Selezioni amare

Leggo e rileggo tra i titoli della mia libreria in camera. Cerco e ricerco quello giusto, quel libro che tocchi l’amore e lo descriva al meglio.

Non trovo selezione, non trovo la storia perfettamente giusta.

Sarà un classico come “L’amore ai tempi del colera” o sarà soltanto un amore dei nostri giorni come quelli di cui scrive Lesley Lokko?

L’amore che nel tempo è diventato da tormentato a tormento della nostra quotidianità. L’amore che oggi, nelle pagine attuali, ci sembra maltrattato, dipinto come qualcosa da cui scappare.

Eppure l’amore si genera proprio da noi stessi. Si genera in un gesto, in troppe parole, in qualche briciola di tempo o in tante ore passate a leggere un libro. Si genera in una passione e in un risultato, l’amore é amore perché ci rende vivi.

Avete mai letto una poesia che amate all’alba in riva al mare?

Potreste pensare che sia qualcosa di talmente acclamato da diventare banale, eppure non lo è. Il fatto che non ci si renda conto del rumore del mare non potrebbe rendere al meglio il piacere e il significato della lettura. Leggere le onde, leggere le righe. Cambia soltanto un accento, ma l’attimo assume un significato diverso.

Qualcuno mi ha detto di giocare di più con le parole. Ho imparato che da amare ad amore non passa poi molto spazio.

Amore all’inizio, amare l’amore nel centro della nostra passione, amare come le lacrime alla fine del nostro amore. Come i progetti andati in fumo, come le persone che si perdono, come le cose che non sempre vanno come vorremmo.

Ho cercato di stilare una classifica di libri amari, o d’amore. Avrei voluto stilarne due, forse, affinché si contrapponessero.

Perché aveste – in questa estate già calda nelle temperature – un desiderio di fare pace con l’amore, anche ai giorni nostri.

Un po’ come fanno pace i protagonisti di “Per sempre”, di Susanna Tamaro. Fanno pace con i loro scheletri interiori. Perché nella vita, la maggior parte degli scheletri non sono nascosti in un armadio che teniamo in camera, ma dentro le nostre viscere, pronti a scontrarsi coi nostri pensieri.

Un po’ come fanno Fausto e Anna, in una storia inusuale di Carlo Cassola. In cui conoscono prima loro stessi dell’altro.

O forse, ancora, come quelli de “Il cielo è rosso” di Giuseppe Berto. In cui la scoperta é un flusso continuo che modifica le nostre vite.

D’amore se ne parla, si scrive e si canta da sempre. Fino a renderci un po’ troppo o troppo poco inclini ad esso. Fino a renderci vittime e carnefici al tempo stesso.

Fino a rendere il meglio ed il peggio di noi stessi.

Leggere l’amore al tramonto dev’essere come dissetarsi in un deserto.

Io scelgo “Un amore” di Dino Buzzati, per questa mia estate. Un amore che non sarà mai uguale e al tempo stesso non sarà mai diverso. Scelgo un libro che mi appartenga, come ogni giorno scelgo la vita che mi piace più indossare.

Vivete l’amore nell’operare le vostre scelte, perché l’amore per voi stessi è il primo elemento che vi dà vita. Vivete l’amore nel leggere, vivete l’amaro dell’amore ed anche i suoi lati più dolci.

Ora lo so; non avrei potuto selezionare dei libri ponendoli in una classifica. Guardandoli distaccata nella libreria non avrebbero rivissuto nella mia mente.

E invece vivono e rivivono, mi urlano dentro, mi fanno vibrare soltanto ripensandoci. E amo, e vivo.

Cecilia Coletta
[immagine tratta da Google Immagini]

Edith Piaf – Il niente per il tutto

“Et des que je l’apercois

Alors je seans en moi

Mon Coeur qui bat”.

La vie en rose – Edith Piaf

 

Esistono Donne che del proprio talento non sono mai abbastanza consapevoli nell’arco di un’intera vita. Non sono persone comuni, tantomeno individui qualunque. Non si confonderebbero in mezzo ad una folla, non li confonderesti con nessun altro, perché urlerebbero la loro personalità pur senza emettere una sillaba.

C’è chi sa fare delle proprie parole idee. C’è chi sa riordinarle con abile maestria. E poi c’è chi, per talento nato nel momento stesso dell’emanazione del primo vagito, sa metterle in musica. Senza collocarle con un ordine esatto, senza che siano parole ricercate. Sono solo musica pura, sono solo una melodia che riempie chi le ascolta, arricchendo la vita quotidiana di stati d’animo ricercati.

Edith Piaf inizia a cantare per le strade all’età di sette anni, esibendosi insieme al padre contorsionista. E’ già arte la sua voce, è già sentire l’ugola insanguinata di un passerotto: purezza e tragicità, in una sola minuta bambina. Una piccola donna a cui l’esperienza ha già insegnato a camminare sulle proprie gambe, a contare – cantando – soltanto sulla sua voce.

Toni aspri ed aggressivi contrapposti a dolcezza e femminilità: essere meno forti di quanto sia il nostro agire, questo forse è il più grande segreto dei grandi. Nessuna questione di genere, soltanto un’essenza di capacità, in un concentrato di tensione che si evolve costantemente.

Straordinario è chi, rimanendo infelice per tutta la propria vita, riesca ad infondere gioia attraverso la propria arte. Non è per la sofferenza che ha dentro, ma è per il modo di comunicarla. Lasciano senza fiato le canzoni di questa artista, proporzionalmente a quanto fiato impiegava lei.

Vivere soltanto quarantotto anni, in un’epoca dove la ferocia della Seconda Guerra Mondiale ha privato le persone di qualsiasi speranza, significa osservare la morte prendersi le parti migliori e peggiori del nostro tempo. Le espressioni degli uomini andati in guerra, quelle delle mogli che hanno lasciato, la morte che brucia dentro e fuori dalle case, dai volti, da ogni azione. Canta “La vien en rose” per sovrapporsi a tutto ciò, per creare un inno alla vita. Ad una vita felice, quella che lei non aveva mai conosciuto e non avrebbe mai avuto.

Sfruttata dal padre, abbandonata dalla madre, cresciuta nel bordello gestito dalla nonna, luogo in cui impara cosa sia l’amore. Spiegato dalle prostitute che lavoravano lì dentro; è sempre così, chi sembra più distante da un sentimento è chi lo coltiva e comprende meglio degli altri. Incostante nelle sue relazioni, amichevoli ed intime. Costante soltanto nella sua musica, quella che sarà sempre una luce nella sua vita di ombre.

