Storia della Filosofia Morale.

I suoi ambiti di studio comprendono, oltre al prediletto Kierkegaard, svariati autori (Pascal, Tolstoj, Weil ecc.) e tematiche diverse: la condizione della donna nella società e nelle religioni, i diritti umani, la tortura, il ruolo e il valore della letteratura nella formazione della persona, il misticismo, l’amore.

Le sue pubblicazioni sono numerosissime (5 monografie, 43 articoli, 14 curatele, 6 prefazioni/postfazioni), citeremo solo le monografie: Poeta o testimone? Il problema della comunicazione del cristianesimo in Søren Aabye Kierkegaard (1991); Il cerchio spezzato. Linee di antropologia in Pascal e Kierkegaard (2000);  Le ragioni della virtù. Il carattere etico-religioso nella letteratura e nella filosofia (2008); Etty Hillesum. La fortezza inespugnabile. Un percorso etico-religioso nel dramma della Shoah (2011); Studi sull’interpretazione kierkegaardiana del cristianesimo (2012).

 

La mia intervista non è neutrale, ma dettata dall’affetto e dal rispetto che provo per una mia maestra di vita – tra le più importanti che abbia avuto … il che non toglie che s’abbia avuto anche i nostri momenti di scontro, intendiamoci! Non sono ancora riuscito del tutto a perdonarle l’accusa di “maschilismo” che mi lanciò durante una sua lezione su Etty Hillesum (il corso era storia del pensiero etico-religioso) – accusa che mi fu mossa solo perché ebbi l’ardire di affermare che non si poteva trarre filosofia dal diario di una ragazza con problemi psicopatologici … incomprensioni accantonabili, comunque.

Lasciandoci, la professoressa Adinolfi mi dice: “Non perdiamoci di vista”.

Le rispondo ora, in queste righe: tranquilla professoressa. Un (ex)studente forse si perde, un amico no.

Professoressa, nel suo curriculum di studi e pubblicazioni spiccano nomi di primo piano della storia della filosofia: Pascal, Kierkegaard, Leopardi, Hillesum e Weil solo per citarne alcuni. Riguardo in particolare agli autori qui citati, si nota la loro comune appartenenza a quella che, volgarmente, si definisce “filosofia esistenzialista”. Intanto, le piace il nome esistenzialismo?

Il termine “esistenzialismo” appare oggi un po’ usurato. È stato di moda, molto di moda, troppo di moda, nel secolo scorso, nel breve intervallo tra le due grandi guerre e negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. Si riferiva a un movimento filosofico che ha influenzato la letteratura, l’arte, il costume. C’era persino un modo di abbigliarsi esistenzialista; pensi a Juliette Gréco e ai suoi abiti neri, essenziali, severi.

Come ricorda Leopardi in una delle sue Operette morali, la moda è sorella della morte, entrambe sono figlie della caducità. Quel che è stato à la page a un certo punto stanca, sazia e passa quindi di moda. Comunque, per quanto riguarda l’esistenzialismo, credo abbia stancato soprattutto un certo gergo, fatto di giochi di parole, di improbabili etimologie ecc. Gergo di cui non si può imputare la responsabilità a Kierkegaard, ma ai suoi nipotini ed epigoni. Soprattutto a Heidegger.

Dalla sua domanda mi sembra però di capire che non si riferisce al termine esistenzialismo in senso tecnico.  Lei menziona alcuni nomi di scrittori di cui mi sono occupata, che non hanno un pensiero comune, né nelle tesi principali né nel metodo. Non sono dunque in senso stretto accomunati da una scuola di pensiero.

Se usiamo il termine “esistenzialismo”, in senso lato, più largo, per qualificare un pensiero caratterizzato da un’attenzione per la vita, una preoccupazione per i suoi problemi concreti, allora le rispondo che questo termine mi piace molto, lo uso spesso, e non credo possa mai stancare o venire  a noia.

Lei ritiene che, nella società di oggi, l’esistenzialismo abbia (o debba avere) ancora un ruolo di primo piano?

Se è passato di moda il gergo esistenzialista, e le confesso che non mi spiace quando ripenso ai saggi di alcuni colleghi in cui non c’era una sola parola che non fosse spazieggiata con uno o più trattini, un’esagerazione di cattivo gusto, l’esistenzialismo come riflessione sull’uomo non passerà mai di moda. L’esistenzialismo, inteso come quel pensiero che s’interroga sui problemi ultimi, quali il significato della vita, l’amore, la morte, si sottrae all’imperio delle mode effimere.

Kierkegaard le è particolarmente caro. Come giudica l’attuale situazione degli studi kierkegaardiani in Italia?

Mi sono laureata con una tesi su Kierkegaard, la prima tesi su quest’autore che sia stata discussa all’Università di Venezia. Leggendo l’Abbagnano, per preparare l’esame di Storia della filosofia moderna, ero rimasta fortemente impressionata dal pensiero del filosofo danese.

In Italia le grandi sintesi del pensiero kierkegaardiano appartengono al passato, penso a Fabro innanzitutto, a Cantoni, Perlini, Pareyson, Melchiorre, Giannatiempo Quinzio ecc. Ma alcuni studiosi e traduttori di Kierkegaard della mia generazione o più giovani sono molto interessanti. Penso alle traduzioni di Dario Borso, le sole che siano riuscite a rendere in italiano la raffinata eleganza della scrittura di Kierkegaard, agli accostamenti audaci e intelligenti proposti da Roberto Garaventa e Marco Fortunato, penso a Umberto Regina e Ettore Rocca, che molto hanno fatto per richiamare l’attenzione sulla produzione edificante dello scrittore danese, alla bravissima Simonella Davini, ai più giovani Sergio Fabio Berardini,  Ingrid  Basso, Laura Liva e ad altri ancora.

Fuori dai confini italiani, in Danimarca per esempio, sono molti gli studiosi che stanno rinnovando la lettura dell’opera di Kierkegaard. Primo fra tutti, Joakim Garff, con SAK, la monumentale biografia dedicata a Kierkegaard tradotta in moltissime lingue.

Quanto ha pesato, a sua opinione, la Kierkegaard-Renaissance sull’ermeneutica contemporanea dei testi del filosofo danese?

Non  molto direi.

La “Kierkegaard-Renaissance”, ossia la corrente filosofica che ha dominato in Europa per tutta prima metà del ’900 con la filosofia esistenziale tedesca di Heidegger e Jaspers, e quella francese di Sartre, Whal, ha utilizzato alcune categorie kierkegaardiane, come quelle di possibilità, angoscia, disperazione ecc., per ripensare in termini nuovi il modo d’essere dell’uomo nel mondo, strappandole dal terreno religioso in cui erano radicate e da cui traevano alimento. Laicizzati e trasferiti nel registro speculativo della pura ragione filosofica, quei concetti hanno avuto un’ampia circolazione che altrimenti non avrebbero conosciuto. Ma questa operazione, come ha visto Fabro, aveva un vizio originario: immanentizzava delle categorie pensate per la trascendenza.

Oggi si tende a una lettura di quelle categorie più corretta dal punto di vista filologico. A leggerle sullo sfondo per cui erano state pensate originariamente.

Se davvero vogliamo dare all’esistenzialismo il ruolo che merita, non si può che partire dall’esistenza, cioè dalla vita umana. Ma prima dobbiamo capire cosa sia una “persona”. Professoressa, una domanda a bruciapelo. Cos’è una persona, secondo lei?

Non parlo mai di persona. La definizione di Boezio Individua substantia rationalis naturae non mi soddisfa. Preferisco la definizione kierkegaardiana di uomo che apre La malattia per la morte. Interrogarsi sull’uomo significa chiedersi: chi sono io? E la risposta del filosofo danese è nota, l’io è autocoscienza, coscienza di sé come sintesi di termini opposti, corpo e anima, necessità e possibilità, finito e infinito, tempo ed eternità. L’io poi non è solo consapevole ma responsabile della sintesi, non perché abbia posto la sintesi, ma nel senso che sta a lui cercare un equilibrio tra i termini opposti che la formano.  Sta insomma a lui conciliare l’infinità e la finitezza in se medesimo.

