Polifonia sulla legittimità del suicidio

– Morte spiran suoi sguardi!… A me quel ferro.
– A lei pria il ferro, in lei! Muori.
– Ah!… Tu pur morrai.
(V. Alfieri, Rosmunda, atto V scena 5)

 

È sempre il solito, vecchio e trito, problema shakespeariano:

«Essere o non essere, questo è il quesito. […] Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne»1.

Come ho cercato di dimostrare parlando d’Anassimandro, nascere è una disgrazia: ci condanna alla sofferenza, alla contingenza, alla libertà, alle scelte, agli sguardi. Soprattutto alla solitudine. Resta da comprendere se questa disgrazia-lunga-una-vita sia sufficientemente dura da giustificare il suicidio. La risposta, lo vedrete, sarà volutamente gesuitica.
Per addentrarmi meglio nella questione, inizierò aggrappandomi al pensiero di Sartre e Leopardi.

Sartre ne L’essere e il nulla, afferma che la nostra condanna alla libertà si esplica attraverso la “progettualità” costante; ora, se l’uomo è pro-getto (cioè gettatezza nel futuro, nell’avanti), la morte rappresenta l’evento antiumano per eccellenza, perché interrompe lo scagliarsi-innanzi della coscienza. Questa antiumanità è, naturalmente, centuplicata dall’atto suicidario.
Data la natura temporale dell’uomo, e la necessità di pro-gettare ogni azione nell’avvenire, ne consegue che gli atti hanno senso solo se aprono alla possibilità di un alterità futura: il presente insomma, attraverso il pro-getto, si consegna alla possibilità del futuro per garantirsi senso; conseguentemente, un gesto che nega tout-court il futuro non ha significato.
Eo ipso, il suicidio (ammessa e concessa l’estrema dolorosità della vita) non ha senso:

«Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione. Sarebbe inutile ricorrere al suicido per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto, esso si priva di  avvenire»2.

Leopardi argomenta in modo più complesso: leggendo lo Zibaldone e le Canzoni del suicidio, risulta essere è una via praticabile e gli animi grandi riconoscono in esso una vittoria sul dolore, una situazione preferibile. E da un certo punto di vista, non vi è nulla di più ragionevole di questo gesto, essendo anzi la ragione causa precipua dell’eventualità suicidaria:

«La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ecc. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare»3.

Insomma, il suicidio non è che il frutto consequenziale di una scelta sociale operata dal pensiero imperante nel mondo occidentale a partire dall’Illuminismo:

«Quando le illusioni e le fede fossero scomparse dal suo orizzonte, il moderno fruitore di un’esistenza geometrica e disincantata si sarebbe ammazzato da sé stesso»4.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio il tema è trattato diffusamente: il propugnatore del suicidio è Porfirio; Plotino, suo maestro e difensore della vita, obietta al suicidio seguendo una doppia linea di ragionamento. La prima, è dettata dal pragmatismo:

«[Uccidendoci] non avremmo alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue»5.

La seconda è, invece, più sottile: Plotino invita 1) ad assumere su noi stessi il dolore di tutto il mondo, e 2) nota che l’autoeliminazione è un atto, per quanto eroico, certamente manchevole d’amor proprio: compito del saggio è comprendere che:

«La vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme»6.

Una strana chiusa, rispetto a quanto sostenuto nello Zibaldone, dove il suicidio è visto come il succo della mentalità contemporanea; forse, nel pensiero di Leopardi, è in atto, negli anni di stesura delle Operette Morali, una certa  evoluzione, che culminerà nella poetica de La Ginestra, nella quale viene riconosciuta la «social catena»7 degli uomini riuniti in fratellanza il ruolo d’ultimo baluardo contro la paura e la distruttività insita nella rerum natura.

Insomma: Sartre dice no, Leopardi dice no, ma … E chi scrive che dice? A livello umano sarebbe portato a dire “No”. A livello filosofico, invece dire che non si può escludere il suicidio dall’orizzonte teorico della possibilità esistenziale.

Se il buio davanti a noi è torbido, il pensiero del suicidio non può essere scartato a priori dalla mente (che, anzi, è fondamentale abituare a pensare (il) tutto). Tuttavia, se da un lato è necessario affrontare il fantasma razionale della morte (anche nella sua forma ectoplasmatica suicidaria), dall’altro è doveroso rimarcare che pensare questa possibilità non vuol dire attuarla!

La vita (eterna scelta tra odio e amore) comprende anche il pensiero del suicidio, ma nella pratica esso resta un assurdo e, proprio in virtù della vocazione esistenziale alla scelta, lo è sia dal punto di vista dell’odio che da quello dell’amore. Chi odia, infatti, perché mai dovrebbe liberare della propria fastidiosa presenza gli altri che tanto detesta; e chi ama come può accettare di vivere un’eternità senza quell’alterità che egli così profondamente dilige? L’amore e l’odio sono verità che non si modificano sub speciem desperationis.

Insomma: sì alla teoria, no alla pratica del suicidio. Pensare il suicidio ci fa crescere (e ci insegna a rifuggirlo), praticarlo ci annulla senza, peraltro, risolvere nessuno dei nostri problemi. Ricordatevi dell’esempio di Vittorio Alfieri, dei suoi eroi tragici (che s’ammazzavano all’arma bianca) e del fatto ch’egli morì di malattia.

 

David Casagrande

 

NOTE:

1. W. Shakespeare, The tragedy of Hamlet, act III, scene 1.
2. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, p.600
3. G. Leopardi, Zibaldone 183 (23 luglio 1820).
4. R. Damiani, L’impero della ragione. Studi leopardiani, ed. cit., p. 114.
5. G. Leopardi, Operette morali, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, p. 508.
6. Ivi, p. 509.
7. G. Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto, v. 149, in: G. Leopardi, Canti, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, ed. cit., p. 204.

 

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Due parole sull’ateismo di Leopardi

Al prof. Rolando Damiani

L’uomo non ha certezze metafisiche, quindi è disperato: di quest’assioma, Leopardi è indiscusso profeta. La sostanza della disperazione leopardiana si coglie nella formulazione della celeberrima teoria del nulla:

«Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ecc. […] vale a dire che un primo e universale principio delle cose o non esiste, né mai fu, o se esiste o esisté, non lo possiamo in niun modo conoscere»1.

Analizziamo queste righe. Se (il) nulla fonda (il) tutto significa che:

«Non c’è ragione perché qualcosa che è non sia così com’è, o non sia assolutamente. L’assoluto è dunque voragine che tutto accoglie e tutto annienta, abisso orrido e immenso, ma insieme fonte e sede della forza»2.

Ora, poiché:

Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος,/καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,/καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος./Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν. 3

sembrerebbe che, in mancanza di ragione, manchi anche divinità: se la sovrapposizione tra θεὸς e λόγος è esatta, da questa considerazione non c’è via di scampo.

Ora, se manca la Ragione-Ultima, manca la fondazione-metafisica del tutto: la Ragione è dunque non una presenza, ma piuttosto un’a-ssenza, che possiamo identificare con l’a-ssenza di Dio. Leopardi altresì afferma che Dio è fondato dal nulla: le cose non hanno un’idea platonica che le sostiene, e questo vale anche per Dio, s’Egli è una cosa …

Ma, a proposito di Dio e il suo rapporto con il nulla che lo fonda – e quindi non lo fonda –, Leopardi scrive:

«Io non credo che le mie osservazione circa la falsità d’ogni assoluto, debbano distruggere l’idea di Dio. […] Ego sum qui sum, cioè ho in me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l’idea di Dio in questo modo. […] Io considero dunque Iddio non come il migliore di tutti gli esseri possibili, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. […] Così resta in piedi tutta la Religione, e l’infinita perfezion di Dio»4.

Questa citazione spariglia le carte; chiunque voglia fare di Leopardi un gigante dell’ateismo non si è, evidentemente, preso la briga di leggere queste annotazioni del 1821. Rolando Damiani, in una conferenza dell’ottobre 2014, riguardo il tema della “religione” leopardiana, affermò che, d’essa, occorre parlare:

«In un senso anomalo […] perché in Leopardi la religione non è un fatto né semplicemente confessionale, cioè di adesione confessionale alla dogmatica cristiana, questione che evidentemente per Leopardi si pone solo fino a un certo periodo della sua vita […] e neanche nel senso di rifiuto del religioso in una prospettiva di laicismo ottocentesco, che è uno dei modi per i quali è passata l’accoglienza di Leopardi»5.