Nel 1955, durante la sua esibizione alla Carnegie Hall di New York, viene investita da sette minuti interi di standing ovation. Una lode meritata. Per la sua voce enorme. Per il suo corpo esile. Per la figlia persa a soli vent’anni. Per le sue mani che tiene sempre dietro la schiena perché se ne vergogna. Quelle mani che, nel suo passato, tenevano un cappello per chiedere le elemosina. Quelle mani, nel suo presente, dense di dolore e rigonfie per i troppi farmaci.

Incurante dei soldi guadagnati; cosa potevano valere in cambio di un po’ Amore? Anche i sentimenti più superficiali possono sembrare meglio del niente, se a quello si è abituati.

Il niente che aveva diventa un importarsene di niente. Il dolore che cresce in lei ogni giorno rende per ogni passo un po’ più grande la sua arte. La sua vita sfortunata che lascia alla musica un’immensa fortuna.

Ossimori comunicanti; a questo corrispondono azioni e le conseguenze in cui si evolvono.

Cantava “Niente”, per darci tutto: semplicemente Edith Piaf.

“Non, rien de rien

Non, je ne regrette rien

C’est payé, balayé, oublié

Je me fous du passé!

Avec me souvenirs

J’ai allumé le feu

Mes chagrins, mes plaisirs

Je n’ai plus besoin d’eux”.

Non, jene regrette rien – Edith Piaf

 

 Cecilia Coletta

[immagine tratta da Google Immagini]

“Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo” – Malala Yousafzai –

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« Non mi importa di dovermi sedere sul pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è istruzione. E non ho paura di nessuno. »

Una ragazza e il suo desiderio di conoscenza; pensare a Malala significa esattamente questo.

Una Lei cresciuta fin troppo in fretta, che ha dovuto scoprirsi capace di vivere pur dovendo prima pensare a sopravvivere.

Teneva un blog per la BBC, un blog in cui raccontava del suo paese di nascita, in cui rilasciava tutta se stessa. Con la denuncia di un sistema in cui non esiste un diritto all’istruzione, attraverso l’urlo scritto di una donna che vuole conoscere, senza limitazioni per il solo fatto di appartenere ad un genere.

Poteva essere spogliata di tutto, ma non dei suoi libri e della sua voglia di imparare. Quella che riconosceva come un’identità della sua stessa essenza. Quel desiderio di pari diritti per raggiungere i risultati prefissi.

L’apprendimento non è soltanto un diritto, ma un’opportunità.

In una dimensione che troppe volte riduciamo a superficialità, in una dimensione in cui quasi sempre dimentichiamo il valore di ciò che può realmente darci qualcosa.

Avete mai guardato i libri della vostra biblioteca dopo averli letti?

Poche volte succede. Nella maggior parte dei casi un libro può lasciare due sensazioni; quella di essersi emozionati o quella di aver imparato qualcosa di nuovo. Tuttavia, una volta letto – magari senza staccarsi un attimo dalle pagine – riponiamo il libro in uno scaffale, quasi dimenticandocene.

Eppure l’apprendimento è insito in noi, pur senza renderci conto che quel libro è stato insegnante del tempo in cui ci ha tenuto compagnia, dandoci semplicemente un tassello in più.

Malala è consapevole di questo fin dalla più giovane età. Ha fame di cultura, sete di conoscenza, voglia di arricchirsi con i molti tasselli in più a disposizione. Si definisce “secchiona”, in un’accezione completamente diversa da quella della nostra realtà.

Si descrive così con una punta di orgoglio, considerando il suo universo interiore in espansione, considerando di voler migliorare sempre rispetto a ciò che già conosce.

Battersi per i nostri ideali, battersi per la cultura. Battersi per lasciare vita ai libri, alle penne, all’ascolto di coloro la cui fantasia fluttua più della nostra.

Ogni bambino ed ogni bambina al mondo devono poter avere il diritto di imparare. Ognuno di loro deve poter diventare, se lo desidera, insegnante delle sue stesse imprese.

Ogni singolo individuo, nel rispetto della sua dignità umana e del suo diritto di sognare e realizzare i propri sogni, deve saperli leggere e riprodurre. Deve poterli toccare con mano, magari proprio come quando sfoglia i pesanti libri nelle biblioteche. Pesanti solo a prenderli in mano, perché quando ti coinvolgono ti riescono a dotare di due ali per viaggiare ad un ritmo migliore degli altri.

Malala, l’adolescente già grande che sogna un mondo in cui i libri sono protagonisti di ogni attimo.

A colpi di penna, combatte questa donna.

A colpi di pagine e pagine in cui scrive se stessa porta avanti la sua battaglia.

Cambiare il mondo con il solo coraggio non è sufficiente.

Il vero segreto è avere il coraggio di imparare.

Leggere. Scrivere. Un po’ imparare, molto di più significano vivere.

Cecilia Coletta

L’invenzione della madre – Marco Peano

Il cancro. Questo sconosciuto che vorremmo rimanesse tale per tutta la nostra esistenza. Il cancro, non ho paura di chiamarlo col suo nome.

il cancro. Lo scrivo a chiare lettere. Lo leggo con gli occhi sbarrati, con occhi attenti e furiosi. Non sono più colmi di quelle lacrime che mi ha portato. Non sono più spaventati i miei occhi. Io so chi è, io conosco questo mostro.
Lo conosco da vicino, l’ho visto assalire la persona che amavo di più al mondo. L’ho visto invadere la mia vita. L’ho visto annientare. L’ho visto creare distruggendo. L’ho visto nascere per poi uccidere.

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Un ossimoro insopportabile quando cerca di accingersi alla vita, specialmente se si tratta di quella delle persone a cui vogliamo bene. Una battaglia. Una sfida che sembra già persa. Un mondo che sembra già crollato. Un gioco di carte piegate all’indietro. Un filo tagliato.

“L’invenzione della madre”, di Marco Peano è un romanzo che racconta come madre e figlio siano uniti per la vita; proprio per la vita intera, sì, e anche per quella destinata a finire in un tempo più breve della felicità stessa.
Malattia. Amore. Due parole contrastanti, due parole che si escludono a vicenda. Due parole che quando coesistono rendono l’essere umani una piaga indelebile.