Ultimamente, notevole interesse hanno suscitato i suoi studi su Etty Hillesum. Le vorrei chiedere: cosa le ha fatto amare questa autrice, e quale ruolo ritiene che essa meriti, all’interno della storia della filosofia contemporanea?

Il Diario di Etty Hillesum mi è stato donato da una studentessa che si era laureata con me.  La frequentazione di questa giovane scrittrice ebrea, morta nel ’43 ad Auschwitz, è stata importante per la mia vita spirituale. La Hillesum mi ha insegnato a discernere e ascoltare la voce della gioia che non sentivo più in me, soffocata da altre voci, quella del dolore, dell’ira, della protesta… Solo se si dà ascolto a questa voce si riesce trovare un rapporto equilibrato, positivo con il mondo, con gli  altri uomini, con Dio. La gioia, in questo Nietzsche aveva ragione, è più profonda del dolore.Lei è una donna che studia le donne; in un suo articolo su Lo Straniero, commentando Sottomissione di Houellebecq, ha dichiarato che tutte le religioni hanno un fondo di misoginia, solo che alcune hanno saputo (o stanno cercando) di emanciparsi da essa. Parliamo dell’Islam. Lei crede che vi sia un modo per questa fede di uscire dal buio della misoginia?

È innegabile che un fondo di misoginia sia presente in tutte le religioni. La religione è anche una forma di potere e il potere è sempre stato ed è gestito dagli uomini.

Houellebecq è un intellettuale di destra, che auspica il ritorno a una società patriarcale, naturale, e vuol servirsi della religione, in particolare dell’Islam, che gli offre maggiori garanzie per il suo disegno rispetto a un Cristianesimo ormai troppo poco virile, come di uno strumento per attuare questa restaurazione. Lui, dicevo, è un intellettuale di destra, i miei valori sono quelli di una sinistra non ideologica, quelli dei movimenti di liberazione e emancipazione della donna. Può dunque immaginare quanto sia stato per me irritante leggere Sottomissione!

Per quanto riguarda l’Islam ne so troppo poco per rispondere alla sua domanda, per fare previsioni sul suo futuro. Mi pare una buona regola parlare soltanto di ciò che si conosce.

Adinolfi Foto studioLei si interessa anche di diritti umani, un argomento di strettissima attualità e incredibile problematicità, in questi giorni di paura, anzi di terrore. Una domanda brutale: i diritti umani oggigiorno, a sua opinione, effettivamente hanno ancora senso di esistere o sono diventati solo pie aspirazioni?

Quindici anni fa, assieme ad alcuni studiosi di primo piano del diritto, della politica, dell’etica, e della storia delle tradizioni religiose, Casavola, Tronti, Possenti, Bori, Pace, ho pubblicato un volume che fin dal titolo poneva la domanda: i diritti umani sono una realtà o un’utopia? Oggi correggerei molte cose del saggio che avevo scritto per quel volume, ma non cambierei di molto la risposta che in quelle pagine avevo dato alla domanda che mi ero posta e che lei ora mi ripropone. I diritti umani sono una realtà dal punto di vista giuridico, ma non si può dire che essi lo siano dal punto di vista del vivere comune, che cioè ispirino e influenzino concretamente l’agire degli individui, dei popoli, degli stessi organismi attraverso cui si governano.

Essi sono dunque, dal mio punto di vista, per un verso realtà, per altro verso utopia; sono insieme l’uno e l’altro. Ora il problema è capire perché si dia un divario così evidente tra teoria e prassi. Non solo: si tratta anche di capire in quale maniera eliminare tale scarto o almeno ridurlo.

La sicurezza dei cittadini e delle nazioni, intesa come bene politico in sé, giustificano la (usiamo parole kierkegaardiane) sospensione teleologica del diritto umano? In altre parole: la tortura è giustificabile?

Nessuna situazione di tensione o di crisi giustifica secondo me la sospensione dell’etica, cioè dei diritti fondamentali. Purtroppo lo stato d’eccezione viene ancora invocato dai governi per avere le mani libere, per esercitare il potere senza vincoli, per giustificare la violenza.

Il diritto umano all’autodeterminazione del proprio sé, se posto al vertice della gerarchia dei diritti individuali, giustifica – secondo alcune letture – il diritto all’eutanasia, al suicidio assistito, all’aborto; come giudica questa lettura radicale?

Su questo punto, sottoscrivo parola per parola, quanto ha scritto di recente Mario Tronti. Occorre imparare a distinguere tra desiderio e diritto. Non tutti i desideri sono diritti.

Lei collabora con Il manifesto e L’indice dei libri del mese. Vorrei un suo giudizio sulla situazione dell’editoria italiana, in questo particolare momento storico. Che futuro aspetta, a sua opinione, la carta stampata? È davvero destinata alla morte?

Amo leggere. Ogni giorno mio marito acquista almeno due quotidiani e la domenica, a colazione, leggiamo e commentiamo insieme le notizie della settimana e le recensioni dei libri sul domenicale del Sole, Alias, La Lettura, ecc. Le pareti dei nostri studi sono completamente tappezzate di libri. Anni fa abbiamo comprato una casa più grande proprio perché non sapevamo più dove metterli.

Sento ripetere in continuazione che l’editoria è in crisi, che non si comprano più né giornali né  libri. Si dice che è perché si guarda la tv o si naviga in rete alla ricerca di informazioni… perché comprare il giornale o il libro se le stesse notizie possono essere trovate in internet o se basta ascoltare il telegiornale? A me sembra che giornali e libri siano insostituibili. E preferisco il libro stampato a quello elettronico. Dunque spero che la carta stampata non sia destinata all’estinzione.

Cosa si augura per il suo futuro, professoressa? E cosa augura a noi giovani?

Mi piacerebbe scrivere qualcosa di mio, nella forma letteraria di un racconto o di un romanzo autobiografico. Quando ero un’adolescente ho amato moltissimo Natalia Ginzburg, Le piccole virtù e soprattutto Lessico famigliare, di recente ho scoperto Geologia di un padre di Valerio Magrelli che consiglio a tutti di leggere. Mi auguro di scrivere un libro così, mi piace molto quel tipo di scrittura che sento anche mia.

Cosa augurare ai giovani? Di realizzare i propri progetti di vita, in amore e nel lavoro. Mi pare l’augurio migliore.

Ultima domanda, dedicata ai nostri lettori: cosa pensa della filosofia?

La filosofia è per me una necessità. Non posso farne a meno. Non potrei fare un altro mestiere. Mi rendo conto che la mia risposta è molto personale, e forse lei si attendeva qualcosa di diverso. Provo ad accontentarla.

Evidentemente, la filosofia è per me una necessità anche perché la intendo in un certo modo. Mi colpì molto, quando la lessi qualche anno fa, un’affermazione di Fichte a questo proposito che può forse aiutare a intenderci. Fichte scriveva a Jacobi che aveva iniziato a filosofare per orgoglio, e si era accorto così della propria nudità, sicché da quel momento in poi aveva filosofato solo per il bisogno di salvarsi.

Orgoglio, nudità, salvezza. Mi riconosco in queste sagge, profonde parole di Fichte. Riconosco il mio modo di intendere e far filosofia.

Excrucior ergo sum: elogio del dolore

Laddove c’è umanità, c’è sofferenza e laddove c’è vita, c’è dolore; e ciò è reso possibile dalla coscienza della morte. Non si può che essere sicuri di questo dato di fatto: la vita umana è null’altro che una malattia per la morte cronica, con brevi stadi (in cui s’entra con timore e tremore) d’acutezza.