Torniamo al dettato di Zibaldone 1619-1621; ivi, Leopardi legge la tradizionale formula di presentazione che Dio fa di sé stesso in Esodo 3, 14, come una dichiarazione ontologica di autosussitenza. Dio esiste in quanto deve esistere e, per riprendere alcune osservazioni fatte da Kierkegaard negli Atti dell’amore, il dover-essere fonda l’eternità dell’essere; Dio deve essere, dunque è eternamente. Avendo in sé la propria ragione necessaria – e sufficiente – d’esistenza, il Dio di Leopardi esiste “in tutti i modi possibili”, ovvero ci appare come ci deve apparire.

Osserva ancora Damiani:

«Nel 1824, cioè nella piena maturità del pensiero, il Dio di Leopardi non è un dio malvagio, è un dio casomai impotente. Un dio che non può fino in fondo essere padrone del manifestato, cioè di ciò che egli stesso ha creato. Perché? Perché al di sopra di lui c’è un potere inconoscibile […] che viene chiamato da Leopardi, tradizionalmente, ‘ordo fatorum’. […] Esso ha a che fare con l’Ἀνάγκη, la necessità […]. Di essa, Leopardi fa un’ipostasi, ma un’ipostasi maligna»6.

Da questo punto di vista, la necessità è un ÜberGott che sovrintende a Dio, ma prima ancora alle cose di questo mondo. In questo quadro, Dio si inserisce come motore, e pro-motore, di quel poco di bene che possiamo rintracciare nella storia: Dio è esperibile nello straordinario, certo, ma anche nella quotidianità del dolore, in cui Egli, pur volendo inserirsi per modificarla, non può:

«Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell’aspetto che giudicava più conveniente: […] Egli si è rivelato perché ha voluto e l’ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature»7.

«I suoi rapporti con gli uomini e verso le creature note, sono perfettamente convenienti a essi: sono dunque perfettamente buoni, e migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma perché i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti»8.

Il che significa che Dio tenta d’accompagnare le sue creature e lo farebbe, se potesse. Vi è però la Necessità che, in qualche modo, fa resistenza e s’oppone all’assolutà bontà di Dio. Ciò che ciascuno di noi ottiene dal suo rapporto con Dio, è sempre e comunque il massimo che potrebbe avere. Ergo, ciò che otteniamo da Dio come atto d’amore puro, è il massimo che possiamo ottenere: chiedere di più sarebbe sfidare non solo Dio, ma la necessità che lo sovrasta.

L’abisso che ci separa da Dio è incolmabile, vasto, non giungiamo a lui se non saltuariamente. E questa Necessità, che supera Dio e supera l’uomo, questo ordo fatorum, insondabile e invincibile, come lo chiameremo? Lo chiameremo nulla: nulla di buono, nulla di razionale, nulla in ogni forma.

In questo senso dunque, l’Ἀνάγκη – il nulla – fonda tanto le cose del mondo quanto Dio, perché ordina le prime e frena l’azione del secondo. Ma affermare che Dio c’è, ma non può agire, è ben diverso dal dire ch’Egli non (c’)è! Leopardi, esattamente come l’ultimo Sartre (ricordate la famosa intervista a Lèvy del 1980?) non era un ateo, piuttosto il testimone disincantato d’una sorta di “eclissi contemporanea del divino”.

Leopardi sentiva la mancanza di Dio. N’era ossessionato. Lo cercava nelle forme del rito tradizionale (come dimostra l’ultima lettera prima della morte a Monaldo, in cui afferma d’essersi confessato e comunicato) ma faticava a scovarlo, assuefatto com’era dal “piacere fremebondo della disperazione”.

David Casagrande

PS: consiglio a tutti la lettura de L’ordine dei fati e altri argomenti della religione di Leopardi, scritto da Rolando Damiani per Longo Editore, 2014.

NOTE:
1. Zibaldone 1341-1342 (18 Luglio 1821), a cura di R. Damiani, ed. Mondadori – I meridiani, tomo I, pp. 971-972.
2. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Biblioteca Economica Laterza, Roma-Bari 1995, p. 142.
3. Gv 1, 1-3.
4. Zibaldone 1619-1621, ed. cit., pp. 1135-1136.
5-6. Video: La “Religione” di Leopardi. ROLANDO DAMIANI al Caffè Letterario di Lugo.
7. Zibaldone 1637, ed. cit., tomo I, p. 1146.
8. Zibaldone 1621, ed. cit., tomo I, p. 1136.

 

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Appunti sul concetto hegeliano di libertà

Kierkegaard detestava Hegel, lo considerava «una parentesi chiusa all’interno di Schelling». Come tutti i nemici, tuttavia, Kierkegaard e Hegel hanno qualche affinità (non si può detestare chi non c’assomiglia almeno un po’). La più evidente, è che i due sembrano concordare sul fatto che la libertà non pertiene alla costituzione terrena dell’uomo, ma all’ambito spirituale della sua essenza. Scrive Hegel:

«L’essenza dello spirito è, quindi, formalmente, la libertà, la negatività assoluta nel concetto come identica con sé»1.

Cerchiamo di ricostruire i passaggi del ragionamento: la libertà è un negativo assoluto, ovvero il nulla. Definiamo tale nulla:

«Il puro essere è la pura astrazione, e, per conseguenza, è l’assolutamente negativo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente. […] Reciprocamente, il niente […] è il medesimo che l’essere»2.

Da cui consegue che essere e nulla sono lo stesso, e dire libertà significa dire (il) nulla; naturalmente, la petizione d’identità tra essere e nulla non basta alla riflessione che, per sua natura, si mette alla ricerca di determinazioni precise per cui l’essere e nulla si dinguano. Ma non approfondiremo la questione: torniamo alla problematica della libertà.

Hegel, all’altezza delle Aggiunte al §87 dell’Enciclopedia, ci propone un’interessante annotazione sul sensum libertatis. Leggiamo:

«La più alta forma del niente-per-sé sarebbe la libertà; ma questa è la negatività in quanto si approfondisce in se stessa nella massima intensità ed è insieme essa stessa, anzi, assoluta affermazione»3.

Ora, che significa che il nulla “per-sé” è la libertà? Che vi è un nulla-in-sé e un nulla-in-sé-e-per-sé distinti dalla libertà. Dato che ogni determinazione è dialettica, e si svolge in tre momenti (auto)esplicativi, occorre studiare il concetto di nulla in questo suo movimento.

Partiamo, dall’in-sé del nulla, e torniamo indietro per affermare di nuovo che esso è:

«Puro nulla. È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione di contenuto, indistinzione. Esso è l’assenza di determinazione, lo stesso che il puro essere»4.

ovvero lo stesso inconsapevolmente dell’essere, in quanto il nulla non si è ancora rapportato all’altro-da-sé, che a dire il vero è lo stesso di sé, perché non è ancora uscito da sé.

Nel suo per-sé, il nulla si mostra, dunque, nella figura della libertà. Resterebbe da chiedersi di qual forma di libertà parliamo. Analizziamo la questione. In questo momento antitetico, il nulla penetra in sé stesso, reclama la propria “positiva significanza”, proclama la propria autonomia –  un’autonomia che la riflessione (e non la ragione) gl’accorda: esso si crede altro-dall’-essere e in questo senso, dunque, è libertà, nel senso cioè di “volontà di autoaffermazione”.

Nel suo in-sé-e-per-sé, il nulla è:

 «La verità comune tanto dell’essere quanto del niente è l’unità di entrambi, ovvero è il divenire»5.

Il divenire, in altre parole, è (teleo)logicamente unità di necessità e libertà, e lo possiamo chiamare storia e vita-del-mondo; ora, il fatto che la libertà si leghi a mondo e tempo, sarà un dato che ci tornerà utile più tardi.

