Under the light. Luci, ombre e riecheggi platonici

Per un mese, a cavallo tra marzo e aprile, si sono riaperte le porte dell’Arsenale Nord di Venezia – versante meno noto rispetto all’area in cui si svolge la Biennale, ma altrettanto suggestivo – in occasione dell’esposizione delle 240 opere finaliste della sedicesima e diciassettesima edizione di Arte Laguna Prize, il concorso internazionale dedicato all’arte contemporanea.
Questa competizione, una delle più influenti al mondo per artisti e designer emergenti, è aperta a molteplici discipline – arti visive, performative, multimediali, paesaggistiche e digitali – ed è stata creata, ormai diciassette anni fa, per dare l’occasione ai talenti dell’arte, più o meno giovani, di farsi notare dal grande pubblico e dalla giuria composta da importanti nomi del panorama artistico contemporaneo.

Incantata dall’affascinante contesto in cui trovano posto opere similmente sorprendenti, da un mezzobusto raffigurante una povera Greta Thumberg con la testa avvolta da un sacchetto di plastica a uno strano marchingegno, in grado di, una volta compilato un veloce questionario, produrre il profumo adatto alla propria personalità, la mia attenzione si è soffermata su una particolare installazione, intitolata Under the light (2022).

La mano è quella di Dongli Ma, nato in una piccola città della Cina Occidentale, i cui lavori spaziano dai quadri a olio fortemente influenzati dalla pittura tradizione orientale, alle sculture, fino appunto alle più recenti installazioni. È lo stesso artista a dichiarare che nella sua concezione dell’arte ciò che conta sono le idee, ognuna delle quali per manifestarsi al meglio deve essere concretizzata attraverso l’uno o l’altro materiale, la cui scelta conta ed è decisiva. Non importa se esso è costoso, vecchio, nuovo, popolare o no, ciò che conta è che esprima nel miglior modo possibile quello che l’artista intende comunicare

Devo dire che uno schermo luminoso e la luce di mille torce hanno la capacità di veicolare nello spettatore un messaggio e di evocare un’emozione. Queste le due componenti principali di Under the light. Lo schermo, nel momento in cui le torce sono spente, mostra alcune popolari parole chiave che hanno contrassegnato le ricerche online in Cina negli ultimi anni. Quando però mille torce si accendono e mille fasci di luce brillano ogni lettera scompare: lo schermo diventa estremamente luminoso ma vuoto. Avvicinandosi all’accecante parete bianca, i raggi di luce prodotti dalle torce vengono bloccati dal nostro corpo, e improvvisamente, nell’ombra che ne deriva si intravedono alcune frasi. Fra i molti sinogrammi cinesi che esprimono il pensiero di alcuni importanti pensatori orientali, si legge anche qualche espressione in lingua inglese, fra cui la celebre massima kantiana “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. 

Ora, senz’altro, questo gioco di luci e ombre correlato alla visione di qualcosa di nuovo, inatteso e sorprendente richiama alla mente l’allegoria probabilmente più nota nel panorama della storia della filosofia occidentale: il mito della caverna di Platone. Se, in un primo momento, quello che riusciamo a vedere sono solo pochi vocaboli sconnessi tra loro, soltanto avvicinandoci e andando in profondità scopriamo celarsi una realtà ignota, composta da vecchie – ma ai nostri occhi nuove – parole.

Così Under the light ci ricorda l’importanza di non fermarci alle apparenze, di oltrepassare le ombre, di alzare gli occhi al cielo e di guardare la luce, per poi rientrare dentro la caverna e raccontare a tutti di un mondo inedito.

 

Chiara Frezza

 

[Immagine tratta dalla pagina del sito ufficiale di Arte Laguna dedicata all’opera, consultabile a questo indirizzo: https://artelaguna.world/sculpture/%E4%B8%8D%E8%A7%81%E4%BB%96%E8%80%85/]

 

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Cosa possiamo imparare dalla narrativa? Il romanzo come fonte storica

Siamo soliti acquisire nozioni relative al passato, più o meno recente, attraverso i manuali di storia. Questa pare essere la via “istituzionale”, quella verso cui siamo stati indirizzati fin da bambini. Ma se ci fosse un metodo alternativo, in cui a unirsi sono utile e dilettevole, per arricchire il nostro bagaglio storico? 

Per esempio, leggendo Guerra e Pace di Tolstoj ci viene data la possibilità di procurarci delle conoscenze in merito all’aristocrazia russa del XIX secolo, o ancora, Per chi suona la campana, di Hemingway, potrebbe dirci qualcosa a riguardo della guerra civile che ha dilaniato la Spagna tra il 1936 e il 1939. Questi testi, oltre a essere di argomento storico, hanno però un’altra e, aggiungerei, primaria (con un’accezione più ontologica che temporale) caratteristica comune: appartengono al genere letterario del romanzo, sono quindi opere narrative, composte principalmente da proposizioni finzionali e non da locuzioni assertive.