Mattia ha ventisei anni ed una vita normale. Una famiglia, una fidanzata, un futuro da costruirsi tassello per tassello. Questo almeno finché al suo mosaico non viene tolto un pezzo, per la precisione quello che tiene in vita la madre, una donna che ha portato con sé il cancro per dieci anni, un’anima destinata a lasciare tutto ciò che ama e che odia. Una persona a cui non rimane grande possibilità di scelta, un essere a cui il destino non ha chiesto cosa volesse fare della sua esistenza. La vicinanza tra malattia e scadere inesorabile del tempo rende il rapporto tra madre e figlio ancora più intenso che nella vita quotidiana: una madre che non è più in grado di proteggere, un figlio che non riesce ad accettare un tragico destino.

Chi riesce ad accettare una definitività alla vita? Chi accetta un limite entro cui vivere chi ama?

Un libro che parla di amore spassionato ed appassionato al tempo stesso. Un libro che parla di un destino ineluttabile che ci piomba addosso e dell’enorme capacità che riusciamo a ricavare da noi stessi per affrontarlo. Un libro che è empatia e realtà al tempo stesso. Un libro che insegna a chi non sa cosa significhi e ricorda a chi ha già combattuto contro situazioni così familiari.
Capita raramente che ci si chieda se valga la pena continuare la propria esistenza allo stesso modo; ad un certo punto qualcosa scava dentro di noi arrivando di colpo. Ad un certo punto il battito del nostro cuore si ferma per poi accelerare senza smettere mai. Ad un certo punto la vita smette di lasciarci imparare autonomamente ed inizia ad insegnarci.
Non c’è prontezza, non c’è capacità di essere migliori degli altri, non si sa mai come essere giusti o sbagliati in questo destino che ci chiede sempre di più rispetto a ciò che pensavamo ci presentasse.
Chemioterapia, radioterapia, cure palliative, metastasi, male incurabile. Le parole di cui prima conoscevi un mero significante, iniziano a farsi strada nei più profondi significati. Cosa vuol dire resistere alla malattia? Conviverci, senza avere mai la percezione di esserne capaci.
Viverla, senza lasciare che ci abiti.

E’ quando il tempo manca che non avvertiamo più il terreno sotto ai nostri piedi. E’ quando l’attimo fugge velocemente che non riusciamo più ad afferrarlo. E’ quando la cima sembra troppo alta che vorremmo scalare come dei robot per raggiungerla. Vivere il distacco e aumentare la vicinanza. Soffrire senza che la persona amata se ne accorga e raccontarle che va tutto bene. Essere forte, nonostante vorresti soltanto piangere di rabbia. Sorriderle, perché vale di più la serenità che può rimanerle di un nostro solo attimo di sfogo.
Lo spegnimento di una vita può darti la sensazione che le luci non sono mai state accese; Marco Peano racconta di un protagonista terrorizzato dall’idea di scoprirsi come non si è mai visto, se dovesse perdere una parte di sé. Un ragazzo che lascia la voglia di vivere a sua giovinezza cercando di ricordare ogni cosa e di portarla con sé per quando non ci sarà più.
Sei consapevole del fatto che non sentirai più certi odori, quelli odori così familiari. Che non ascolterai ancora una volta quella voce. Che non potrai litigare con lei di nuovo. Che non potrai riabbracciarla appena torni a casa. Che non aspetterai un momento più opportuno di altri per dirle che le vuoi bene.
Un bene che ti sembra di non aver mai provato. Un bene che ti sembra non poter conservare più dentro di te.

E’ un romanzo di crescita interiore, un romanzo che parla di amore, quello vero e più puro, quello con la “A” maiuscola.
In un vortice di emozioni, non c’è spazio per la razionalità. In un vortice di paura non c’è spazio per aspettare che passi. In un concentrato di ricordi, cerchi di afferrare la vita che hai paura di dimenticare perdendone un pezzo fondamentale. L’invenzione della madre racconta di un cambiamento di posizione: è uno spostamento tra genitore e figlio, in cui le garanzie di sicurezza le assume il secondo, per la prima volta. Un romanzo che racconta coraggio, un romanzo che racconta forza estrema.

La forza che trovi dentro per affrontare te stesso e chi ami di più. La forza che non eri consapevole di avere. Stupendoti, crescerai, diventando conscio di non voler più fermare gli attimi per un’eternità, ma ringraziando l’enorme possibilità che quel destino tanto crudele – nonostante tutto – ti abbia dato l’occasione di vivere.

“La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno della salute e in quello della malattia. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”.

Susan Sontag

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]

“Salty girls”

Immaginiamo un famoso fotografo che lavora ad un progetto intitolato “Just Breathe: Fibrosi Cistica” ed immaginiamo che per farlo abbia a disposizione le modelle con cui lavora abitualmente: senza alcuna imperfezione e con poca coscienza di cosa dovrebbero rappresentare.

E’ questa l’attualissima vicenda di Ian Pettigrew, che ha deciso di scostarsi dalla consueta perfetta perfezione per realizzare una serie di foto di donne affette da fibrosi cistica, una malattia ereditaria definibile come un’anomalia nella secrezione del cloro.

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“Salty Girls”, letteralmente “ragazze salate”, il nome di questa vetrina di coraggio, forza ed umanità. Hanno posato più di sessanta donne in bikini o con mise molto eccentriche per gridare al mondo di non sentirsi diverse dalle altre e di voler essere considerate come tali.
Belle, naturali, spontanee: queste parole attraversano la mia mente mentre guardo i vari scatti. Non noto a prima vista le innumerevoli cicatrici che deturpano il loro corpo; mi colpiscono i loro sorrisi, le loro fossette sul viso, la spontaneità dei loro movimenti.

Condannate ad una vita che le mette alla prova ogni giorno, perché dovrebbero vivere la sequenza dei loro anni diversamente dagli altri?

“L’idea che esistano dei corpi di cui vergognarsi è ancora molto reale e diffusa”, afferma Ian Pettigrew all’Huff Post Usa. Troppo spesso queste donne sono vittime di discriminazioni, troppo poche le persone che al giorno d’oggi vogliono riuscire a combatterle. Il concetto di bellezza va oltre un fattore puramente estetico, va oltre la cornice e si coglie direttamente dentro al quadro stesso. E’ un concetto che in queste donne è imperante, dilagante oserei dire. E’ un’idea che urlano con le loro espressioni. E’ un messaggio che si legge chiaramente in ognuno degli scatti realizzati.
Ad ognuna di loro la malattia potrebbe essere al tempo stesso il più grande limite di vita e la maggior imperfezione: nascondere ciò che vedono diverso dalle altre donne potrebbe sembrare la soluzione più idonea. Eppure, grazie ad un coraggio da invidiare, mostrano i loro punti di debolezza, proprio perché consapevoli che in realtà sono soltanto simbolo di una forza estrema. Vivere esattamente come gli altri, non diventando schiave di un mondo costruito sulle diversità.