Certamente vi sono diversi gradi di patimento: un giorno può essere più lieto del precedente, o del corrispettivo dell’anno prima, ma l’amaritudo – costantemente presente nella vita nella sua forma propria di esistenziale –  non aumenta né diminuisce nel volgere del tempo. E dico ciò pieno di contrizione, ma d’altronde ho troppa fede per aver fiducia in un annullamento – o in una diminuzione – del pondus mæroris che attanaglia la vita umana, così come ho troppa speranza per credere che questa verità, che vado proclamando, possa subir smentite.

Vorrei chiarire: qui non si sta – in nessuna maniera – recuperando Schopenhauer: io non credo nell’esistenza di un dolore-metafisico-in-quanto-tale, che attanaglia ciecamente e spietatamente qualunque cosa, animata o morta che sia. Io credo alla vita, e la descrivo; non cerco le fondazioni del patire né nel cielo – pur credendo in Dio –, né sottoterra o dietro il Velo di Maya –  perché non credo in Satana o in altre forze di pura malvagità –; mi limito a guardare l’uomo nel suo umanizzarsi, ma se negassi che tale umanizzazione progressiva è un processo doloroso, sarei cieco e sordo.
Vivere è soffrire, pur non essendo un obbligo; esistere è piangere, benché nulla ci vieti di ridere, ma il patimento è dovuto al factum essendi homines, non alla presenza di una qualche (dis)ragione che vincola metafisicamente. Il patimento non è cosmico e la natura non soffre – mai! La danza di pianeti e stelle nel firmamento celeste non subisce certo ritardi per afflizione di sorta, né la pioggia smette di cadere per lutto.

È il nostro essere uomini che costringe a dolere: se fossimo animali, piante, enti o concetti, non ci accorgeremmo della nostra condizione torturale; sono la scienza e la coscienza della morte che ci vincolano alla necessità del factum patendi.
Questa dunque la grande differenza tra noi uomini e gli altri-enti: noi siamo coscienti della morte, in qualunque forma si palesi, in qualunque modo sorga nella vita e, attraverso essa, ci accompagni lungo i momenti dell’esistere su questa terra. E non c’è consolazione alcuna alla necessità dell’amaritudo: l’orizzonte della morte ne è fortino, fossato e torre.
Dalla morte nulla si salva: non amore, non amicizia, non parentele, non talento: tutto perverrà alla morte, senza gloria, senza speranza, e noi uomini – consapevoli di ciò – non possiamo che affligerci.

Parlando con il coro delle Corinzie, Medea, al culmine della sua follia, grida: “Ὦ Ζεῦ Δίκη τε Ζηνὸς Ἡλίου τε φῶς͵ νῦν καλλίνικοι τῶν ἐμῶν ἐχθρῶν͵ φίλαι͵ γενησόμεσθα κεἰς ὁδὸν βεβήκαμεν” … rileggo questi versi, sorrido; provo misericordia per questa donna convinta che il suo strazio sia dovuto a dei terreni ἐχθροί – incapace, da buona greca vergine d’ogni esistenzialismo – di capire che il dolore è una totalità di condizione, non un che di transeunte.
Gli ἐχθροί di Medea sono i medesimi di chiunque altro umano che percorra questa lacrimarum vallis che chiamano Terra: non dunque il re, o Giasone: la nemica di Medea è lei stessa nel momento in cui si fa cosciente della morte delle speranze, dell’amore, della felicità, e – ancor più – al sorgere della conseguente afflizione: Medea, nella sua inconsapevolezza, mostra per paradosso come l’actum cognoscendi umano, sia fonte d’eterna tortura.

E più di tutti, in questo mondo, soffre il filosofo, perché soffre dell’altrui sofferenza, e vede la sua, conseguentemente, centuplicata. Ma da tal patimento, il filosofo non scappa, per esso non cerca cure: egli ha una missione – testimoniare il vero – e cerca di portarla a termine accettando di patire, perché sa che il suo destino è di trasformarsi in profeta, et nemo propheta patriæ. Il filosofo insegna a tramutare il patimento in amore: e tutto diventa fuoco adamantino di sentimento perfetto, e il mondo oggetto di dilezione assoluta. E, da filosofo, in fondo al mio cuore, anch’io sogno di morire, come Kierkegaard, mormorando: “Vai dagli uomini, e dì loro che li ho amati tanto, e che la mia vita fu un eterno dolore, sconosciuto a chiunque”, perché so che, spirando, non potrei dire frase più vera.

Ma il dolore è ciò che – più pienamente – libera e salva.
Partendo dalla certezza che il dolore è vita, perché s’accompagna indissolubilmente a lei, ci accorgiamo ch’esso – più che mero tempus – è prettamente eternitas, perché esclude la morte nel suo essere proprio, ovvero nella sua misteriosità. In effetti se l’afflizione ci familiarizza con la morte, inserendola nel vivere, allora essa fa morire la morte: la morte infatti è – puramente – mistero, e il dolore la smaschera: ne consegue che il dolore uccide la morte, e dunque esso non solo è vita, ma eternizza.
Il dolore è vita eterna, ma condizione per l’eternità è la libertà. E la sofferenza è anche libertà, perché solo quando compio liberamente la Valg e la Gjentagels di determinare il mio Ego come essere-con-il-dolore, allora io accolgo in me la possibilità dell’eternità.
In altre parole, se esisto autenticamente, cioè facendomi liberamente compagno dell’amarezza, allora sono destinato all’eternità. In questo senso, in quanto voluto e ripetuto, il dolore è parimenti vita, libertà ed eternità. E io sono (eterno), o meglio vivo (in eterno) in quanto patisco.
Mæror liberabit vos.
Excrucior, ergo sum (æternus).

David Casagrande

«No Maria io esco!»: fondazione della metafisica di Tina Cipollari

Ovvero: storia di come imparai a non prendermi sul serio, a non credermi “intellettuale”, a rifiutarmi di parlare forbito e a vivere felice.

Ogni buona riflessione filosofica ritengo che – per potersi dire scientifica – necessiti di esser costruita su alcuni assiomi indubitabili. Qualora volessimo iniziare un’analisi antropofilosofica dell’esistenza dell’individuo occidentale medio, non potremmo non concedere che uno di questi assiomi è il seguente: in ciascuno di noi, vive – segreta e latente – un’indipendente e sovrana Tina Cipollari.
Tina: unica costante della nostra vita ormai priva di punti cardinali; sbrilluccicante e sorprendente routine riaffiorante, come una boa di salvataggio, nel turbinio della prevedibile quotidianità dell’imprevisto; profumo sottile che ci distrae dal buio implacabile che s’annida in ogni angolo della nostra mente; parte dell’essere “uomini e infelici”1 che emerge dall’implacabile scala discendente verso il baratro del politically correct; redivivo “Vaffanculo!” che sempre siamo pronti – e tentati – di proferire contro chicchessia, e in qualunque occasione; sguaiato “No Maria, io esco!” che cresce in noi quando ci troviamo innanzi a situazioni ingestibili e insopportabili; gesto eclatante ch’è lì, pronto a esplodere ma che, per utilità, soffochiamo con coperte di prudenza ed estintori opportunistici; fuga dalla malafede del presente e locura necessaria alla sopravvivenza.

Chiariamoci: è uso corrente, tra gli “intellettuali”, di qualunque colore politico e indirizzo culturale, ironizzare su quello che – aspere duriterque – viene definito trash: fingendo di incensarlo, sprecandosi in mendaci dossologie, costoro intendono esaltar loro stessi, per poi sprecare inchiostro, e tempo, in inutili conclusioni antropologiche sul deprecabile universo della contemporaneità e dei suoi miti; ma qui è tutt’altra cosa!
Qui non si sta parlando di macchiette o di trash: si riflette di esistentività, e Tina Cipollari è l’Esistentivo per eccellenza.