Sorge spontaneo chiederci se un prodotto finzionale, scritto con uno scopo diverso da quello della divulgazione scientifica, possa davvero essere dotato di un valore epistemico. Questa domanda prevede una risposta, almeno in parte, affermativa; d’altronde anche gran parte della tradizione umanista ammetteva la possibilità dell’acquisizione di un qualche tipo di informazione sul mondo (passato o contemporaneo a chi scrive) derivata specificatamente dall’esperienza letteraria – Aristotele poneva il piacere di imparare all’origine dell’ars poetica e Orazio definiva la poesia dulce et utile.

Prima di chiarire il motivo per cui un’opera finzionale è in grado di assolvere una funzione didattico-cognitiva, è doveroso mettere in guardia il lettore, esplicitando la modalità operativa di uno scrittore di narrativa, la quale, senz’altro, si differenzia da quella di uno storico. Leggendo un testo narrativo possiamo acquisire un’enorme quantità di dati empirici; tuttavia, non dobbiamo essere ingenui nel considerare valida ogni asserzione che sembra comunicarci qualcosa di fattuale. Gli eventi raccontati sono modellati dall’autore, e in particolare dal punto di vista che egli sceglie di adottare. Le narrazioni di un romanzo possono essere paragonate alla finestra di una stanza dalla quale osserviamo il mondo, ma tale finestra ha un vetro opaco, popolato da figure viste non attraverso ma sul vetro. Essa, quindi, è in realtà un dipinto, frutto dell’atto intenzionale e consapevole dell’artista di rappresentare il mondo, ma non necessariamente raffigurante eventi veramente accaduti e personaggi realmente esistiti.

Allargando il concetto di fonte a ogni tipo di lascito umano del passato, è possibile considerare testimonianze storiche più o meno attendibili, anche opere appartenenti al genere della letteratura finzionale, e in questo modo, un romanzo, anche se alienato dal suo uso originario (quello della fruizione estetica), può essere analizzato in vista di una conoscenza altra. 

In un testo narrativo si possono cercare informazioni dirette su eventi storici ma un impiego di questo tipo comporta che le notizie derivate dai romanzi vengano attentamente confrontate con altra documentazione, di altra natura; tale confronto consente di verificare ciò che – in un’opera di fiction – vi è di attendibile e ciò che, invece, deriva dal puro lavoro di invenzione. Un lettore leggendo un romanzo storico si trova sicuramente stimolato a chiamare in causa le proprie conoscenze in merito a una realtà determinata e a incrementarle con le immagini formatesi in seguito a tale lettura. È possibile quindi riscontrare una sorta di ampliamento cognitivo relativamente a un dato periodo, fatto o personaggio storico. Tuttavia, le credenze derivate in questo modo si configurano come particolari immagini mentali, plasmate da specifici dispositivi linguistici e da determinate strutture di rappresentazione comuni alla narrativa finzionale, e per questo non possono raggiungere il grado di scientificità richiesto dalle testimonianze storiche.

In secondo luogo, un romanzo può essere indagato non tanto in vista della ricerca di informazioni sull’epoca in cui l’opera è ambientata, ma come prodotto culturale che riflette la mentalità, i pensieri, i problemi e i gusti del periodo storico in cui l’autore vive e scrive. L’opera, in questo modo, deve essere messa in relazione alla biografia del suo autore, al ruolo assunto rispetto ad altri testi dello stesso periodo e alla risposta dei lettori. Un romanzo può diventare quindi una fonte primaria rispetto alla storia della mentalità in quanto documentazione fondamentale e una fonte secondaria in riferimento alla storia più generale se esaminato in riferimento alle strutture sociali e agli ambienti culturali. In breve, potremmo dire che I Promessi sposi risultano storiograficamente rilevanti non tanto in relazione alla realtà storica del 1600, periodo in cui è ambientata l’opera, ma piuttosto a quella del 1800, secolo in cui visse e operò Manzoni.

Quello che sicuramente fanno i romanzi, a prescindere dal loro grado di “storicità”, è aiutarci a esercitare la nostra immaginazione, estendendola a diverse situazioni e a nuovi punti di vista, che spesso si dimostrano illuminanti. Le storie ci aiutano a pensarci come fossimo un altro e questa è una capacità umana fondamentale, indispensabile nell’esperienza estetica ed etica, e di conseguenza anche nella vita di tutti i giorni.