Sinora ci siamo mossi nel campo della Scienza della Logica e lì, la libertà risiede in quanto astratta: la logica tuttavia, lo sappiamo, si evolve e l’Idea, che inizialmente è addormentata in sé, fuoriesce in Filosofia della natura. Nella natura, la libertà muore del tutto:

«La natura non mostra, nella sua esistenza, libertà alcuna, ma solamente necessità e accidentalità»6.

È interessante notare che, in Hegel, la libertà nasce come negativo, progredisce come negativonegato, e giunge al positivo dialetticamente. Cosa ci sia di particolare è evidente: di solito, la quidditas iniziale d’una dialettica è un positivo, negato, indi riaffermato. Nel caso della libertà questo processo, pur non mutando nelle tappe, assume ben altre forme a causa 1) della negatività di partenza, 2) della negazione particolare antitetica e 3) della sintesi come sussunzione di “negazione della negazione del negativo”: non nuova-negazione, bensì positiva-posizione, libertà-in-quanto-bene-vivente.

S’è visto che Hegel definiva l’essenza dello spirito con il termine libertà: conseguentemente, la branca più adatta allo studio della libertà-in-sé-e-per-sé, è la filosofia dello spirito. Hegel afferma:

«L’elemento spirituale è terreno del diritto, e suo punto di partenza è la volontà libera, così che la libertà costituisce la sua sostanza»7.

La libertà-in-sé-e-per-sé quale oggetto precipuo del diritto è sintesi di libertà-astratta (negativa) e di necessità-naturale: la libertà-in-sé-e-per-sé è bene vivente proprio in quanto «forma infinita, e non solo libertà-in-sé, bensì parimenti libertà per sé – verace idea»8.

A livello di filosofia dello spirito, e precisamente spirito oggettivo, la libertà ha fatto i conti con sé, ha compreso che la necessità non è suo contrario, ma la stessa cosa di sé medesima: è sé allo stesso modo in cui il nulla, nel divenire, comprende di esser lo stesso dell’essere.

La libertà autentica sussume su di sé le negatività della necessità e della libertà astratta, rendendole vive ed effettive e reali. In questo senso, il luogo ove la libertà astratta (individuale) e la necessità (naturale) s’incontrano, inverandosi reciprocamente, è lo Stato, il quale è:

«La realizzazione della libertà, […] secondo la sua divinità»9.

Nello Stato:

«La libertà perviene al suo supremo diritto di fronte agli individui, [comprendendo anche] il supremo dovere di questi di essere membri dello stato»10.

Essere liberi, dunque, significa inserirsi in una comunità plurale, questo almeno secondo il maestro di Stoccarda; questa opinione, tuttavia, trova Kierkegaard (e colui che scrive) in disaccordo. La comunità serve (per) la verace libertà, ma non rende veracemente liberi. Ognuno di noi si veda chiamato a sciogliere questo paradosso come meglio crede (ecco. Questa è libertà).

David Casagrande

NOTE:
1. G. W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, Milano-Bari, Laterza –  Biblioteca Universale Laterza, p. 374.
2. Ivi, pp. 102 e 104.
3. Ivi, p. 103.
4. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, tomo I, traduzione di C. Cesa, Milano-Bari, Laterza –  Biblioteca Universale Laterza, 1974 (201110), p. 70.
5. G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ed. cit., p. 104.
6. Ivi, pp. 247 e 248.
7. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio. Con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Milano-Bari, Laterza – Biblioteca Universale Laterza, 1999 (20106), p. 27.
8. Ivi, p. 38.
9. Ivi, p. 201.
10. Ivi, p. 216.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Studio sull’interpretazione anassimandrea della morte

Una delle domande più inquietanti che, da sempre, l’uomo si pone è: “Perché si muore?”

Per rispondere a questo quesito, scomoderemo uno dei filosofi più antichi che la storia del pensiero occidentale annoveri come proprio venerando e terribile antenato: Anassimandro (610-546 a.C.). Egli fu il primo pensatore a porre a fondamento dell’esistente non un elemento fisico, ma l’ἄπειρον [apeiron], che noi traduciamo con “Infinito” (α privativo + πεῖραρ “compimento, fine”).

I frammenti dottrinali di Anassimandro, secondo l’edizione dei Die Fragmente der Vorsokratiker di Diehls e Kranz, sono cinque: quello più famoso e filosoficamente più interessante è il primo (1b):

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον…έξ ών δέ ή γένεσίς έστι τοίς οΰσι, καί τήν φθοράν είς ταύτα γίνεσθαι κατά τo χρεών • διδόναι γάρ αύτά δίκην καί τίσiν άλλήλοις τής άδικίας κατά τήν τού χρόνου τάξιν.

Di questo frammento sono state date molte traduzioni e, ancor di più, interpretazioni; nella convinzione ermeneutica che la traduzione è già di-per-sé un atto ermeneutico, vorremmo aggiungere anche la nostra umile voce. La traduzione che noi presentiamo è:

Annunziò Anassimandro che principio delle cose-che-sono è l’Infinito … infatti, donde gli essenti han sorgente di vita, colà hanno anche necessariamente la morte loro; essi, infatti, pagano l’uno all’altro il fio e la purificazione dell’ingiustizia secondo la regolarità del tempo.

L’Infinito è causa tanto della vita quanto della morte “necessariamente”: κατά τo χρεών – ma perché i viventi pagano l’un l’altri il fio dell’ingiustizia?  E soprattutto, di quale ingiustizia? Quella di essere state create.

Nella logica anassimandrea, l’ἄπειρον è una totalità immobile – intangibile ma presente – che, per ragioni ignote, periodicamente è funestata da cicli di creazione e distruzione; specificamente, è possibile ipotizzare che ogni singolo ens-creatum, staccandosi dall’Infinito che lo genera, crei una perturbazione-cosmica che può essere risanata (secondo un principio di economia compensativa) solo dalla morte – cioè dal ritorno all’Infinito “causa originante” e “causa finale”.

L’allontanamento dall’Infinito è, parimenti, un fatto involontario e un reato preterintenzionale – per il quale ogni ente deve pagare; e come avviene questo “processo all’ente”? Secondo “la regolarità del tempo”. Una ragione empirica piuttosto chiara: gli esseri anziani, che prima d’altri si son distaccati dall’Infinito, normalmente, sono quelli che prima tornano a esso.

Come gl’entes muoiano, è assolutamente indifferente: quindi “che sia per spada o per lento sfacelo del tempo”, tutti i viventi perverranno alla φθορά, come ridondante monito a chi verrà dopo di loro, e riproposizione eterna di chi li ha preceduti sul lungo viale della notte eterna.

Altresì, è evidente che la nascita non solo è un reato, ma anche un peccato: un peccato originale meglio ancora, che, come conseguenza di una vera e propria sentenza, deve essere compensato da un castigo. Certo, la parola “peccato” è impegnativa, e non si suol attribuirla a concetti pre-cristiani, ma in questo caso ci sentiamo di usarla, e i testi anassimandrei potrebbero tranquillamente confermare la nostra scelta. Il frammento 2b recita:

(Una certa natura dell’infinito) è eterna e non invecchia mai1;

mentre il frammento 3b dice:

Così è il divino: immortale e indistruttibile2.

Ragioniamo: se il divino è immortale e indistruttibile, significa che esso è eterno – e non invecchia mai, ovvero non si corrompe; e tuttavia la natura dell’Infinito è appunto quella di essere eterna e incorruttibile; ne consegue logicamente che la natura dell’Infinito è divina e che quindi, l’atto generante gli enti, essendo un distaccarsi dal divino, viene a rivelarsi come un “peccato” (laddove per peccato intendiamo l’allontanamento dalla divinità). Conseguentemente, nascere è un peccato, e la morte è l’espiazione.

Se la nascita è peccato e la morte è penitenza – perché ricongiunge l’ente al divino – meglio sarebbe forse, per gl’uomini, non nascere proprio? Una domanda sensata.

Ragionandoci, però, non-nascendo non vi potrebbe essere comprensione dell’Infinito, dacchè solo l’Uomo comprende – stanti le sue particolari conformazioni intellettuali – l’Infinito: che ne sarebbe, dunque, di esso se non avesse la possibilità dell’autocompresione? A quel punto risulterebbe essere non più (un) infinito, ma (un) limitato dalla consapevolezza (mancata) di sé.