Sono figlie, sono sorelle, sono amiche, sono mogli, sono fidanzate, sono donne in carriera: sono esattamente tutto quello che sono le altre persone. No, anzi. Non soltanto. Sono assolutamente di più. Sono capaci di essere rappresentanti delle cicatrici che segnano i loro corpi, sono talmente determinate da sfidare una malattia di cui attualmente non esiste una via di guarigione definita. Combattono per ottenere una sperimentazione più avanzata, per loro stesse e per le altre donne. Combattono come tutte noi nei nostri ambiti e nelle sfide che ci poniamo.

Scatti che le raccontano, tuttavia non abbastanza: sono infatti destinati a diventare vere e proprie storie di vita raccontate in un libro. Non credo di poter comprendere fino in fondo quanto carattere ci voglia per affrontare ogni giorno, ogni momento, ogni secondo della loro quotidianità. So però per certo che non l’hanno privata di un altro genere di sale: quello della vita, quello del coraggio. Entusiasmante dev’essere prendere spunto da vite così, ammirarle fino a sostenerle. Imitare per quanto possibile la loro tenacia. Cogliere quella superiorità e quell’esperienza di vita che hanno, delineata in qualsiasi forma.

Non esistono difficoltà talmente grandi da non poter essere abbattute; ecco il concetto che rappresentano.

Volti ignoti che diventano noti anche al mondo che ignora una certa realtà.

Volti puliti che rendono un po’ meno forti le discriminazioni e un po’ meno sporca la spazzatura della rassegnazione. Volti di chi crede – ancora – in una prospettiva migliore.

Volti di reale bellezza. Volti di autentico coraggio.

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da google immagini]

Nella testa di una jihadista – Anna Erelle

“Fratelli del mondo intero, lancio la fatwa contro questo essere impuro che si è preso gioco dell’Onnipotente. Se la vedete, ovunque siate, rispettate le leggi islamiche e uccidetela. A condizione che la sua morte sia lenta e dolorosa. Chi si fa beffe dell’Islam ne pagherà le conseguenze col sangue. Essa è più impura di un cane, violentatela, lapidatela, finitela. Insciallah”.

Leggo la fatwa lanciata da Abu Bilel verso Anne Erelle nel luglio 2014 e sento pervadere il mio corpo da brividi di orrore e al tempo stesso da una repulsione che contengo a fatica.

Famosa giornalista d’inchiesta francese, Anne Erelle si è sempre definita interessata all’indagine sui comportamenti devianti; poco importava quale ne fosse l’origine, la sua ricerca è sempre andata ben oltre i fatti, cercando di cogliere i motivi per cui i destini di moltissime giovani fossero fatalmente caduti in trappola. E’ fenomeno estremamente attuale quello che vede protagoniste le adolescenti europee: vengono reclutate tramite internet per scappare dai loro paesi d’origine e dirigersi in Siria ed affrontare la guerra santa per lo Stato Islamico. E’ molto forte il proselitismo jihadista, non ha nulla a che fare coi metodi più vecchi: la “Jihad 2.0” è efficace, moderna, accattivante.

La vicenda riportata in “Nella testa di una jihadista” ha inizio nel marzo 2014. La giornalista d’inchiesta francese Anne Erelle, durante una delle sue indagini, entra in contatto attraverso un profilo fake in cui si fa chiamare Melanie con Abu Bilel, importante mujahiddin di origine europea. L’uomo si invaghisce della ragazza già dai primi scambi di messaggi, ritrovando in lei un bersaglio ideale per il reclutamento di giovani convertite, e in meno di ventiquattro ore le chiede già di incontrarsi su Skype, offrendole un matrimonio e un futuro in cui poter combattere per uccidere gli infedeli, per contribuire alla trasformazione dell’Islam in unico sovrano mondiale.

Un uomo che chiede a Melanie del profumo che porta e al tempo stesso esalta i suoi luoghi di battaglia in cui si vede ancora il sangue dei corpi uccisi.

E’ un lavoro duro quello di uccidere gli infedeli, mica sono in un villaggio turistico“: così afferma con fierezza, rimarcando tratti di fanatismo che non rendono giustizia all’umanità, che offendono il concetto stesso di vita per qualsiasi religione o culto che meriti di chiamarsi tale.

Dopo settimane di chat, Anne Erelle e la sua sete di indagine la portano ad accettare la proposta di matrimonio di Abu Libel e a dirigersi in Siria: al confine viene però scoperta e costretta a tornare immediatamente in Francia. Su di lei viene lanciata la fatwa mortale, un esito che la porta ad essere costretta a vivere sotto copertura e falso nome, nascosta per sopravvivere.

E’ una storia di coraggio ed indagine, è un diario di lotta e determinazione. Una donna che lotta per comprendere un fenomeno che è ancora troppo distante dalle nostre concezioni, pur avvicinandosi a noi sempre più pericolosamente. Cosa affascina le giovani donne che lasciano famiglie, parenti e amici per una vita ad estremo contatto con la violenza in cui alternano continuamente gli status di vittime sottomesse e carnefici spietati?

E’ un meccanismo complicato ed avvincente quello degli jihadisti, che considerano più facile conquistare l’Occidente avvicinandosi alle donne, perché il sesso più debole ed influenzabile.

“Voi donne europee siete maltrattate e considerate oggetti. Gli uomini vi esibiscono al loro fianco come un trofeo. E’ necessario che l’IS raggiunga il maggior numero di persone, ma prima di tutto quelle più maltrattate, come le donne”.

Abu Libel offre a Melanie la salvezza, sembra volerla portare via da un mondo che non la considera abbastanza. Abbastanza importante. Abbastanza persona. Abbastanza donna. Le prospetta importanza, ma al tempo stesso il suo tono non è soltanto autorevole, ma piuttosto autoritario. Un’autorità che non lascia dubbi sulla differenza tra oggettività o soggettività di una donna. Un’autorità che affascina troppe donne indifese, perché alla ricerca di considerazione. Un’autorità che preoccupa le donne che lottano ogni giorno per essere considerati tali. Un’autorità sfrontata, che non conosce limiti e riserve.