 

Chiara Frezza

 

[Photo credit Mikolaj via Unsplash]

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Una citazione per voi: Hannah Arendt e la banalità del male

«Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male»1.

La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1964) è uno dei testi più noti di Hannah Arendt (1906-1975), filosofa ebrea-tedesca. Arendt era stata inviata in Israele dal New Yorker per assistere al processo a Otto Adolf Eichmann, gerarca nazista e tra i maggiori responsabili della messa in atto della “Soluzione Finale”, catturato – seppur senza il consenso del governo argentino – in un quartiere suburbano di Buenos Aires l’11 maggio 1960 e chiamato a rispondere davanti al tribunale distrettuale di Gerusalemme a 15 imputazioni, avendo commesso, in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra durante il secondo conflitto mondiale.

Quello del male è un tema che Arendt tratta a più riprese, e che viene sistematicamente indagato già nel suo primo importante lavoro Le origini del totalitarismo (1951). In questa sede, in particolare nel riferirsi alla snaturazione degli esseri umani che avviene in un totalitarismo, emerge il concetto di male radicale, inteso come male assoluto in grado di sottrarsi sia al perdono, sia alla punizione; male inaccettabile che riduce gli uomini a esseri superflui perché colpisce le radici – quali il pensiero e l’agire spontaneamente – della nostra esistenza, trasformando gli esseri viventi a un fascio di azioni programmabili.

Il processo a Eichmann condusse Arendt a riformulare le proprie argomentazioni: se, nel testo sopra citato, ad affiorare è l’idea che il male peggiore sia appunto quello radicale, in La banalità del male la studiosa si spinge oltre, dichiarando che il male non è mai radicale, è soltanto estremo, esso non possiede una profondità ma si diffonde in superficie, come un fungo, invadendo il mondo intero. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di attingere alla profondità, di pervenire alle radici, e dal momento in cui si occupa del male, viene frustato perché non trova niente. È qui la sua “banalità”2.

Nel partecipare a tutte le 120 sedute del processo, Arendt delineò la figura di Eichmann in modo piuttosto esaustivo, evidenziando gli aspetti comportamentali e fisici più rilevanti – nel senso di utili a corroborare la propria teoria. Ciò che emerse è che uno dei maggiori fautori della Shoah, responsabile operativo delle deportazioni di migliaia di ebrei era in realtà un uomo normalissimo e la sua mostruosità consisteva proprio nel non essere mostruoso. Eichmann era una persona mediocre, che nella sua mediocrità non aveva fatto altro che eseguire gli ordini che gli erano stati imposti, si esprimeva con frasi fatte ma era allo stesso tempo caratterizzato da una particolare incoerenza nel parlare, durante il giorno indirizzava i treni verso i vari lager e la sera rincasava e accarezzava i propri figli. Egli, fino all’istante precedente alla propria impiccagione, si sentì deresponsabilizzato, un anonimo burocrate che aveva fatto il proprio lavoro. È in questo suo essere sempre presente a se stesso che il funzionario nazista si distingue, per esempio, da Claude Eatherlay, il pilota e meteorologo statunitense che diede il via libera allo sgancio della bomba atomica che distrusse Hiroshima, il quale, assalito da una depressione senza scampo tentò più volte il suicidio perché comprese di essersi macchiato di uno dei crimini più orrendi della storia dell’umanità.

Ciò che veramente destabilizzò Eichmann fu invece la fine della guerra: «l’8 maggio 1945, data ufficiale della sconfitta della Germania, fu per lui un tragico giorno soprattutto perché da quel momento non avrebbe più potuto essere membro di questo o di quell’organismo […] non avrebbe più ricevuto direttive da nessuno […] in breve, gli aspettava una vita che non aveva mai provato»3. Eichmann era diventato una non-persona, egli non era più in grado di agire spontaneamente e individualmente, non possedeva gli attributi del pensiero e del ricordo. Per gli esseri umani, infatti, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquistare stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade. «Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti»4. Solo il bene è profondo e può essere radicale; il male è quindi banale.

L’invito che Arendt ci fa è quello di prestare attenzione a quando aderiamo o non aderiamo a un’indicazione solo perché così ci è stato riferito, a quando decidiamo di obbedire senza porci alcuna domanda, a quando siamo talmente asserviti a quella che per noi è la normalità da non essere più in grado di individuare le situazioni nelle quali è venuto meno il tempo della riflessione e quello della scelta: in breve, “la banalità del male” ci ricorda la necessità del pensiero.

 

Chiara Frezza

 

NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 201627, p. 259.
2. Cfr. H. Arendt, G. Scholem, Due lettere sulla banalità del male, Nottetempo, Milano, 2007.
3. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., p 40.
4. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2010, p. 81.

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