Ora, come fondare Tina, metafisicamente?
Esistenzialmente, l’abbiamo descritta: è la parte immediata di noi, quella più sincera… ma questo fondamento, è forse un infondato? Che statuto ha, questa donna che è in realtà la totalità del silenzio parlante della nostra anima da lungo tempo occidentalmente adagiata nella convenienza della prudenza e nel comodo dell’assenso?
Pensandoci molto attentamente, sono giunto alla conclusione che Tina è una realtà ontologica che supera, di gran lunga, le determinazioni di “bello” e “brutto” (che poi non sono che lo stesso veduto, però, da due angolazioni particolari differenti), di “giusto” e “sbagliato” (perché l’immediato non può avere una determinazione etica, che è somma mediatezza). Tina Cipollari è semplicemente come deve essere, come l’Essere di Severino. Sussume su di sé il concetto di trash (parola che, col passar del tempo, si depriva d’ogni significato) e lo invera, togliendolo, divenendo cult e, gradualmente, iconic… ecco!
Tina Cipollari è l’iconic dell’esistenza-inautentica-heideggeriana, e che a esso si diano le determinazioni parziali di “bellezza” o “bruttezza”, di “giustezza” o “ingiustizia”, è secondario: come la sostanza spinoziana, Tina è definibile in mille modi ma, comunque se ne parli, non si potrà che sbagliare: lei è oltre le parcellizzazioni.

Tina è ciò che, più d’ogni altra cosa, rimarrà nella storia della cultura pop, perché è il no-filters per eccellenza, il lampante proclamato come tale.
Siamo franchi: se Tina fosse un po’ meno di quant’è, potrebbe sembrare una classica donna di provincia che dice pane al pane… ma l’accumulo di sguaiate verità che, giorno dopo giorno, ella proferisce, la rende una «sapiente auto-messinscena, ma con una robusta sostanza e una vitalità sconosciute»2 a chiunque: in una parola: iconic. E solo quando v’è un sub-stratum iconicum, persistente nel tempo, allora potremmo ricamarci sopra il concetto di trash, che tuttavia rigetto.

Ai miei detrattori dico: guardatevi attorno, che mondo è quello che vedete? E dunque, perché tacete? Perché non vi ribellate, nascondendovi dietro il comodo e l’utile?
Quante volte vorreste urlare: “Vergogna!”, oppure: “Ma ti rendi conto di quello che dici?” e non lo fate? Ebbene quella parte che desidera lo sfogo, chiamasi Tina.
E quando innanzi a tanto male avete voglia di gridare: “Credimi, io non ce la posso fare”, o: “Maria per favore, che sto fuori dalla grazia oggi!” ebbene è Tina, che parla.
E quando vorreste apostrofare qualcuno chiamandolo: “Ciarlatano, fintone, arpia, pizzettara, rosicona” sappiate che è Tina che vuol parlare: spetta a voi decidere se, e quando, assecondarla.

Forse, se facessimo parlare la Tina che abita in noi un po’ più spesso, vivremmo più sereni, perché svestiremmo finalmente gli abiti dell’intellettualoide, e vestiremmo quelli dell’uomo vivo – ma è solo un’ipotesi.

David Casagrande

NOTE:
1. Cfr. N. Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis.
2. Claudio Magris, Danubio.

Intervista a Daniela Latino: la coniugazione di teoretica e pratica

Incontro la professoressa Latino un giovedì sera, prima di uno spettacolo teatrale organizzato dal liceo presso cui lei lavora e io collaboro esternamente; vado a prenderla a casa, e ci dirigiamo in un locale tranquillo, dove poter conversare in pace.

La carriera scolastica e il percorso di studi di questa studiosa, è di quelli che fa impallidire: Daniela Latino si laurea nel 1994 all’Università di Padova in Filosofia, nel 1997 consegue la specializzazione in Didattica e Insegnamento presso l’Università di Trieste. Nel 2001 ottiene la laurea magistrale in Bioetica presso l’Università di Medicina e Chirurgia “Gemelli” di Roma e, nel 2009, un master di II livello in Bioetica e Formazione presso le Università Cattolica e Pontificia Lateranense. Nel 2013, infine, consegue un master di I livello sui DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) presso l’Università Cattolica.

Dopo aver assistito per oltre tre anni i malati terminali presso gli Ospedali civili di Padova e Conegliano (e il ricordo di questa esperienza, ancora oggi, la commuove), attualmente insegna Filosofia e Storia presso il Liceo “Flaminio” di Vittorio Veneto e Bioetica presso l’Università di Bolzano; collabora con la Fondazione Lanza di Padova e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore per la formazione in Bioetica; infine, è membro del comitato scientifico della Fondazione C.A.R.E..

  1. Insegnante nei licei, insegnante universitaria, medico, studioso, mamma e moglie. Lei è tutte queste cose insieme. Quale ruolo la rispecchia di più?

Quello di mamma. Perché la maternità, l’avere dei bambini e poterli educare e allevare, rispecchia ciò che, eticamente, penso sia il valore fondante per tutto il resto.

  1. Bioetica, ovvero etica della vita. Mi permetta una domanda provocatoria: cos’è l’etica, e cos’è la vita?

La vita è lo spazio di tempo nel quale ogni persona si realizza e trova la sua dimensione, aprendosi a sé stessa e al prossimo e non perdendo mai di vista la direzione a cui è destinata, nella consapevolezza dei propri limiti e delle sue ricchezze. E l’etica è l’orientamento – se vogliamo il faro – di questo agire che è la vita; è ciò che ci permette di avere dei principi fondamentali a cui ispirarci, dei valori che possono essere anche universali.

Bioetica – in realtà – è un concetto che ha varie e diverse definizioni: c’è quella di V. R. Potter, c’è quella dell’Enciclopedia delle Scienze di André Hellegers … Secondo me, questa disciplina si orienta tanto in direzione dell’uomo – e lo accompagna dall’inizio della vita fino al suo termine –, quanto verso l’ambiente e verso gli animali. Insomma, essa si prefigura sia come analisi, che come tutela di tutti gli esseri.

  1. Ogni filosofia, nel corso della storia, ci ha proposto la propria visione della vita. Ma la bioetica di quale “modo di pensare” fa più tesoro? Oppure essa prescinde dalle divisioni in scuole?

No, certamente la bioetica non prescinde da queste divisioni: essa stessa è divisa al suo interno, ma più che di “scuole bioetiche” parlerei di “modelli”. I modelli più ampi in cui la bioetica si declina sono quello sociobiologista, quello liberal-soggettivista, quello utilitarista e quello personalista. Ovviamente, c’è anche la distinzione – che secondo me è falsa! – tra bioetica cattolica e laica. E perché sia falsa è presto detto: la bioetica o è razionale – al di là della discriminante dell’adesione o meno a un credo, che è un qualcosa di secondario – o non lo è. Dal mio punto di vista la bioetica si fonda su un valore basilare, per quanto non assoluto, che è la centralità della persona.

  1. Nel mondo di oggi, secondo lei, c’è necessità di instaurare un legame stretto tra filosofia e medicina?

Assolutamente sì! La medicina tout-court non esiste più; essa è un insieme di scienze mediche, quindi di discipline (o branche), e si fonda sulla tecnica. Il medico unico è scomparso ed è sorta una pluralità di specialisti che si occupano della persona. A queste condizioni, c’è il rischio di non fare più sintesi: l’individuo rischia di essere parcellizzato, e di essere trattato come un “portatore-di-patologie” piuttosto che come la singolarità che, di fondo, è. Di conseguenza, è doveroso far riferimento a una fondazione etica della prassi medica, anche perché, ormai, non si può discriminare – come faceva una grande divisione storica nella filosofia – tra aspetto prescrittivo e aspetto descrittivo del procedere.