L’esperienza di Anne Erelle è quella di una donna che lotta per le donne. E’ quella di una passione talmente forte da mettere a rischio la propria vita. E’ quella di chi ha talmente tanto coraggio da poter rinunciare alle paure più comuni e giustificate. Un diario d’inchiesta da leggere d’un fiato per aprire gli occhi su una realtà terribilmente in prospettiva e – ancor prima di tutto – per raccontare una storia di coraggio.

“La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio: la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve”. Oriana Fallaci

Cecilia Coletta

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Maria Callas: soprano drammatico d’agilità

 

 “Vissi d’arte, vissi d’amore”. (1)

L’aria di Tosca che Maria Callas prediligeva fra tutte quelle cantate.

Artista e Donna, emotività e genio: un chiasmo che la disegna completamente. Sarebbe difficile raccontarla attraverso una storia scritta e riscritta mille volte, ancor più difficile darle un ruolo nella vita o una definizione. Nel panorama della lirica c’è un prima e un dopo Callas (2) ; nella storia del ‘900 c’è soltanto la Divina.

Maria Callas non si esibiva soltanto per il mondo intero, semplicemente donava tutta se stessa. Tanto costante e determinata nella sua passione, quanto poco dominatrice delle sue emozioni: quanto una Donna è tale più che nel momento in cui dona la sua stessa essenza? Nessun soprano è mai più riuscita ad eguagliarla, nessun altro ha reso le arie della lirica alla portata delle persone quanto abbia fatto lei. Nel mondo di oggi il melodramma è poco conosciuto e andare all’opera è concepito come un’occasione per annoiarsi.

Come riuscì Lei a portare stralci di lirica anche in coloro che non ne conoscevano assolutamente nulla?

La parola chiave non è altro che emozione. E’ l’umanità che emoziona. E’ la femminilità che affascina. E’ il fatto che fosse capace di portare ciò che aveva dentro in tutta la sua voce. Le gioie si espandevano in perfetti acuti. I dolori non le lasciavano tregua nelle scene più tristi. Non era soltanto Tosca a perdere Cavaradossi, era Maria Callas a perdere di nuovo l’amore: probabilmente in quell’attimo davanti a lei si proiettavano le notti insonni, le ferite mai rimarginate, il respiro che manca quando non ti senti amata. Perché non si amò mai, la Divina, prima ancora di non sentirsi mai amata completamente.

Un’infanzia da enfant prodige ed una madre che esibisce più che crescere: non c’era spazio per la piccola Maria, ma solo per quella voce che faceva fermare gli automobilisti che la udivano riecheggiare per le strade.   Togliere ad un bambino la spensieratezza significa privarlo di un lato che si ritroverà a rincorrere per tutta la vita. E lei era cresciuta in fretta, forse troppo. Tecnica, esibizioni, ore ed ore senza mai tregua. Determinazione e perseveranza, ma anche rassegnazione e incapacità di volare. Diventò grande senza essere capace di piacersi, diventò una ragazza che nel suo aspetto riversava il suo dolore.

Maria Callas era dotata non soltanto di un’unica, ma piuttosto di tre voci, grazie alla sua estensione vocale. Veniva definita “soprano drammatico d’agilità”; un’espressione coniata appositamente per Lei nel 1949, quando interpretò Brunilde ne “La Valchiria” ed Elvira ne “I Puritani”, ruoli tanto difficili quanto distanti. (3) (4) Unire nella propria voce pienezza, coloritura e durata nel timbro grave a flessibilità ed estensione nel registro acuto sono doti uniche, appartenenti ad una professionalità mossa da una predisposizione innata. E allo stesso modo si potrebbe definire la sensazione che si poteva provare ascoltandola: una sensazione mai provata, nasceva dentro per non morire mai. Gli anni dal ’52 al ’54 furono gli anni della consacrazione; anni in cui interpretò ben sette opere, anni in cui perse addirittura ventotto chili.

Da goffa ragazza ad icona di eleganza: eppure, l’unica cosa veramente potente dentro di sé, rimaneva la sua inimitabile voce.

La continua crescita professionale, infatti, si poneva in contrasto con la mancanza di soddisfazione nella sfera affettiva. Donna prima ancora di diventare Diva, Maria Callas conobbe l’amore sotto ogni sua sfaccettatura. Quello rassicurante di Meneghini, grazie a cui ebbe la chiave per credere nelle sue capacità di artista. Quello folle per Aristotele Onassis, che fu l’unico uomo a scombinarle l’esistenza. L’unico che riuscì a raffigurarle un mondo migliore, il solo che riuscì a capire che quella donna non era la Callas, ma prima di tutto qualcuno che aveva bisogno di vivere la spensieratezza dell’infanzia, qualcuno che avrebbe sempre faticato a guardarsi dentro, non ritenendosi mai abbastanza per se stessa. Incredibile ciò che si può provare quando due persone si guardano e si completano: un uomo che era stato tanto capace di farla felice quanto capace di ucciderla. Non tanto metaforicamente parlando, perché Maria Callas subiva i continui tradimenti di Onassis lungo ognuna delle sue vertebre, lungo ogni viscera, per la precisione. Le performance poco soddisfacenti si alternavano a momenti in cui riusciva a riemergere dal suo dolore: era se stessa anche sul suo amato palco.

Attrice dei suoi stessi drammi prima di quelli che interpretava. Se la vita l’aveva sempre guardata e messa a dura prova, lei l’aveva sempre affrontata non senza lasciarsi sopraffare dalle debolezze. “Troppo fiera, troppo fragile” (5): così era solita definirsi. Quando l’artista incontra la donna ne ricava enormi successi e al tempo stesso cedimenti: l’essenza di una Grande rimane un’eterna dicotomia tra lato vincente e sfumatura di debole profondità.

Tutte noi non siamo immuni dagli ostacoli nel nostro percorso; la vera differenza risiede in coloro che riescono a comunicare loro stesse anche nelle loro piccole e grandi disfatte.

Si spense nel 1977 Maria Callas, e con lei si spense il soprano più grande di sempre. Si spense la Sua voce e con quella l’immensità che soltanto Lei fu capace di regalare.

“Era nata per cantare e per stare sulla scena. La sua musica e la sua voce entravano dentro il cuore, lei produceva melodia. Aveva dentro di sé, dentro la sua voce, la vita”. (6)

 

Note:

1. Tosca, melodramma di Puccini; libretto di Illica e Giocosa.

2. Franco Zeffirelli.

3. Dramma appartenente ai quattro drammi appartenenti alla Tetralogia de l’Anello del Nibelungo, di Richard Wagner.

4. Opera seria di Vincenzo Bellini su libretto di Carlo Pepoli.

5. Frase riportata dal giornalista Alfonso Signorini.

6. Franco Corelli.

Momenti di trascurabile felicità – Francesco Piccolo

Quanti istanti nel corso della nostra vita meritano di essere ricordati per la felicità con cui li abbiamo vissuti?