Un Infinito che non s’autocomprende come tale è un cattivo-infinito, perché limitato dall’ignoranza: di conseguenza, esattamente come la morte è κατά τo χρεών, perché chiude il cerchio del peccato e lo emenda, parimenti κατά τo χρεών è la nascita – senza la quale l’Infinito risulterebbe (mi si perdoni il giuoco di parole) finito. Ergo, il peccato della nascita è un peccato necessario, che richiede, però, un altrettanto necessario atto purificatorio.

In questo senso, una traduzione più libera, ma forse più pregnante del frammento 1b potrebbe essere:

Da dove gli essenti traggono la vita, ebbene lì hanno anche necessariamente la morte: infatti essi pagano l’un l’altro il fio ed espiano il peccato di essere nati, secondo l’ordine del tempo con cui sono venuti al mondo.

Torniamo ora al punto iniziale: perché c’è la morte? La risposta che ricaviamo da Anassimandro è la seguente: la morte c’è perché c’è la vita: simul stabunt vel simul cadent.

Morendo, ritorniamo a essere ciò-che-siamo, parte dell’Infinito, mentre nascendo, ci distacchiamo da esso. V’è dunque una legislazione cosmica che necessariamente, e inscindibilmente, collega l’atto di nascita a quello di morte.

E, d’altronde, ciò ch’abbiamo dimostrato, non è ciò che la sapienza dell’Occidente, da sempre, sa? Si muore semplicemente perchè s’ha da farlo. Nessuna eccezione è prevista. Tutto il nostro affannarci qui e ora, è puro niente:

Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Quid lucri est homini de universo labore suo, quo laborat sub sole? Generatio praeterit, et generatio advenit, terra autem in aeternum stat3.

[…] Al gener nostro il fato/non donò che il morire. Omai disprezza/te, la natura, il brutto/poter che, ascoso, a comun danno impera/e l’infinita vanità del tutto4.

David Casagrande

NOTE:
1. Trad. di G. Reale. In: I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani/RCS libri spa – Il pensiero occidentale, 2006 (20124), p. 197.
2. Trad. di G. Reale, ibidem.
3. Liber Ecclesiastes 1, 2-5.
4. G. Leopardi, Canto XXVII (A se stesso), vv. 12-16.

[Copyright: Fulvio Bonavia photographer, in: Google immagini s.v. “Vanitas”]

J’ACCUSE! Una provocazione hobbit su Harry Potter

Il trentunesimo giorno di Gennaio dell’anno 2017 (secondo i calcoli gregoriani),

casa Casagrande, Introvigne – Tarzo, Marca Trevigiana – Veneto, Italia,

la Settima Era di questo Mondo.

 “I buoni artisti copiano, i grandi rubano” (P. Picasso)

Cara signora Rowling,

inizio la presente ringraziandoLa per aver spinto una generazione di giovani svogliati a leggere. Le volevo però chiedere: era proprio necessario copiare Tolkien così tanto? Perché Lei non ha rubato: ha copiato. Dove vedo le somiglianze? In ordine sparso:

I personaggi

Harry (orfano adottato dagli zii), piccoletto destinato a salvare il mondo, è un Frodo (orfano adottato dallo zio) con la cicatrice (e anche la cicatrice è nulla-di-nuovo: dicono qualcosa la ferita del Re Stregone ad Amon-Sûl, o la puntura di Shelob a Torech Ungol?), ma privo dell’umile grandezza di questo Hobbit. Ron, è un Sam rubrutricotico e Hermione una somma di Marry e Pipino. Silente è un Gandalf neanche lontanamente epico come lui; Hagrid, la fotocopia di Beorn e la McGranitt una Galadriel passata in colorante.

Voldemort (pur facendosi chiamare “Oscuro Signore”) sta a Sauron come un cerino sta al napalm. I Dissennatori e i Mangiamorte (nomi già, di per sé, abominevoli) dovrebbero ricordare i Nazgûl… e niente, fa già ridere così. Aragog è la riproposizione in miseria di Shelob o Ungoliant; il Platano Picchiatore un Ent con l’influenza.

C’è persino un traditore: Peter Minus, oggetto inqualificabilmente umanoide che dovrebbe ricordare il titanico Saruman: al pensiero di essere accostato a cotal essere, Christopher Lee s’è rivoltato nella tomba come una cotoletta.

Gli oggetti

Fino al VI libro, ho sperato non ci fosse un Anello magico attraverso la cui distruzione il cattivo sarebbe morto. Ce n’erano sette, infatti, e si chiamavano Horcrux. Solo il loro annientamento avrebbe consentito la morte di Voldemort, perché, in essi, egli aveva infuso la sua anima… devo aggiungere altro? Ash nazg durbatulûk.

Eviterò, per pietas, di parlare della Spada di Grifondoro (Andùril), dei Doni della Morte (gli Anelli minori) e della presenza di un Serpentone (Smaug).

I dettagli

La maledizione Imperius ricorda l’incantesimo di Vermilinguo su Thèoden, Hogwarts è un rifacimento di Minas Tirith, il covo di Voldemort assomiglia a Minas Morgul persino nella tappezzeria. Non voglio neppure citare il fatto che Potter nel IV libro finisca in un cimitero (i Tumulilande), in battaglia richiami i morti  (come Aragorn a Erech) o, nel VII, risorga da morto (come Gandalf).

Ma’am Rowling, Lei ha fatto i miliardi con questo minestrone di citazioni: chapeau. Io non la invidio né la elogio. Non la stimo, né la critico.  Mi pento di aver speso soldi per i suoi libri, ma questi sono fatti miei.

Io voglio credere che Lei non abbia copiato. Voglio pensare che, piuttosto, abbia disseminato di oculati omaggi a Tolkien la sua opera. Mi faccia, però, un favore: convinca tutti i Suoi fan a smettere di giudicare qual “vecchia paccottiglia” tutto quello che The Professor ha creato: se non crede che tale screditamento avvenga, faccia un giretto su internet.

Con ciò detto, La invito a portare un crisantemo sulla tomba di Tolkien. Era un grand’uomo: sono certo che accetterà volentieri il fiore e non La denuncerà per aver “portato avanti” la sua opera come, al contrario, Lei ha fatto con quella casa editrice cinese…

 

Post-scriptum philosophicum

Ciò che ho tentato di veicolare in queste righe, è la mia convinzione teoretica che il furto sia sinonimo di omaggio, e che esso sia l’anima e la cerniera di tutta la produzione intellettuale umana: in fondo, non avremmo avuto l’impressionismo musicale, se Debussy non avesse “rubato” da Mallarmé.

Ciò che separa omaggio e copiatura, sono 1) la motivazione di chi “commette il furto” e 2) la coscienza che, d’esso, hanno i fruitori dell’opera finale. Non v’è dubbio che, omettendo d’affermare di aver tratto ispirazione da Il Signore degli Anelli, l’autrice di Harry Potter (che, per svariati motivi, io ritengo portabandiera di quella Cultura-Odierna contro la quale mi batto duramente), o quantomeno la sua fan-base, si dimostrino intellettualmente piuttosto poveri, ma non è colpa loro: pagano solo il fio d’essere immersi in un certo modo d’intendere la conoscenza e l’arte.

Il mainstream contemporaneo ha proclamato il dogma del primato dell’originalità-a-ogni-costo. Ammettere di aver-tratto-ispirazione, o di essere-stati-influenzati, è considerato una debolezza. In senso ironico, se Il Signore degli Anelli rappresenta la tradizione, e Harry Potter la modernità che nega il passato, potremmo dire che il primo è “di destra”, il secondo “di sinistra”.

La negazione dei precedenti (malafede-estetica che muta il nobile omaggio in volgare copiatura) la potremmo chiamare “paura della storia”, o “fobia della somiglianza”: un vero autorazzismo post-avanguardista d’una disonestà intellettuale rivoltante, sintomo d’ignoranza crassa, degno figlio di questo secolo oltr’i confini del quale − io lo sento − c’è ben più del nulla.