  1. Andiamo sui temi di più stretta attualità. Secondo lei è bioeticamente accettabile l’eutanasia?

Ci sono modelli bioetici che l’accettano … quindi io non mi chiederei se essa sia bioeticamente accettabile; mi chiederei piuttosto se sia eticamente accettabile. Ora, se io ritengo che la vita sia un valore fondamentale, e su questo declino il concetto di “qualità”, nel momento in cui io chiedo una qualità di vita migliore, non posso non vivere, ossia chiedere la morte. L’eutanasia è un assurdo, dal punto di vista razionale – naturalmente se partiamo dall’idea che l’uomo, per fondare qualsiasi altro diritto, deve essere in vita.

La libertà non può mai essere assoluta: noi nasciamo dipendenti e moriamo dipendenti; quindi, in realtà, più che chiedere l’eutanasia, la richiesta giusta sarebbe quella di migliorare la qualità dell’esistenza. Per questo, esiste la medicina palliativa.

  1. Qual è, è una domanda personale, il tema più bioeticamente spinoso, nella società (non dico italiana, ma globale) di oggi?

Non ce n’è un tema solo, piuttosto una moltitudine. Quello forse più inquietante è l’eugenetica e la clonazione, mentre direi che il problema degli xenotrapianti è ormai superato. Quindi: sì, il problema bioetico più pericoloso risiede nell’eugenetica, che fa il paio con la “medicina dei desideri”, ovvero la pretesa di avere una prole geneticamente perfetta o geniale – prole a cui vengono assegnate, obbligatoriamente, precise caratteristiche scelte a tavolino. Ma ci sono certamente altre interessanti tematiche da analizzare, faccio solo l’esempio della clonazione terapeutica e l’utilizzo degli embrioni per la creazione di organi per trapianti.

  1. Una delle frasi slogan di coloro che propugnano il cosiddetto “utero in affitto” è: “Maternità e paternità sono solo concetti”. È corretta questa affermazione secondo lei?

No. O meglio: io non lo penso. Maternità e paternità sono condizioni esistenziali che mutano profondamente nel corso della vita: una madre cresce insieme con il suo bambino in grembo. Ci sono sempre più prove scientifiche di un legame biochimico, sensoriale e relazionale che instaurano tra il feto nell’utero e la donna. Benché non ci siano ancora certezze in tal senso, abbiamo un’ampia letteratura scientifica e un gran numero di studi che si sono dedicati a questo tema, giungendo ai risultati appena citati.

Inoltre, molte donne che hanno “affittato l’utero” chiedono, poi, di tenere il bambino; questo non ci deve affatto stupire: nel momento in cui una donna percorre questa strada non ha ancora “dentro” di sé – fisicamente – un bambino; quando ciò succede, la percezione delle cose muta, perché inizia a capire cosa significhi aver, crescente in sé, una vita. Il bimbo, insomma, non è un oggetto, un qualcosa che si può “portare” e accudire come un bambolotto.

Nel momento in cui io “commissiono” un figlio, può darsi anche il caso in cui il neonato non risponda a quei determinati criteri estetico-fisici che mi ero imposto al momento della stipula del contratto: in situazioni di questo tipo si è visto che i tassi di divorzio subiscono una crescita sensibile, a dimostrazione che la genitorialità è sentita da questi “affittuari” come estranea, come qualcosa-che-non-appartiene-loro.

  1. Lei in quanto insegnante è sempre a stretto contatto con i ragazzi. Si sente spesso parlare, in televisione o nei mass media in genere, di crisi valoriale della gioventù; una crisi che spesso si traduce in dipendenze (alcool, droga…). Lei, da medico e da filosofo, è d’accordo nel collegare dipendenze e crisi dei valori? Ma ancor prima: cosa sono “i valori”?

I valori, collegandomi all’aggettivo greco áksios, sono ciò per cui è “degno” spendere la vita; sono “ciò a cui far riferimento”. Solo un’etica che si fondi su dei valori, e che abbia come faro i principi, può essere un’etica che porti a scindere il bene dal male, sapendoli anche distinguere, a volte, da “giusto” e “ingiusto”, perché non sempre “bene” corrisponde a “giusto”.

Per quanto riguarda le dipendenze: effettivamente una mancanza di valori, un orizzonte che è sempre più labile e che si sposta di continuo, non lascia ai giovani altro riparo che non la richiesta di poter godere di una felicità subito raggiunta. Fondamentalmente, questo orizzonte valoriale sempre più labile è anche sommamente improduttivo; d’altronde è molto più facile trovare, e godere, di alcuni “beni” temporanei – per quanto deleteri per la persona – che non ricercare il bene assoluto.

  1. Cosa si augura per il suo futuro, professoressa? E cosa augura a noi giovani?

Domanda difficile. Il mio futuro, oramai, è quello che sto vivendo. Io lavoro coi giovani – nei licei e all’università –, scrivo, lavoro nei protocolli e nei comitati etici … questa è la mia vita. Ovviamente quello che mi auguro è che i miei figli crescano nel rispetto degli altri e di sé stessi, cercando di realizzare, al massimo, i loro talenti. In effetti, è quello che auguro a tutti i giovani. Per quanto riguarda i miei bambini, mi auguro di riuscire a educarli in modo da insegnar loro a saper volare da soli, lasciandoli liberi di fare quel che più desiderano.

  1. Ultima domanda, dedicata ai nostri lettori: cosa pensa della filosofia?

E’ una domanda ben strana! Nel senso: “della filosofia” è troppo generico. In realtà, dobbiamo essere molto attenti a osservare l’orizzonte filosofico in cui inseriamo noi stessi: ci sono alcune filosofie che mi appartengono e che sento più vicine, altre (faccio l’esempio di quelle non-cognitiviste) che mi sono lontane e del tutto estranee. Quel che penso, in generale, è che c’è bisogno di un uso consapevole della ragione umana, e della sua applicazione alla prassi quotidiana. Il tempo della teoresi è finito. Se vogliamo che il futuro sia migliore, dobbiamo ricercare, a tutti i costi, la coniugazione di teoretica e pratica.

David Casagrande

(Il filosofo sul) viale del tramonto: appunti di Norma Desmond e simili visionari

<p>Sunset Blvd. (1950)   aka Sunset Boulevard<br />
Directed by Billy Wilder<br />
Shown center: Gloria Swanson</p>

Vi sono momenti in cui, guardando la mia libreria – infarcita, grondante, obesa di testi – mi sembra di veder le storie, e i momenti di vita, di ciascuno degli autori. Sì, sono lì, uno accanto all’altro – come se fossero tutti convenuti a un party, tutti gioviali e arguti: qualcuno beve un Martini, qualcun altro fuma una Marlboro, altri giacciono mollemente sui divanetti in porpora sparsi qui e lì nella sala. Tre tizi vestiti da pinguino suonano il Trio Élégiaque n° 2 di Rachmaninov.
Da buon anfitrione passo da un ospite all’altro salutando con aria compiaciuta e affabile: “Oh buona sera Dumas, tutto a posto? Ci vediamo dopo Tolkien! Giacomino, come stai?” – e che la festa cominci! Un attimo però, qualcosa non mi torna… due, quattro, venti, trenta… “Señor Marquez scusate, ma qui non manca forse qualcuno? Avete visto per caso la pattuglia dei filosofi? Dove sono Georg, Immanuel e Søren?” “Estàn en la otra habitaciòn, querido”.
Perché? Perché si sono riuniti tutti lì? Quella stanza l’avevo tenuta chiusa, come hanno fatto a entrare? Immagino – immagino non vogliano mescolarsi… i signori mi scusino, devo andare a recuperarli.

Quel che non sapevo è che il salotto, dove credevo si fossero rifugiati tutti i signori filosofi, era sparito. Al suo posto era comparso un lungo corridoio, freddo e fiocamente illuminato da alcuni civettuoli lampadari in vetro di Murano, inverosimilmente polverosi e ipnoticamente dondolanti… iniziai a percorrerlo, leggermente a disagio; giunsi a una porta di mogano, di quelle vecchie, intarsiate, con le maniglie alte… apro.