Pochi, penserete voi. Pochi, penserebbe chiunque in realtà. Esistono per brevi frazioni di tempo, contrapposti a quelli di enorme dolore. Sono quelli in cui ti dimentichi di tutto ciò che non funziona, in cui riesci perfino a dimenticare di esistere forse, in cui per un attimo smetti di sopravvivere.

E vivi. Irrimediabilmente, forse. Sconsideratamente, magari.

Ma tra i momenti di palpabile felicità e di lacerante dolore, ci sono dei momenti differenti. Quelli in cui ognuno di noi si ritrova nella quotidianità senza nemmeno farci caso. Quelli che si mimetizzano perfettamente nella sequenza delle nostre ore ordinarie. Sono nascosti, non capita spesso di notare che esistano.

Sono “Momenti di trascurabile felicità”, come li definisce Francesco Piccolo nel titolo della sua breve ed intensa introspezione del nostro essere. Proprio perché noi siamo continuamente, in una sequenza sospesa tra rimanere e divenire. Perché ci sono quelle sensazioni che – almeno una volta nella vita – abbiamo provato tutti. Ci sono quelle situazioni, ricorrenti e non, in cui non consideriamo il fatto che si possa realmente toccare con mano la felicità.

Tutte le persone che non sono belle, o che sono brutte, poi quando le conosci diventano più belle, sempre.

Gli sms dopo le undici di sera che dicono: «dove sei?», che significano molto di più di quello che dicono.

 La prima e l’ultima pagina di un libro.

 Le coppie che stanno insieme da tanto tempo e che giocano a carte in silenzio, la sera.

 Quando mi rendo conto che tra due persone c’è un amore segreto. Me ne accorgo quasi sempre, subito, da un gesto o uno sguardo. E mi piace, mi fa sentire complice.

 Le grandi librerie, perché puoi girare, toccare, sfogliare, senza nessuno che ti voglia dare un consiglio.

 L’odore di pane del primo mattino.

 Un litigio furioso per una questione di principio.

 Tutti i sogni di una notte, gli ultimi giorni da sindaco del sindaco, tutte le feste a sorpresa, e il rumore della carta da regalo quando viene scartata.

 Il fatto che nessuna donna al mondo riesca a ottenere dal parrucchiere la pettinatura che desiderava. 

 Tutte le donne nel gesto di legarsi i capelli.

Nessuno se ne rende mai conto, di questi stralci di vita: io non faccio mai caso a quando individuo al supermercato la fila che scorre più velocemente. Quell’attimo in cui ho la percezione di aver compiuto un’impresa eroica, pur essendo una cosa apparentemente da nulla. E la sensazione che provate quando qualcuno che vi ha superato in fila alle poste ha sbagliato sportello in cui andare? Quella piacevole sensazione di rivalsa impagabile, quasi più irruenta del bere un mojito ghiacciato su una spiaggia della Polinesia.

Eludere un divieto e non essere colti in flagrante; aspettare che lui o lei si faccia sentire perché in fondo noi l’abbiamo già fatto troppe volte. Un vissuto che si ripete, esattamente come un vissuto che può ancora sorprenderci. Stralci di pensieri quelli di Francesco Piccolo. Stralci che ci rendono tutti comuni nei gesti e al tempo stesso differenti nelle sensazioni.

Non amiamo mai abbastanza momenti apparentemente insignificanti, non amiamo mai abbastanza la possibilità di viverli. Ci concentriamo sulle piccole e grandi cose che non vanno, non considerando quegli impercettibili e minuscoli momenti di immediata spensieratezza.

Quante cose ci sfuggono di mano prima di toccarle con coscienza? Quanta vita perdiamo senza emozionarci? Ammiro chi sorride anche senza alcun apparente motivo. Ammiro chi afferra la vita a piene mani, ammiro chi si mette in gioco nonostante le difficoltà. Perché la vita viene concessa un volta soltanto, perché attimi importanti e insignificanti ci sopraggiungono soltanto una volta. Non perdersi nessun momento di trascurabile felicità, questo ci insegna questo breve libro di Francesco Piccolo.

Da tenere sul comodino, come per tenere a portata di mano la vita di tutti i giorni e quella di un minuto soltanto. Da tenere in tasca per trovare il coraggio di affrontare tutto ciò che ci pervade.

In un attimo si può trovare la felicità, tanto quanto in un momento più lungo. E’ sufficiente non dimenticarlo, perché significherebbe smettere di credere che valga sempre la pena di vivere la vita.

Cecilia Coletta

[immagini tratte da Google immagini]

Oriana Fallaci: Prima di tutto Scrittore

Ogni persona libera, ogni giornalista libero, deve essere pronto a riconoscere la verità ovunque essa sia. E se non lo fa è, nell’ordine: un imbecille, un disonesto, un fanatico. Il fanatismo è il primo nemico della libertà di pensiero. E a questo credo io mi piegherò sempre, per questo credo io pagherò sempre: ignorando orgogliosamente chi non capisce o chi per i suoi interessi e le sue ideologie finge di non capire. 

(dalla lettera agli studenti della scuola Rosselli di Marina di Carrara)

Chi era Oriana Fallaci? Chi era la donna che ha cambiato il significato e l’essenza stessa della parola Donna?

Oriana Fallaci lascia la Facoltà di Medicina dopo averla frequentata per poco tempo, non per mancanza di tenacia, ma per la più grande predisposizione naturale che sente dentro di sé: la passione che la porta a scrivere. Quella stessa che la porta a ricercare, capire, voler comprendere le vicende che la circondano. La scrittura invade le sue giornate, le sue notti passate a cercare di rifiutare il sonno tra una sigaretta e l’altra. Non smette mai di scrivere affermando le sue opinioni, difficili da comprendere per chi è diplomatico per natura.
Oriana delinea un’enorme se stessa nei suoi pregi e nei suoi – se così si possono chiamare – difetti. Di un personaggio che ha cambiato le concezioni storico-sociali del ‘900, per potervi partecipare fino in fondo non soltanto da spettatore, ma soprattutto da protagonista.