L’unico antidoto a questo bisogno di originaleggiare, è un rinascimento ermeneutico, attuabile con un’educazione che sia, quanto più possibile, enciclopedica, e che consenta d’instillare, in ciascuno, una competenza adeguata a tesser rimandi e confronti intra– e inter– disciplinari. Sapere un po’ di molte cose è decisamente più utile a livello pratico, e apre molto di più i confini della mente teoretica, che non sapere tutto d’un solo argomento (posto che le due cose s’escludano a vicenda). Quest’educazione omnipervasiva, io la chiamo Eclettismo.

Solo percorrendo la Via Diritta dell’Eclettismo, supereremo la “paura della somiglianza” che, grazie al potere della Cultura-Dominante (bisognosa di tagliare masochisticamente i ponti con la storia) risulta essere molto più pericolosa per la sopravvivenza dell’Occidente (che sinora s’è nutrito di memoria e d’identità) di quanto non lo sia il falso totem della “paura della diversità”:

«Mentre il nuovo mondo decade, l’antica Via e il Sentiero del ricordo dell’Ovest ancora sono certo percorribili […] per giungere dove i Valar tuttora dimorano, osservando lo svolgersi della storia».
J.R.R. Tolkien, Akallabêth

David Casagrande

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Appunti di uno ancora in vita. David Casagrande intervista sé stesso (II parte)

«Se lei crede che io mi lasci abbindolare da cose tipo

“Sono un’artista, non ho bisogno di spiegare”, è fuori strada».

(Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza, 2013)

 

Tutte le sue teorie mi sembrano abbastanza preconcette. Non mi ha fornito dati empirici a loro giustificazione: mi ha semplicemente detto che “è così e basta”.

Cerco di venirle incontro: osservando il mondo, ho capito che tutte le azioni dell’uomo rispondono all’Amore o all’Odio. Lei prenda qualsiasi gesto, lo semplifichi giungendo al substrato che l’ha generato, e ne studi il fine: si accorgerà che base e fine sono (sempre!) l’Amore o l’Odio. Aggiungo: non solo le scelte esistenziali, ma anche le attitudini mutano la loro essenza a seconda che le s’indirizzi all’Odio o all’Amore.

Mi farebbe un esempio di attitudini che possono essere rivolte sia all’Odio che all’Amore?

Pensi alla musica: se la si produce per diletto puro, allora siamo nell’Amore, perché generiamo meraviglia. Ma se invece (ci) costringiamo a praticarla per competere o per volontà di superioritàebbene, siamo diretti all’Odio (e quanti genitori vedo imboccare questa strada, sfruttando i figli! Dominus parcat illis).
In realtà, ciò che vale per la musica, o qualunque tecnica particolare, vale per l’arte. In effetti, concordo con Hegel: l’arte è morta, e chi s’ostina a praticarla s’accanisce terapeuticamente s’una carcassa. Gli artisti d’oggi, animati da Spirito-di-competizione, ovvero dall’Odio, anche se si spacciano da Cristo che resuscita Lazzaro (perché pretendono di far bellezza, come in passato) sono dei Frankenstein che costruiscono mostri-nuovi con cadaveri-vecchi.
Tenga conto che la letteratura è esclusa da questo ragionamento: essa, infatti, non è arte, è Meraviglia, solo ed esclusivamente Amore. Nella letteratura non c’è traccia di Odio, perché manca di competizione.

Qual è il rapporto tra esistenzialismo e arte?

È un reciproco sospetto, direi. Fra i molti autori che potrei citare, ne eleggerò tre.

  1. Per Kierkegaard, l’arte è un rimando: in quanto tale, è un significante che indirizza al mondo e con esso mantiene rapporto inscindibile. Il problema è che, nel momento cui questo rapporto si mantiene nella mondanità, esso è – già da sempre – inautentico e non-libero.
  1. Sartre definiva la pratica artistica un “annichilimento della realtà”. Con un ottimo esempio, afferma che, sin quando stiamo a fissare un quadro di re Carlo VIII, non sapremo nulla di costui: egli “apparirà alla nostra coscienza” quando ci libereremo dall’influsso artistico per darci al “pensiero” del re.  In altri termini, l’arte impedisce alla coscienza di agire in modo consono alla sua missione.
  1. Bergson, riflettendo sull’essenza della realtà, si concentra su percezione e memoria pura. Ora, tale essenza è (per farla molto semplice) la realtà ontologica del tempo, che si dà all’uomo come intuizione-delle-cose. E l’intuizione, facoltà tanto conoscitiva quanto rivelatrice del tempo, non si trasforma mai in capacità artistica. L’arte dunque, è certamente a-temporale (il che, potrebbe essere positivo) ma, nondimeno, è a-logica.

Io, personalmente, ritengo che una vera comprensione dell’esistenza porterebbe all’implosione dell’arte. Se riuscissimo a capire che è la vita la nostra opera più grande! Che non occorre musica quando basta il suono del cuore! Che è la voce di chi amiamo la canzone più bella!

Lei cosa consiglia? Interdire la pratica dell’arte?

Superarla. Considerando che l’Odio nasce dalla competizione (meglio: si lega a essa) un’ottima idea potrebbe essere quella di favorire il ritorno all’arte-pura, eliminando i concorsi o le gare di disegno, di musica, di canto. E quegli squallidi show in TV… Terrei invece aperti, come depositi di “storia della purezza”, accademie e conservatori.

Torniamo alla sua filosofia. Lei sostiene che l’Universo invoca l’Amore, eppure ha scritto un Elogio del dolore. Come possono convivere dolore e Amore?

Amore e Dolore sono tutt’altro che opposti! Un amore può essere doloroso, e aggiungo: l’Amore-Vero necessita del Dolore per mostrarsi. Badi bene: il Dolore è doppio; esiste il Dolore-che-patisco e il Dolore-che-provoco e sono essenzialmente diversi: il primo conduce all’Amore, il secondo all’Odio, e io lo chiamo Egoismo.

Odio e Amore. Le due categorie fondamentali dell’uomo…

La interrompo. Le categorie dell’essere-umano (non dell’uomo!) non sono queste: l’Odio e l’Amore sono le Sorgenti e gli Orizzonti che raggiungiamo percorrendo le Grandi-Vie dell’Egoismo e del Dolore. Le categorie sono coppie di opposti atteggiamenti, che rispondono a due Trascendentali, che a loro volta dipendono dall’Universale. A ciascuna delle Grandi-Vie corrispondono due categorie.

Me le elenchi e me le esplichi.

Detesto la parola categorie, preferisco il termine Esistenziali: sono le caratteristiche fondamentali dell’esistenza (assunte da quel particolare essente che ha, nella sua propria essenza, il tratto fondante che si occupi del suo essere) al momento dell’imbocco di una delle due Grandi-Vie.
Detto in parole povere: gli Esistenziali sono le caratteristiche fondamentali dell’essere-umano, e cambiano a seconda che si scelga l’Amore o l’Odio. Tali Esistenziali sono: Essere/Apparire e Avere/Possedere.
Essere e Avere conducono all’Amore seguendo la via-del-Dolore, e si acquisiscono praticando la compassione. Apparire e Possedere conducono all’Odio, seguendo l’Egoismo, e si producono in chi non conosce compassione. I due Trascendentali (dai quali gl’Esistenziali dipendono) comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dalla Grande-Via che imboccano, sono Scelta-Libera e Ripetizione-Consapevole, possibili solo grazie all’Universale della Libertà.

Come la giustifica la Libertà?

Fondandola nella Speranza.

Concluderei con una domanda difficile. Lei teme la morte?

Non è una domanda difficile… e le rispondo che non la temo. Temo l’immobilità di una vita senza passione. Temo la gabbia di un corpo sfigurato dal tempo. Temo l’agonia… ma la morte non mi spaventa. In effetti, una delle mie speranze più grandi è proprio questa: svegliarmi una mattina, e cogliermi (senza strappi, sofferenze o pianti) non più come “indegno velo”, ma come presenza del ricordo, luce di me stesso, naufrago in un oceano di silenzio.

Cosa immagina ci sia, dopo la morte?

Lasci che le risponda con le parole di Tolkien:

«Infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una dolce fragranza, e udì canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba».

Non aggiungerei una sillaba.