Mi ritrovai in un giardino che dava s’un luogo strano, una di quelle costruzioni solenni che, un tempo, inorgoglivano i grandi nobili… una casa abbandonata (soprattutto quando te la ritrovi dentro casa tua, al posto di un salotto di tappezzeria blu!) fa sempre un effetto sinistro. Questa poi!, era un rudere… aveva l’aria di uno di quei vecchi pensatori decadenti carichi di vesti damascate sdrucite e di medaglie di concorsi ormai aboliti da anni, che vivono isolati dal mondo tra gli spettri di un passato lucente. Attraversai il vialetto d’ingresso ed entrai.

Seduto sopra un tappeto sgualcito (di quelli da fachiri) troneggiava un vecchio barbuto, puzzolente all’inverosimile; attorno a lui, un pubblico eterogeneo di soggetti adoranti pendeva dalle sue labbra. Era Socrate. Guardai il tutto un po’ spaesato.
“Siete arrivato, Casagrande” disse una voce soave, alla mia destra: mi voltai e riconobbi Søren.
“Maestro” risposi “che ci fa lei qui? E perché non siete tutti alla mia festa, insieme agli altri?”
“Te lo spiegherò. Intanto seguimi, saliamo le scale.”
Giungemmo in cima alla grande scalinata, e ci affacciammo al corrimano; da quella prospettiva, la scena del piano di sotto pareva ancora più ridicola.
“Qualcosa non ti torna?”
“Maestro, sono confuso… perché voi filosofi siete qui soli?”
“I matti, di solito, non sono separati dagli altri?”
“Che domanda strana.”
“Siamo filosofi, caro mio, siamo matti per eredità propria. Cos’è la filosofia, te lo sei chiesto? Certo, e credo tu ti sia anche risposto. È una ricerca continua, una sete che non si placa mai, una vera e propria ossessione. È come vestire un abito che scopri essere cosparso di colla, e che più porti più ti si appiccica alle carni. Siamo persone inascoltate, che amano non esserlo: trasformisti per vocazione, capaci delle più impensate malinconie e delle più superbe gioie, diciamo agli altri com’essere felici e, per farlo, dimentichiamo che anche noi dovremmo cercare d’esserlo. Sciogliamo nodi che altri hanno stretto, chiedendoci: “Perché lo facciamo?”, ma che c’interessa saperlo, l’importante è chiedercelo! Disprezziamo i soldi di questa vita, perché non sappiamo che farcene, aneliamo attenzione anche se non viviamo per essa. Siamo musicisti, scriviamo sinfonie con le lettere, e detestiamo le banalità. Non siamo noi che ci siamo riuniti qui, in una stanza a parte, sono stati gli altri a cacciarci dalla festa: non siamo noi che “non vogliamo mescolarci”, sono gli altri che non vogliono essere contaminati dalle nostre chiacchiere. Perché “gli altri” scrivono senza pensare, noi pensiamo senza scrivere. Lo vedi? Siamo troppo diversi per poter stare assieme, anche se a volte, parte della nostra vita, la trascorriamo con loro.”
“Ma… perché io sono qui?”
Søren rise e iniziò a scendere la grande scalinata, e quando arrivò sull’ultimo gradino, mi accorsi che attorno a lui si era creata una folla di curiosi. Socrate stava in prima fila; poco più in là Sartre mi adocchiava, fumando. A destra c’era un gruppetto di tedeschi, al centro era Hegel, a sinistra stavano i medievali. Kierkegaard parlò ancora: “Perchè? Ma perché anche tu, come noi, sei pazzo! Non è forse la filosofia una follia? Non occorre che tu mi risponda. Sì, mio caro, hai fatto una scelta, e non si può sfuggire. Troverai mille ostacoli che ti faranno pensare di aver fatto la cosa sbagliata, quando ti desti al libero pensare, e mille volte tenterai di fuggire. Ma, amico mio! Non ce la farai! Ormai sei qui, in questo manicomio!, e questa è la tua vita, e non ne potrai mai avere una diversa. Capisci?”

Ormai non vedevo più nulla, solo gli occhi dei filosofi puntati su di me. Iniziai a discendere verso il conclave filosofico: “Sì, hai ragione… non riesco neanche a parlare, sono troppo felice! Voglio soltanto dirvi quanto sia fiero di trovarmi qui con voi! Mi siete mancati, prima ancora che vi conoscessi – e ora, ora no non vi lascerò mai più. Perché dopo questo pensiero, ce ne sarà un altro, e altri ancora! Vedete questa è la mia vita, e lo sarà per sempre, non esiste altro. Solo noi e il mondo… e nell’oscurità, gli altri a riderci addosso! Eccomi, signor Kierkegaard, sono pronto per il mio primo pensiero.”

David Casagrande

I fodsporene på Judas – Sulle tracce di Giuda

La figura di Ιούδας ο Ισκαριώτης è – da sempre – al centro di notevole interesse da parte della filosofia della religione. La storia di questo discepolo è presto narrata: scelto da Gesù durante il suo primo anno di pubblica predicazione come Apostolo, divenne tesoriere dei Dodici e di lui non si sa molto altro, tranne che rimproverò la peccatrice per aver cosparso di nardo i piedi del Cristo, e tradì il Messia per trenta denari, salvo poi pentirsi e impiccarsi. Benché la sua umana vicenda sia di evidente semplicità, la sua figura in abstracto considerata è, ed è stata, filosoficamente controversa.

Ora, Gesù era conscio del suo destino, e sapeva chi lo avrebbe consegnato ai Giudei; leggiamo, infatti, che Cristo, accostatosi a Giuda durante l’Ultima Cena, dice: “Quello che devi fare, fallo al più presto!”[1].  E Giuda fece esattamente ciò che Cristo si aspettava da lui.

Da questo gioco di reciproco intreccio tra prescienza messianica e azione di Giuda, sorgono alcuni problemi:

  • se Giuda era predestinato a tradire Cristo, egli non fu libero (non ebbe liberum arbitrium indifferentiæ) di non compiere questo atto.
  • Sta scritto che Giuda tradì sotto l’impulso di Satana; ma, dato che la morte di Cristo salvò il mondo, e tale morte fu provocata dal tradimento, allora il vero salvatore è Satana, che poi si autodistrusse nella morte di Gesù.
  • Se Giuda fu dannato dopo il tradimento, e soffre in eterno, egli soffre molto più di Cristo, che patì solo nelle ore della Passione, ed è dunque lui quell’Agnus Dei qui tollis peccata mundi attraverso il suo dolore.
  • Se il tradimento di Giuda ebbe come conseguenza la Nuova Alleanza, stipulata da Cristo, tra Dio e gli uomini, allora egli dovrebbe stare in paradiso.

Una risposta alle quattro problematiche può giungere tenendo conto di un testo fondamentale per il pensiero religioso occidentale, che ci ha mostrato come, per necessità divina, una data facoltà (o struttura) umana possa essere teleologicamente (finalisticamente) sospesa per compiacere un più alto disegno. Questo testo è Frygt og Bæven di Kierkegaard.

Lì, il maestro di Copenaghen, parlandoci di Abramo, mostra come il Patriarca, nel sacrificare Isacco, non fu mai assassino, perché la morale era stata sospesa per far spazio al disegno divino. Alla luce di questa ipotesi, possiamo affermare che per Giuda valse la medesima sospensione teleologica per il libero arbitrio.