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Nulla la disegna meglio di quello che ci hanno lasciato le sue mani unite all’affezionata Olivetti. Sì, anche in questo è grande: scrive sentendo il suono dei tasti sotto le sue dita, facendosi chiamare “scrittore” anziché scrittrice.
E’ l’affermazione della sua passione che sembra venire prima di se stessa che la rende unica; lei che arriva a pesare trentasette chili pur di dividersi tra gli studi universitari e il continuare a mettere giù le parole nel modo più autentico possibile. Solo la passione ci rende autentici, perché ci porta a diventare quello che vorremmo fermamente.
E lei nello scrivere era capace di delineare se stessa, proprio come nelle sue interviste è sempre riuscita a delineare i suoi interlocutori.

– È strano, signora Magnani: lei ha un carattere così virile, dice sempre di stimare più gli uomini che le donne, «perché io accetti una donna bisogna che essa abbia una dignità e un carattere quasi maschile», e poi parla come se avesse degli uomini una considerazione minuscola – 

– Guardi, non ne ho nessuna. Il fatto è che le donne come me si attaccano solo agli uomini con una personalità superiore alla loro: ed io non ho mai trovato un uomo con una personalità capace di minimizzare la mia. Le donne come me subiscono solo gli uomini capaci di dominarle: ed io non ho mai trovato nessuno che fosse capace di dominarmi. Ho trovato sempre uomini, come definirli? Carucci. Dio, si piange anche per quelli carucci, intendiamoci, ma son lacrime da mezza lira – 

Se mi chiedessero quanto sarei stata disposta ad offrire per partecipare a quest’intervista, avrei risposto semplicemente “una cifra che non saprei quantificare”.
Oriana Fallaci esprime un’estrema grandezza nel tracciare esattamente il profilo dell’intervistato, chiunque sia; non solo nel ricercarne i caratteri, quanto piuttosto nel riuscire a delinearlo come se lo conoscesse da tempo e non soltanto da cinque minuti. Mi riferisco ad Oriana Fallaci che lascia parlare Anna Magnani da donna a donna, mi riferisco a due personaggi che non hanno mai avuto bisogno di affermarsi attraverso le parole, perché erano in grado di esprimersi anche soltanto tramite il loro modo di essere. Parlo di autenticità mischiata all’ironia, per descriverle fino in fondo.

Troppe volte di un grande personaggio si estremizzano i lineamenti più ostici: emerge ciò che non è, una natura che non corrisponde completamente al vero. Forse perché quello che trasmette un grande personaggio è puramente soggettivo, forse perché ognuno di noi riesce a coglierne tratti estremamente diversi. Nella fiction in due puntate andata in onda su Raiuno diretto da Marco Turco, vediamo una Fallaci costantemente arrabbiata, invasa continuamente da impeti di rabbia, più che dalla sua tenacia.
Leggere Un uomo, piuttosto che Lettera ad un bambino mai nato significherebbe discostarsi completamente da quella visione: leggendo soltanto due dei suoi libri risulta chiaro come una donna forte sia anche capace di amare tanto se stessa quanto un’altra persona. Quanto una donna indipendente sia in grado di provare il desiderio di maternità, il desiderio di diventare madre, un desiderio che è insito nella natura femminile stessa.

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne.

E’ sufficiente la dedica iniziale per capire il livello di comunicazione ed empatia che unisce Oriana ad ognuna di noi: la comune essenza di essere donna, con tutto quello che ne comporta. Quante e quali domande si pone una donna che porta in grembo un figlio?
Troppe. Una donna lo sa quanto sarà difficile il mondo di oggi, quanto sarà difficile crescere una creatura che non ha colpe per tutto quello che dovrà affrontare. E’ conscia del fatto che non esiste una manuale di istruzioni con cui ci sarà un modo giusto di indicare una strada piuttosto che un’altra; sente il figlio come se stessa, per quanto non si veda mai abbastanza preparata.

Perfino lei, che preparata lo era sempre. Lei, che alla vita non ha mai detto no – fino alla sua estrema essenza – nella sua determinante battaglia contro l’Alieno.
Lei che aveva visto la Guerra del Vietnam, perché l’aveva vissuta. Lei che aveva visto la città di Beirut devastata e assediata, in cui la morte si riversava in ogni sua forma.
Oriana che era capace di non vedere soltanto le bombe, ma prima di tutto le persone, cogliendo le espressioni di chi ogni giorno temeva di non arrivare all’ora successiva, non sapendo se avrebbe abbracciato ancora una volta i suoi cari, la sua terra, la sua vecchia e rassicurante vita. In una delle sue interviste le era stato chiesto se avesse paura della guerra, essendo stata la più grande inviata di quegli scempi nel ‘900 .

Chi dice di non avere paura della guerra è un cretino o un bugiardo.

Così risponde, soffermandosi poi sul fatto che l’unica possibilità per affrontare la paura che si ha per la guerra è superarla. Limite e possibilità, oserei dire.
Nonostante dopo la pubblicazione di Insciallah del 1990 avesse scelto di trasferirsi definitivamente a Manhattan, estremamente tenace nella sua guerra personale contro quella malattia che ogni giorno la consumava e rendeva un po’ più forte al tempo spesso, il suo spirito indomabile non le permise di rimanere indifferente all’attentato dell’11 settembre 2001.
Dapprima in un lungo articolo apparso sul Corriere della Sera il 29 settembre 2011, poi ne La rabbia e l’orgoglio – che era solita chiamare un “piccolo libro” – Oriana affrontava la tematica del fondamentalismo religioso: un argomento in cui riusciva ad essere completamente se stessa, senza cadere in ciò che avrebbe dovuto essere politicamente corretto. Un argomento particolarmente scomodo che si preferiva non affrontare, ma che lei si sentì di esprimere – come sempre – a modo suo.
Autenticamente suo.

Il puzzo della morte entrava dalle finestre, dalle strade deserte giungeva il suono ossessivo delle ambulanze.

Proprio lei che sentiva ogni giorno la morte sempre più vicina, odiava sentire quella delle persone. Odiava coglierla nell’aria, odiava coglierla nel fanatismo, odiava respirarla. Aveva sempre cercato di raccontarla, come aveva sempre cercato di esprimere ogni cosa di se stessa. Ogni pensiero o emozione, per quanto fossero estremi e poco condivisibili, erano il lato di chi ama vivere appieno la vita, di chi non è mai stato peccatore di aver trascorso un solo minuto a sopravvivere.

Apro la mia boccaccia. […] E dico quello che mi pare.