David Casagrande

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Lettera alla sig.na Regine Olsen: anche i filosofi hanno un’anima

[Poche volte, nella vita, capitano fortune come questa. Questa lettera, da me trovata (chiusa in un cassetto di uno scrittoio, comprato per puro diletto in Nørregade, in quel di København) e tradotta dall’originale danese, è la minuta della famosa, e tragica, “Lettera del 1849” a Regine, da Kierkegaard spedita, ma alla quale non ricevette mai risposta.]

Allo stimatissimo signor X:
la lettera acclusa è mia per la Vs. compagna di vita.
Decidete Voi se consegnargliela o meno.
Io non cerco, in modo alcuno, di potarVela via: intendo solo narrarle ciò che fummo, perché lei si senta libera di ricordare il bene, e il male, di quello che fu la nostra storia.
Ho l’onore di professarmi Vostro devotissimo
S.A.K.

 
Mia Regine,

il cuore, è come una casa subacquea ove vi sono molte stanze: giù nel fondo, poi, vi sono camere piccole, ma accoglienti, dove si può stare tranquillamente seduti, mentre fuori il mare tempestoso; in alcune di esse possiamo udire in lontananza il rumore del mondo (non angosciosamente assordante, ma sempre più fievole e quieto… sai perché? Perché gli abitanti di queste stanze sono coloro che s’amano).
Ma da lungo tempo oramai, cara amica, non abiti più queste segrete magioni: io e te siamo separati, lontani nello spazio infinito del tempo, nella piccola circoscrizione dello spazio: non è poi così immensa Copenaghen!

Ti scrivo ora, perché finalmente voglio che ti sia chiaro perché la nostra storia è finita.
Da quando ti conobbi, ho sempre cercato di vivere artisticamente: volli farmi simile a te, cercando di ritrovare una sensibilità prontissima a cogliere ogni cosa fosse interessante nella tua vita: avevi il dono, cara amica, di saper presentare come arte (non la chiamerò poesia, perché tu con le parole non eri brava come con i suoni e con le immagini: eri erotica in ogni tuo gesto, come solo una ragazza della tua età può essere) qualsiasi cosa tu vivessi: era questo che mi aveva fatto innamorare di te, era questo che mi allontanava terribilmente da te.
La tua arte, amica mia era il ‘di più’ che solo tu potevi donarmi, perché tutta la tua esistenza (bisogna dirlo!) era impostata sul godimento artistico: e un po’ di quel piacere eri riuscita a passarlo a me… il punto è che io non potevo vivere così in eterno, perché io non sono così, e pur di piacere a te, violentavo me stesso. Dolce tortura, ma pur sempre tortura!
Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione.

Forse tu non eri pronta a cotanto sentimento? La storia parlerà per noi.

Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi?
Ma davvero poi il tuo corpo poteva così manifestamente mentire? E la tua mente, il luccichio dei tuoi occhi, erano davvero falsi come io ora credo?

Regine mia, non c’è proprio nessuna speranza, davvero nessuna? Il tuo amore non si ridesterà mai più? Io lo so che, nonostante tutto e tutti, tu mi hai amato, benché non sappia dire donde mi venga questa certezza.
Sono pronto ad aspettare a lungo; aspetterò, aspetterò fino a che non sarai sazia degli altri uomini, e quando il tuo amore per me risorgerà dalla tomba: allora, e solo allora, riuscirò ad amarti come sempre, e ti renderò grazie come un tempo, Regine, quando, poggiato al tuo seno, ascoltavo il dolce e regolare moto del tuo respiro, e ti ringraziavo per esser con me.
Non potrai essere così crudele e spietata verso di me in eterno, mia Regine: giungerà il giorno del tuo perdono o del tuo ravvedimento… non ricordo neppure chi dei due distrusse la nostra storia.
No Regine, chi abbia lasciato chi ora non conta.

Sei stata crudele con me, al pari di come io lo fu con te, è vero.
In realtà, tu non lo sai, io ho taciuto il mio dolore e le poche cattiverie dette su di te non hanno che la consistenza dell’aria: solo Dio sa cosa ho sofferto (e voglia il Signore che nemmeno ora io te le racconti)! Mia Regine io ti devo molto… e ora che non sei più mia, ti offro una seconda volta ciò che posso e oso e conviene che ti offra: me stesso.
Sì, ti dono questo cuore che già in passato fu tuo, e lo faccio per iscritto, per non stupirti e non sconvolgerti. Forse la mia personalità ha fatto su di te un’impressione troppo forte, in passato: ciò non deve accadere una seconda volta, e se tu dovessi accettare la mia mano tesa, dovrebbe essere per vero amore, non per impressione.
Mia Regine, prima di dirmi di no!, ti prego, rifletti seriamente (per amore di Dio nei cieli) se puoi, o meno, parlarne con me con serenità, e in tal caso se preferisci farlo per lettera o direttamente a voce. Se invece tu, dopo accurata riflessione, decidessi comunque di non darmi più alcuna risposta, se la tua risposta al mio amore fosse ‘no’, ricorda almeno – per amor del cielo – che per te, e solo per te, ho fatto, e rifarei mill’altre volte, questo passo.

In ogni caso resto,
quale sono stato dall’inizio fino a questo momento,
sinceramente il tuo devotissimo
S.A.K.

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

Apocalisse dell’amore: David Casagrande intervista se stesso

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Anzitutto mi faccia dire che trovo presuntuoso che lei abbia accettato questo incontro.

Lei voleva intervistarmi, io ho acconsentito: dov’è la presunzione? Trovo piuttosto singolare che uno chieda un favore a qualcuno, sperando che costui glielo rifiuti.

Senta, vorrei essere breve, e m’impegnerò per riuscirci: detesto ogni secondo che passo con lei.

La capisco. Starmi vicino non è facile: ho un carattere terribile. Anch’io, se fossi un’altra persona e mi conoscessi, mi detesterei. Ma partiamo, dunque!

Partiamo dall’articolo sulla meraviglia. Lei sostiene che la gratitudine che proviamo innanzi alla meraviglia si chiama “amore”. Però non spiega minimamente cosa sia l’amore: potrebbe descriverci questo sentimento?

Scrive il Tao-te-ching: «Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao». Tao significa sentiero: io ritengo che l’Amore-vero sia esattamente questo: il punto d’arrivo (e quello di partenza) d’una strada su cui dirigere i nostri passi. Noi uomini possiamo percorrere varie direzioni, evidentemente, ma solo la strada dell’Amore è giusta.
Il problema è che, esattamente come l’eterno-Tao della tradizione cinese, anche l’Amore-Vero lo possiamo dire in mille modi, ma non riusciremo mai a coglierlo, perché l’amore-che-può-essere-detto non è l’Amore-Vero.

Come risolvere questa scollatura tra Amore-vero e amore quotidiano?

Cercando di cogliere, per approssimazione, l’Amore-vero nelle varie tipologie di amori-umani e, una volta individuato, declinarlo nella pratica.

Sia più chiaro.

Kierkegaard insegna che l’uomo è tripartito in corpo, anima e spirito, ponendo questi tre aspetti in grado crescente di perfezione. Perfezione che, però, si raggiunge solo nella sintesi: lo spirito è, appunto, sintesi tra corpo e anima: ricomprendendo i due estremi nell’eterno che li ha posti, è perfezione. Ora, a ciascuno di questi tre lati dell’umano, corrisponde una diversa tipologia d’amore.
All’elemento corporeo corrisponde l’amore fisico, la prossimità corporale. All’elemento pneumatico dell’uomo corrisponde il rispetto, l’amicizia. All’elemento spirituale corrisponde la compassione.
Delle tre, la tipologia di amore-umano che più si avvicina all’Amore-vero, è la compassione, ed è tale perché ricomprende in sé passione e rispetto, e li infinitizza.
Quando agisco con compassione, seguo la via dell’Amore-vero, pur mantenendomi nell’ambito dell’amore-umano: questo perché la compassione, essendo universale, eternizza tanto la passione quanto il rispetto.
In questo senso, così si spiega il mio articolo del mese scorso: quando mi-meraviglio io amo, perché nelle cose che provocano stupore, avverto la gratuità dell’altro-da-me; attraverso di essa, sento in me compartecipazione alla vita-del-mondo, mi inserisco sulla strada giusta – anche se poi spetta a me seguirla fino in fondo: non basta stupirsi di qualcosa per dire: sono giunto all’Amore; la strada è molto più impervia. In ogni modo, più ci stupiamo, più avvertiamo com-passione, e più l’avvertiamo, più avviciniamo l’Amore.