Di conseguenza:

  • Giuda doveva tradire Cristo, perché questa era volontà di Dio. Perché egli sopperisse al suo dovere fu sospeso (non soppresso!) il libero arbitrio, che gli fu riconsegnato nel momento del bacio: allora egli tornò a esser uomo, perché ridivenne libero.
  • Non fu Satana a entrare in Giuda e spingerlo al tradimento; se leggiamo ciò nei Vangeli, è perché gli Evangelisti non poterono comprendere il principio della teleologia; fu il Signore a muovere Giuda, perché solo così si spiega la sospensione della libertà.
  • La sofferenza di Cristo durante la Passione fu umana e In quanto umana, fu limitata nel tempo ma, in quanto divina, fu consegnata all’eternità, perché solo se le piaghe del Messia sono eterne, allora l’uomo è eternamente guarito dal peccato. La sofferenza di Cristo in paradiso è, dunque, molto più grande di quella di Giuda all’inferno.
  • Teologicamente, Giuda è un dannato. Bisogna, ora, provarlo filosoficamente.

Per farlo, occorre capire che Giuda fu dannato non per il tradimento, del quale non era imputabile (il peccato è tale solo se commesso liberamente), ma per la disperazione che lo portò al suicidio.

Fu nel momento della disperazione che Giuda si dannò; credendosi colpevole del tradimento (non aveva le capacità – al pari degli Evangelisti – per comprendere la sua non-reità) disperò del perdono di Cristo (che indubitabilmente sarebbe giunto) e, ammazzandosi, si fece esempio modo ponendo della non verità del messaggio messianico, compiendo sia peccato contro il Figlio, che contro lo Spirito Santo.

Giuda non aveva scelta nel tradire, ma ce l’aveva nel reagire e nell’accettare il perdono. Contraltare di Giuda è dunque Pietro: forse che Pietro non tradì tre volte Cristo prima che il gallo cantasse?

Eppure Gesù ebbe misericordia di lui: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? Pasci le mie pecorelle![2]. Anche il rinnegamento di Pietro fu previsto da Cristo e, anche nel suo caso, vi fu sospensione della libertà: egli non poté non rinnegare Gesù davanti ai servi del Sommo Sacerdote, ma, appena il gallo cantò, il libero arbitrio gli fu restituito, ed egli non disperò del perdono del Maestro, e lo ottenne.

Il vero inferno, dunque, è già qui in terra, e si chiama disperazione.

Giuda lo prova.

David Casagrande

NOTE

[1] Gv 13, 27.

[2] Gv 21, 19.

L’amore (non) è un (mio) problema – Sinfonia kierkegaardiana

ALLEGRO, NON TROPPO

«Per lei, io ero troppo pesante; per me, lei era troppo leggera.»

(Diario, 1959)

Proponiamo qui una sinfonia in forma un po’ filosofica. Buon ascolto.

VIVACE, UN PO’ MAESTOSO

«Aveva eccessiva presunzione. […] Avrei dovuto spingerla a rompere con me.
Sarebbe stato il trionfo della sua presunzione.»

(Diario, 1952)

Brutta bestia la presunzione, l’idea d’esser migliori degli altri; portata all’estreme conseguenze, essa giunge a incidere (con la viva crudezza degli artigli del male) persino i rapporti di coppia. Ci vuole, certo, non poca cattiveria per abbracciare, o sfiorare con occhi o dita, una persona che giudichiamo “inferiore a noi”; ciò nonostante non credo che questo atteggiamento, pur essendo ipocrita, sia raro.

Ma mettiamoci intanto d’accordo su cosa significhi amare: per quanto mi sia interrogato, non ho trovato miglior definizione di questa, che, tuttavia, continua ad avere le torbide vestigia d’una banalità: amare significa “essere certi che si darebbe la propria vita per quella di un altro”.

Ora, se questa definizione è corretta, chiediamoci: come potrei dare la mia vita (meravigliosamente unica e irripetibile) a favore di qualcuno che giudico inferiore a me? È un controsenso, un’idiozia bella e buona!

La presunzione è l’anti-amore, una patologica deviazione di esso.

Ma, come ogni cosa nella vita, anche una perversione del genere può essere annichilita.

Se ci accorgiamo che “l’altra metà del nostro cielo” è, in verità, il soffitto di un porcile dipinto d’azzurro, conviene fuggire; ora, Kierkegaard sottolinea che, nel caso d’un rapporto con un presuntuoso, sarebbe opportuno farsi lasciare, piuttosto che lasciare … per una volta dissento dal Maestro: la vita è troppo breve per svendere la dignità a favore dell’altrui supponenza.

Concedere ai “palloni gonfiati” di trionfare su noi non per amore, ma per sadismo, significherebbe esser complici d’una malattia mortale.

ANDANTE MODERATO

«Se non fossi stato malinconico, stare con lei m’avrebbe dato una felicità quale mai avevo sognata.»

(Diario, 2804)

L’uomo non è la somma dei suoi pregi, ma sintesi dinamica d’ogni positività e d’ogni difetto. È, insomma, uno spirito.

Innamorarsi significa essere con-vocati verso l’altro spiritualmente e non fisicamente (il desiderio del corpo si chiama infatuazione), né pneumaticamente (perché se ami solo l’anima, allora ammiri); il che significa che, con l’atto stesso d’amare, ci leghiamo totalmente a una alterità, perché ci interessa ogni cosa dell’altro, persino i suoi lati peggiori, e perciò li sopportiamo. Ma la sopportazione innamorata è sopportazione elevata alla potenza di sé stessa: è, insomma, compassione.

È compassione nel senso che, solo quando patiamo-con, o patiamo-per, l’oggetto del nostro amore, allora viviamo.

È dalla compassione che sorge la volontà di mantener vive tutte le relazioni (anche sbagliate): nella sua fatica vivificante, l’innamorato crede di veder nell’alterità il suo proprio riflesso significante. Un innamorato vero, proprio perché compassionevole, sopporta (e accetta!) sinanche il disprezzo dell’amato, annichilendosi a suo favore pur di non perderlo.

In breve, la compassione è la forma più completa d’amore, perché si rivolge al tutto dell’alterità: amando incondizionatamente, cerca di correggere i difetti ed esalta i pregi, ma proprio per questo aumenta esponenzialmente il rischio di sofferenza.

Se ci limitassimo all’attrazione o all’ammirazione, ogni delusione passerebbe istantaneamente: invece compatendo (amando totalmente) noi mettiamo in gioco non solo il corpo o l’anima, ma il nostro spirito, ovvero noi stessi in completezza: ci affidiamo all’altro e siamo in sua balìa, senza speranza di approdo sicuro, se non nel porto del suo cuore.

A meno che, a freno del nostro cuore, non si ponga la forza straziante della malinconia.

PRESTO (TRISTE MOLTO)

E forse abbiamo solo ora trovato la definizione corretta di “amare”: affidare il nostro spirito a un estraneo, e sperare che non lo venda per trenta denari … e forse hanno ragione gli inglesi che, memori del verbo norreno “at love” che significa “impegnarsi”, il loro amore lo chiamano “love”, cioè “impegno”. Impegno a non far mai soffrire l’altro, completerei io.

David Casagrande

Il Kierkegaardianesimo (In?)volontario di Francesca Michielin

Pur non avendo io alcuna capacità musicale (la qual cosa non desta in me né orgoglio, né fastidio), ho sempre amato l’eufonia misteriosa ed esotica delle parole e dei testi delle canzoni.

I ricordi, e le connessioni emozionali, che i sintagmi sanno rievocare negli animi sensibili, quasi uscendo dal fluire delle note (le quali, in una buona canzone, non devono essere nulla più che un palcoscenico ben costruito per le parole) superano e fortificano, con la loro caratteristica spiritualità, l’immediatezza erotica dell’atto musicale.

In quest’ottica di compenetrazione tra spirito e immediatezza, Francesca Michielin rappresenta una bella sorpresa nel panorama musicale italiano; confesso che coloro che “escono dai talent”, sono persone che hanno sempre suscitato in me un po’ di sospetto, ma non c’è vergogna nell’ammettere un errore: la Michielin merita tutto il successo avuto.