Ecco ciò che dice di sé nella sua ultima intervista concessa al New Yorker Oriana Fallaci. Lei che, fino alla fine, ha sempre cercato di fare quello che voleva. Lei che voleva morire nella sua Firenze, pur avendo amato e vissuto come cittadina del mondo.

Sulla sua lapide, soltanto tre parole: Oriana Fallaci. Scrittore.

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]

C’era una volta l’Amore

Ogni donna ha un segreto, ha un amore sciupato che affiora e divora il suo cuore malato. E’ sincero il segreto, è quella musica dolce che in passato l’ha fatta sognare e adesso non serve ad un bel niente. E se c’era una volta l’amore, ho dovuto ammazzarlo. Cesare Cremonini

Ogni donna, ogni uomo, ogni persona, vive l’amore ogni giorno. Non importa che sia San Valentino, Natale o il proprio compleanno. Tante cose – forse a volte troppe – nella vita, parlano d’amore.

Camminava a passo sostenuto, camminava senza contare i suoi respiri, camminava pensando a troppe cose, o – per meglio dire – cercando di non pensare a qualcosa in particolare. A qualcosa non era proprio la specificazione esatta, perché era qualcuno che cercava di non pensare, quel qualcuno che l’aveva ferita.
Era passato ormai qualche mese, e lei camminava per le strade di una grande città nel giorno di San Valentino. Aveva sempre detto “E’ un giorno come un altro”: in quei tre anni passati con lui non c’era stato bisogno di nessun giorno speciale, perché lo erano tutti. Era speciale guardarsi, trovarsi a dire le stesse cose inaspettatamente, pensare all’unisono, decidere insieme senza concordarlo. E poi c’erano quei giorni passati interamente a fare l’amore, quei giorni in cui avevano trovato il primo treno utile per partire verso una meta decisa all’ultimo. Quei giorni in cui avevano litigato fino a diventare assuefatti dall’odio. Quei giorni in cui un ultimo bacio pensavano che non ci sarebbe mai stato. Quei giorni in cui si ritrovavano a ridere, ridere e ancora ridere insieme. Quelle sere in cui avevano bevuto talmente tanto da non ricordarsi nemmeno dove avevano lasciato le paure. Quei giorni in cui non c’era stato bisogno di parlare, perché c’erano state soltanto lacrime. Lacrime che prontamente erano state spazzate via dai chiarimenti, dal volerci credere ancora, dal volersi vivere ancora. Perché lei aveva sempre creduto in quell’ancora. Aveva sempre creduto che avrebbero potuto affrontare qualsiasi battaglia, e anche qualunque guerra.
Eppure, da qualche mese, non avevano vinto. Avevano perso tutto. Si erano persi loro. Non sarebbe stata in grado di dire se ci fosse stato un giorno esatto in cui avevano smesso di capirsi e brillare insieme. Non se n’era accorta, non aveva fatto caso al loro spegnersi lento. Pur amandolo, non si era accorta di non essere più amata. Non si era data il tempo di capire se la vita da sola potesse fare per lei, non si era data attenuanti al dolore, non si era concessa respiri che fossero dedicati soltanto a se stessa.

E dopo quei mesi, passati a cercare il modo di ricostruirsi, pezzo dopo pezzo, si ritrovava a camminare per le strade di una delle loro tante città, il giorno di San Valentino. Le sembrava tutto amplificato ora; non aveva mai fatto caso a quanti palloncini rossi e rosa tappezzassero le strade. Non aveva mai fatto caso a quanti baci vengano dati il giorno di San Valentino, non aveva mai guardato gli occhi delle persone. Gli occhi che ora sembravano brillare.

Si accorse che anche i suoi brillavano, luccicavano, si riempivano di lacrime. Due lacrime rigavano le sue guance. Due lacrime colme di rimmel, sporche di dolore, malate d’amore. Si fermò per un attimo. Fermò la sua corsa contro il dolore, fermò i suoi passi veloci. Si fermò, fermò il suo cuore distrutto. E, per la prima volta da quando si erano lasciati, pianse. Pianse a dirotto. Pianse in mezzo ad una strada di una grande città. Pianse senza avere più lacrime. Pianse senza saper più contare i respiri. Pianse. Pianse. E ancora pianse.
Pensò a quel giorno in cui lui l’aveva lasciata, quel giorno in cui lei gli aveva detto soltanto che non era poi un grande problema, perché sarebbe riuscita benissimo a cavarsela da sola. Quel giorno che aveva fermato lacrime, vita e dolore. Quel giorno che aveva voluto evitare tutto questo. Quel giorno in cui le sue labbra si erano limitate a chiudersi in un sorriso di convenienza. Quel giorno in cui sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto.

Quel giorno che – ormai – era così lontano. Quel giorno in cui le lacrime non erano uscite perché avevano aspettato il momento giusto. Il momento in cui l’amore si era trasformato in dolore. Il momento in cui aveva lasciato che il dolore la prendesse del tutto. Il momento in cui tutto il male era pronto a diventare bene. 

Quel San Valentino a cui non aveva mai pensato, era diventato il primo giorno in cui le era rinato il coraggio di amarsi. Amarsi e A(r)marsi. Smettere di sopravvivere e ricominciare a vivere. Quando il dolore lascia il posto alla vita, quello era stato il suo momento. Capendo che amare se stessa sarebbe sempre stato qualcosa su cui contare, capendo che l’amor proprio genera anche quello che ti regalano gli altri.

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Se c’era una volta l’amore – nel mondo di oggi – ogni persona almeno in un’occasione, ha cercato di ammazzarlo. Gli ha dato calci, pugni e schiaffi finché non l’ha rincontrato.
L’unico amore che rimane sempre, è quello per ciò che ci fa sentire vivi. Noi stessi. Noi con le nostre passioni e i nostri sogni da realizzare. Noi con i nostri difetti e i nostri momenti no. Noi con le nostre paure e troppi dubbi. Noi col nostro impegno e la nostra determinazione. Noi che prima di guardare indietro, dobbiamo guardare avanti. Noi che prima di guardarci dentro, dobbiamo guardare quello che vogliamo raggiungere. Noi che prima di dire “E’ impossibile”, dobbiamo essere in grado di provare cosa significhi.

Esattamente undici anni fa, circa a quest’ora, ho avuto un incidente in cui ho rischiato la vita. Non so per quale strano caso, da quel giorno credo all’impossibile. Credo alla vita un minuto alla volta. Credo perfino all’amore, nonostante io abbia dovuto ammazzarlo più di qualche volta.

Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che dura una vita. Oscar Wilde

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]