Ma i fondamenti dell’uomo non sono lo scontro, la lotta, il desiderio di predominanza?

Queste sono le radici dell’homo-sapiens, cioè d’una razza di scimmie, non dell’essere-umano, cioè di quella creatura che ha studiato filosofia e astronomia. Ed è questa, in verità, la cosa che più mi spaventa di questo mondo: vedo molti homines-sapientes, ma pochi esseri-umani.

La sua teoria dell’Amore-Vero, che si manifesta in compassione, prevede anche una sorta di nobilitazione del sesso?

Non esattamente. L’amore fisico non è atto-sessuale, è piuttosto bisogno-di-contatto: ciò significa che la compassione non necessita del coito, ma della prossimità fisica con l’oggetto amato.
Tuttavia è evidente che l’atto sessuale, filosoficamente, è illuminante su come l’Amore-Vero necessiti parimenti di rispetto e contatto: quando infatti mi accosto alla persona che penso d’amare e toccandola, baciandola, penetrandola, capisco che (oltre a desiderarla) rispetto ogni sua caratteristica (anche i suoi difetti), allora giungo a capire la com-passione (passione-insieme).
Se invece non ne rispetto le particolarità, cercando in lei solo precisi canoni estetici, allora non ho più a che fare con un singolo, ma con un corpo: di conseguenza, non sto “facendo-l’-amore”, mi sto “accoppiando”.

Lei mi sta dicendo che quando amiamo il partner, l’amiamo con la stessa forza con cui dovremmo amare, generalmente, il mondo…

Le sto dicendo l’opposto! Sul mondo – su ogni ente del mondo – dobbiamo aspergere la stessa compassione che riverseremmo sulla persona che vogliamo al nostro fianco.
Tutto ciò, naturalmente, sperando di intrattenere relazioni veramente d’amore … eviterò, per signorilità, di parlare qui di altri tipi di rapporti, basati s’uno squallido do ut des: ignobile mercato delle vacche ove i favori sessuali sono scambiati con oggettistica varia. Queste “relazioni” somigliano all’Amore-Vero (e alla compassione) esattamente come lo sterco somiglia alla Sachertorte.

Come facciamo a capire che l’amore che proviamo per una persona è compassione, e ci può guidare all’Amore-Vero? Come possiamo essere certi della purezza del sentimento?

Occorre ripartire da sé stessi: vede, non esiste un solo modo di innamorarsi, non esiste un solo tipo di amore, perciò dobbiamo imparare ad ascoltare le nostre emozioni. Se, quando guardiamo una persona, proviamo solo desiderio o solo rispetto, e non riusciamo a sintetizzare le due cose, evidentemente non l’amiamo.

Quali sono dunque i sintomi dell’innamoramento?

Non esiste un’eziologia: io guardo i singoli sperando di cogliere l’Universalità, non il minimo comun denominatore, quello è compito dello scienziato (con l’evidenza che la scienza non spiega il mistero, e il senso, della totalità umana); al massimo potrei raccontare quello che è successo a me, ma non credo che v’interesserebbe. Di certo una cosa è chiara: l’Amore-Vero non chiede d’essere ricambiato: lo dimostra la vita-del-mondo, che non necessariamente ama i singoli, mentre esistono singoli che amano la vita-del-mondo.

Certo, è bello pensare che lei abbia ragione: mi spaventa sapere che lei, però, sbaglia. Il mondo è odio, terrore.

Quella dell’Amore è la-strada, non l’unica-strada. Ognuno si determina a seconda delle scelte che compie: nulla obbliga l’uomo a prendere una particolare direzione, se non vuole. Ed è evidente che chi sceglie l’Amore, oggigiorno, è in minoranza.

(continua, purtroppo…)

David Casagrande

HUMILITAS. In ricordo di Albino Luciani nell’anniversario dell’elezione

Chissà cos’avrà pensato, quel lontano 11 gennaio 1959, il 46enne don Albino quando, giungendo alla stazione di Vittorio Veneto sotto la neve, scese le scalette del convoglio e si trovò innanzi la terra della sua nuova diocesi; la descrisse così, più tardi: «Di qua il Piave, di là il Livenza, sopra si arriva alle porte di Belluno, sotto fin quasi al mare. In cima monti, in mezzo colli, in basso fertili piani, che vanno abbellendosi sempre più di nuove strade, nuove fabbriche, vite e frutteti, e un mantello di chiese che la copre da capo a piedi».
Albino Luciani – nativo di Forno di Canale, nell’Agordino – aveva per sé altri progetti: avrebbe voluto continuare a insegnare in seminario a Belluno, ma papa Giovanni XXIII lo sceglie come successore di san Tiziano sulla cattedra di Vittorio Veneto, una diocesi che – da patriarca – Roncalli aveva ben conosciuto, recandosi in villeggiatura sulle colline di San Pietro di Feletto. Il papa supera le perplessità della Congregazione: Luciani è troppo giovane, è troppo malaticcio … e commentò: «Vuol dire che morirà vescovo».

Lo stemma e il motto di Luciani, che oggi campeggiano nella Sala del Trono del castello vescovile, sembrano dire tutto di lui: tre stelle in campo azzurro, una sola parola sul cartiglio: “Umiltà”; quelle stelle bastano: rappresentano le virtù, la Trinità, la Madonna: il resto è superfluo.
A Vittorio, Luciani iniziò subito la visita pastorale; nello spirito del Concilio, cui partecipò attivamente, condivideva le parole di Paolo VI, che nel 1965 aveva affermato: «Chi appartiene a quella società che si chiama oggi “il popolo di Dio”, deve sapere che questa comunità è organizzata, e non può vivere senza l’innervazione di un’organizzazione precisa e potente che si chiama Gerarchia»; uomo di mitezza e obbedienza, don Albino le pretendeva anche dal prossimo: prova ne è lo strano caso dello “Scisma di Montaner”.

Nel 1969 giunge la nomina patriarcale a Venezia, nel 1973 l’elevazione al cardinalato; nel 1977 incontra suor Lucia a Fatima: questo evento giace a metà tra la storia e la leggenda: il patriarca, in pellegrinaggio a Cova da Idria, incontrò la suora per due ore; il fratello, Edoardo, disse di avere visto il cardinale tornare molto scosso: era diventato silenzioso pensieroso e quando gli chiese cosa avesse, Albino rispose: “Penso sempre a quello che ha detto suor Lucia”. Che gli avesse rivelato l’elezione papale o addirittura il contenuto del terzo mistero è impossibile da verificare; resta solo la certezza che le parole di suor Lucia segnano profondamente l’animo del patriarca.

Nell’agosto 1978, Paolo VI muore e Luciani, il 26 agosto, al quarto scrutinio, è chiamato a sostituirlo sulla cattedra di Pietro. Il responsabile della sua elezione ha un nome e un cognome: Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze, che sperava di ottenere una nomina in curia – forse addirittura la Segreteria di Stato – con l’elezione del patriarca di Venezia al Soglio. Ma non è lo Spirito Santo che sceglie il papa, potreste chiedermi? A questa domanda rispose, non senza una certa dose di bavarese ironia, il cardinale Ratzinger nel 1997, quando di lavoro faceva il custode dell’ortodossia: «Lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto ci lascia molta libertà, senza abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico. Probabilmente l’unica sicurezza che offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata».

Trentatré giorni di pontificato; trentatré, come gli anni di Gesù, come la durata di un ciclo lunare secondo i medioevali. Sembra perfetta la profezia di Malachia che, riguardo al 263° vescovo di Roma diceva: De medietate luna – della durata media d’una luna. Il papa di settembre non presiedette mai Messa in San Pietro, e parlò al mondo di sé con termini di disarmante umanità, toni simili a quelli di un parroco di provincia che non a quelli d’un vicario di Cristo: «Io non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa». E ancora: «Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri».