Invito tutti i lettori, non solo ad ascoltare di20, l’ultima fatica di Francesca, ma anche a meditare i suoi testi. Io, da quando l’ho fatto, ho più dubbi: Michielin conosce Kierkegaard molto più di me, che mi accosto ai suoi scritti ogni giorno, da quasi due anni.

Vorrei farvi solo alcuni esempi a dimostrazione di questa sensazione.

In L’amore esiste ascoltiamo: “L’amore non ha un senso/l’amore non ha nome/l’amore non ha torto/l’amore non ha ragione”; negli Atti dell’Amore di Kierkegaard leggiamo: “L’amore si conosce dai frutti […] esso non fiorisce né passa, ma esiste, perché non ha senso se non nel nascondimento” … notato somiglianze?

In Lontano la cantante dice: “Io amo/ mi perdo/viaggiando su un percorso a un senso/connessa ma dispersa nel mondo”, un grido di dolore per un sentimento che, a tratti, può essere irreale; sembra essere il verso successivo questa frase: “Mi viene in mente la mia giovinezza e il mio primo amore: la giovinezza era il sogno, l’amore il suo contenuto” che invece viene dai Diapsalmata.

Infine, ascoltiamo Io e te: “Fino a quando tu ci sei/il mio respiro segue il tuo/e intorno a noi si apre il cielo e porta via le paure”. Kierkegaard scrisse parole simili a proposito di Regine, annotando nel Diario: “Quando il suo sguardo, riboccante di vita e di gioia s’incontrò col mio … io me ne andai, piangendo di amarezza”, e aggiungendo: “Se avessi avuto la Fede, sarei rimasto con lei”, a dimostrazione di come, quando il cielo, e la sua bellezza, non si aprono a cancellare i timori, tutto perde senso, anche l’amore. E questo, Michielin l’ha capito prima di Kierkegaard: chapeau.

Né vi parlerò, per non apparire banale, dell’invito di Francesca ad “amare l’amore, non amare me” (Battito di Ciglia), che è praticamente la stessa verità a cui perviene Søren (Kjerlighedens Gjerniger).

L’album di20 di Francesca (mi permetto di chiamarti così: frequentiamo la stessa università e potrei essere tuo fratello maggiore … mi perdonerai) è un soave, a tratti trascinante, spaccato esistenziale sull’amore – periferico, ma non secondario – della gioventù e getta sul tema una luce sfaccettata e caleidoscopica, ma chiara.

Come Kierkegaard, anche Francesca ci racconta la spiritualità dell’attaccamento all’altro come “la vede lei” certo: ma con lei, a guardare l’esistenzialità delle cose, ci siamo anche noi, e i suoi occhi (dell’anima) sono i nostri, le passioni che racconta appaiono vere: se lei soffre siamo lì a soffrire con lei; se è felice, lo siamo anche noi.

Come Søren, anche Francesca, quando dice: “L’amore mio sei tu” non lo dice parlando di sé, ma si fa prestavoce di chiunque l’ascolti, perché tutti – in un momento o l’altro della vita – sentiamo l’irresistibile bisogno di sussurrare all’orecchio di qualcuno: “L’amore mio sei tu”. Per sommo paradosso, capiamo che Francesca e Søren ci insegnano a pronunciare al meglio questa dichiarazione di vita: la prima con le canzoni, il secondo con la filosofia.

Grazie Francesca, per prestare la tua voce al mondo. Spero che quanto stai dando ti venga in abbondanza restituito.

David Casagrande

[foto di Francesca Michielin presa da Google immagini e modificata]

 

7 (semi)seri consigli Kierkegaardiani per affrontare una delusione d’amore

Eccoti, ragazzo abbandonato. Ti vedo, sepolto nell’eremo della tua stanza, copertina sulle spalle e tisanino in mano, occhi rivolti al computer, mentre qualche mielosa canzone d’amore ti rimpalla nelle orecchie. Lei ti ha mollato e tutto sembra inutile.
Ti aggiri per le tue magioni in attesa di un segno dal Cielo, ma no, solo di una telefonata. Dannata tecnologia! Sai fare tutto, ma non sai far tornare una ex?
Vorresti dimenticare, ma non riesci. Non mentire, non fingere: ti conosco, ragazzo abbandonato. Per dirla con le parole di Antoine, dal romanzo Due della Némirovisky, ora stai pensando: “Vorrei essere vecchio e liberato dall’amore! Non ho altro desiderio al mondo!”.
Nell’orrore della tua disperazione, non sembra ci sia nulla da fare per alzarti il morale, ma sbagli: Kierkegaard – sempiterna Maria De Filippi degli intellettuali innamorati – ti viene in aiuto!
Ecco qui di seguito un elenco dettagliato di 7 consigli filosofico-esistenziali su come affrontare le delusioni d’amore: leggili tutti, ma focalizzati su uno e, tempo un’eternità, il tuo dolore scomparirà! Abbi fede, non sto scherzando!

  1. Chiodo scaccia chiodo. “E in Ispagna son già 1003” canta Leporello, servo di Don Giovanni, nell’omonima opera. E tu? Vuoi restare indietro? A quante donne sei arrivato? Due, tre? Poche! C’è parecchio lavoro da fare!
  2. Studia. Come fece Faust a conquistare Margherita? Con la cultura. Non c’è nulla che attiri di più una donna, che sia la ex che torna o una nuova che si fa avanti – entrambe le ipotesi non sono poi tanto male – dell’aria da bel professore tenebroso.
  3. Viaggia. Via via, non fermarti mai. Come ha fatto l’Ebreo errante, che è passato nel posto sbagliato al momento sbagliato, se l’è vista brutta e ha iniziato a viaggiare per scappare dal mondo. Non ti dimenticherai la ex, ma almeno non la vedi!
  4. Chiedi ai tuoi genitori di combinarti un matrimonio. Guarda che le tradizioni ottocentesche non sono affatto da buttar via, anzi, in un periodo di pressapochismo culturale come il nostro sarebbero da recuperare. Pensaci bene. Il giudice Wilhelm si è sposato con la donna indicata da suo padre, e ha vissuto una vita tranquilla: ha trovato un lavoro, ha fatto figli. Credi che abbia avuto tempo di pensare alla ex?
  5. Comportati da infame. Ti ha mollato lei, e tu sei indubitabilmente la vittima? Allora fai come fece Kierkegaard quella volta con Regine (certo, in quel caso era lui a lasciare lei senza motivo, ma una buona idea resta sempre una buona idea). Stampa tutti i messaggi e le mail che ti ha mandato, prendi le lettere che ti ha scritto, profuma i fogli con il dopobarba che ti ha regalato, indi usali per incartare i regali che ti ha fatto (assieme ai frammenti della bottiglia del dopobarba, che avrai provveduto a rompere – magari non sul pavimento) e spedisci tutto per corriere. Vuoi scommettere che starai meglio?
  6. Inizia a pregare che lei torni. Questa è autoesplicativa.
  7. Sappi che se è vero amore, continuerai in eterno ad amarla. E non ci saranno tecniche, né possibilità per smettere. La amerai, perché sarà tuo dovere farlo, e nel dovere si fonderà la necessità della tua passione. Passeranno molte altre persone davanti ai tuoi occhi, migliaia di volti, di storie, ma ovunque cercherai la faccia di lei, e non potrai farne a meno. Nel tuo dovere di amarla sarà fondata l’eternità del tuo stesso essere al mondo. Ma non sarai mai disperato, perché chi ama non dispera. E chissà che, come Abramo con Isacco, anche tu, avendo fede nell’amore, nel Vero Amore – quello che fonda tutti gli altri, quello che non tramonta mai – già domani, già oggi, già subito, non la riabbia indietro, in virtù dell’assurdo. Abbi fede, esalta nell’amore, salta nell’eternità. E, mal che vada, avrai amato l’Amore, avrai amato davvero.

David Casagrande