Considerato conservatore in termini di morale sessuale, Giovanni Paolo I è uno strenuo difensore dei diritti dei poveri: animato dal fuoco della Populorum Progressio di Paolo VI, durante un discorso disse: «I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio sono opprimere i poveri e defraudare la giusta mercede agli operai», frase che provocò qualche imbarazzo ai redattori dell’Osservatore Romano, impegnati a trascrivere.
Vero scandalo creò, invece, la dichiarazione della maternità di Dio del 10 settembre: «Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: Dio è papà, più ancora è madre» – per i teologi è un colpo basso. Dio è, nel Nuovo Testamento, sempre descritto con tratti maschili: Gesù ci ha insegnato a chiamarlo “Padre” e raramente, nell’Antico Testamento, Jahwe è accostato ad attributi femminei. Eppure il suo amore è tenero come quello di una mamma, è più caldo di quello – leggermente più formale – di un buon papà … come conciliare le due cose? Il cardinale Ratzinger risolse la diatriba nel 2001: «La Bibbia mette in chiaro la provenienza da Dio di uomo e donna. Ha creato entrambi. Entrambi sono racchiusi in lui – e lui è al di là di entrambi».

Alla sua ultima udienza generale, il 27 settembre, un uomo gli grida: “Lunga vita!” … lui alza la mano, sorride, sembra imbarazzato. Forse, sa.
Quattro sole udienze, ma il filo del discorso è chiaro, le quattro catechesi hanno senso perfetto, e sembra abbiano concluso un ciclo di insegnamenti sulle virtù: umiltà, fede, speranza, urgenza della carità; nello stile di Luciani, il superfluo va rigettato: sembra quasi che un’altra udienza sarebbe stata solo un orpello inutile, perché al cristiano bastano queste cose: sufficit tibi gratia Mea.

Il sorriso, la semplicità di un parroco veneto chiamato a Roma, sono i tratti che più rimangono a noi, che non lo abbiamo conosciuto se non dai filmati d’epoca e dalle testimonianze di chi lo conobbe da vescovo o cardinale, e nel ricordo commosso dei suoi successori sul Trono di Pietro.
E forse la morte di papa Luciani, così fulminea e rapida, inaspettata e triste per tutti i fedeli del mondo, non è altro che l’ovvia conclusione di una vita dimessa, lontana dagli eccessi: “Scritta nella polvere, affinché il merito rimanga tutta a Dio”.

David Casagrande

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Meraviglia e gratitudine: favola di un’esistenza che merita d’esser vissuta

La vita non procede senza misteri; dal caleidoscopico mondo onirico della notte, alle salmodie dello spirito in cerca di sé, alle fantasiose geometrie della luce nel cielo, tutto ciò che è (il-)lontano-da-noi attrae, dona sale alle giornate, senso al progredire. Anche se, paradossalmente!, conosciamo le ragioni d’un sogno, un arcobaleno, d’una passione (ci sono ragioni sufficienti, fisiche e neurofisiologiche, per spiegare pressoché ogni cosa!), una parte di noi necessita quantomeno di fingere di non sapere, per non smettere di meravigliarsi, di commuoversi, cioè di esserci…
Riferendomi al concetto di mistero (che il dizionario definisce “tutto ciò che non si può intendere o spiegare chiaramente, e che appunto per questo, attrae o affascina”) non intendo parlare di fede, di Dio, d’interrogativi teologici: anche questi sono, evidentemente, misteri – forse lo sono nel senso più pieno e più proprio della parola – ma dei misteri che più davvero investono del sentimento del mistero, la meraviglia: quei piccoli quesiti della quotidianità per i quali 1) o abbiamo, ma fingiamo di non avere, risposta, o 2) non cerchiamo, scientemente, soluzione.
Se il sensum misterī è la meraviglia, in greco ϑαῦμα, chiediamoci: cos’è la meraviglia? Aristotele la definisce come l’origine del filosofare, in quanto – innanzi allo sbigottimento – gli uomini iniziano a provare il bisogno di spiegare l’inspiegato; Severino ritiene, invece, che il meravigliarsi sia in realtà l’angosciarsi primigenio che il vivente prova innanzi alla (presunta) apparizione di tutte le cose dall’abisso del Nulla.
Con tutto il rispetto per i due maestri, direi che hanno sbagliato entrambi: il meravigliarsi, originariamente, non coincide né con lo spaventarsi, né con l’interrogarsi: è anche questo, ma non è solo questo.
Quando siamo di fronte al  ϑαῦμα-καθαρός (meraviglia-pura) sentiamo inizialmente solo affascinamento, lo stesso che proveremmo baciando una persona tanto desiderata e finalmente raggiunta; evidentemente, un tal bacio meraviglia: non c’è alcun modo di capire se l’incontro delle labbra evolverà in relazione, né sappiamo se quel tocco si trasformerà in possesso, ma nell’istante dell’atto, non siamo né spaventati né dubbiosi. Siamo solo affascinati dalla purezza della sorpresa, e sentiamo il  bisogno di dire grazie – a chi abbiamo innanzi, a noi stessi, alla Divinità: non ci interessa.  E la meraviglia è appunto questo: bisogno di ringraziare.

Da qui innanzi, questo scrittarello vuole diventare un elenco di quotidiani misteri per i quali, nella nostra esistenza, anche senza volerlo, sentiamo il bisogno di dire un generico εὐχαριςτῶμεν: grazie.

  • Εὐχαριςτῶμεν per la vita, spazio di tempo tra i sospiri di due amanti e il nostro spirare: per la sua pienezza e la sua imprevedibilità.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la gioia, voce indelebile dello spirito: per i suoi sussulti nell’incontro con l’altro, per i suoi lunghi mutismi.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la tristezza, straziante poesia dell’invincibile attesa: per i suoi crampi lancinanti, le sue infinite sfumature.
  • Εὐχαριςτῶμεν per l’amicizia, forza universale di mistico connubio tra dilezione e scelta: per le vette che raggiunge, per le valli che percorre, per le stupidaggini che commette.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la grandezza del cosmo, cuna immensa in cui s’adagiano i tempi dell’eternità: per ciò che contiene, per i suoi confini, per ciò che sta oltre.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la bellezza dell’anima, sospiro immanente e dubbiosa stabilità: per ciò che fa provare, per i fiori che scaglia oltre le sbarre della carne, per le perle che semina tra i sassi.
  • Εὐχαριςτῶμεν per il silenzio dell’arte, creazione dell’atemporale grandezza dell’uomo: per un canto di Tasso, per un quadro di Rembrandt, per le colonne dei templi passati.
  • Εὐχαριςτῶμεν per l’abisso del Divino, altare marmoreo, specchio di perfezione: per il Nulla sconfitto, per il Dubbio sommo, per il pane tramutato, per i tutti che diventano uno.
  • Εὐχαριςτῶμεν per il dolore dell’esistenza, spina nella carne, ironia necessaria: per la sua invalicabile invincibilità, per la fragilità che esprime, per la totalità d’amore che modella.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la morte, ignota immobile forma del puro silenzio: per la sua inevitabilità, per la sua memoria, per la sua finalità non necessaria.
  • Εὐχαριςτῶμεν per chi non ci comprende, fuoco nella notte, fulmine di energia inautentica: per la sua opinione, per le parole che uccidono e provocano resurrezione.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la filosofia, arte perfetta, religione della verità, lode immutabile, gioia dell’uomo. Meraviglia continua, εὐχαριστεῖν

E non è finito di certo, questo elenco: a ciascuno il compito di correggerlo, allungarlo, modificarlo:  ognuno è libero di meravigliarsi per qualsiasi cosa, in questa vita: se infinita è la meraviglia, infinita è la grandezza dello spirito che l’accoglie.
Ma, in tutte queste meraviglie, una sola certezza io – personalmente, senza volerla imporre – sono sicuro di possedere: la gratitudine è amore, grandissimo amore. E l’amore mi ha spiegato ogni cosa; l’amore ha risolto tutto per me – per questo ammiro l’amore ovunque esso si trovi.
D’altronde, se l’amore tanto più è grande quanto più è semplice, e se la massima semplicità sta nel meravigliarsi, allora non è affatto strano che l’amore voglia essere accolto dai semplici, da coloro cioè che si meravigliano – coloro che non hanno parole. La gratitudine dimostra che l’amore vive tra noi – a un passo dal nulla – perché si posa vicinissimo ai nostri occhi stupefatti.

David Casagrande