Dal caos all’ispirazione

In un attimo tutto ci appare più chiaro: ecco l’idea, ecco la svolta. È fulminea, istantanea e illumina la nostra mente. L’ispirazione1 è il tema di questo promemoria filosofico.
Che cosa sia l’ispirazione è un mistero, ma quando giunge la strada è spianata e la creatività si accende. È la spinta, l’intuizione che permette di dare vita, di creare qualcosa di straordinario. Si può parlare di intuizione ma che coinvolge mente, cuore e anima.

Etimologicamente il termine deriva dal tardo latino inspiratio – onis, che indica il respirare in alto. Tale significato simbolicamente si ricollega al respiro del divino creatore.
Nell’antichità si credeva che le divinità concedessero l’ispirazione alle Muse, guidate da Apollo, per rivelare loro profezie sul futuro, e agli artisti. In particolare l’ispirazione è stato un punto focale nell’arte e nella letteratura da sempre: l’uomo in un momento fugace viene in contatto con i pensieri divini al di fuori della sua mente, per poi discendere nella sua natura terrena e realizzare l’opera ispirata. Quel salto ultraterreno permette di accedere alla verità che gli viene rivelata per un brevissimo istante.
Sebbene oggi in psicologia si possa definire come un’alterazione mentale, un processo interamente interno della psiche, nei secoli sono state diverse le interpretazioni del fenomeno.

L’ispirazione è la base del pensiero romantico: il fuoco dell’ispirazione proveniva dal genio, il dio interiore del poeta che si faceva strada attraverso l’uomo per manifestarmi. Molto simile a quella della grecità antica, questa forza irrazionale è capace di oltrepassare la volontà dell’uomo e imporsi su di egli: sono molti gli scrittori come Samuel Taylor Coleridge e più avanti William Butler Yeats che raccontano del potere dell’ispirazione e il fluire ininterrotto delle parole, come si trattasse di un atto automatico.

Freud colloca l’ispirazione direttamente nel subconscio dell’artista, quale momento in cui i conflitti psichici irrisolti dell’infanzia ritornavano a galla per poterli poi risolvere.
Diversamente dal maestro, Jung vede nell’ispirazione artistica la traccia della memoria razziale propria del corredo genetico: solo l’artista sente con maggior forza il conflitto tra l’anima primitiva e l’ego civilizzato e sociale e attraverso l’arte può realizzarlo in concreto.

L’ispirazione non lascia alcun dubbio in ogni caso, toccati dalla sua verità ci permette di cogliere quell’idea che era per noi irraggiungibile e celata. L’ultima parola allora ora tocca a noi: tu cosa e come realizzerai grazie a questa scintilla divina?

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto
NOTE
1. Concetti tratti da N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia, vol. 1-2-3, Edizione Paravia

 

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I cipressi di Van Gogh

«I cipressi sono sempre nei miei pensieri, vorrei farne una tela come i quadri di girasoli e mi stupisce che nessuno li abbia ancora fatti come io li vedo. Sono belli come linee e proporzioni e somigliano a un obelisco egiziano. E il verde è così particolare»1.

Queste le parole di Van Gogh in una lettera ad un amico a Saint-Rémy che parlano dei cipressi. Forse sarà un po’ strano ma proprio di quest’albero che lo ha ispirato più volte si parlerà in questo promemoria filosofico.
Un albero che si trova tra terra e cielo che per il pittore olandese rappresenta «la macchia nera in un paesaggio assolato, ma è anche una delle note nere più interessanti fra le più difficili da indovinare tra tutte quelle che si possano immaginare»2.
Le intense e pastose pennellate di Van Gogh possono narrare al meglio la storia di questi alberi così nobili mostrando l’inquietudine di un’anima sulla tela, scelti non a caso per il loro valore simbolico.

Nell’antichità erano simbolo del dio Crono, un inno alla vecchiaia. Se nel paganesimo indicavano la longevità, nel cristianesimo hanno assunto un significato legato alla fede, in veste di speranza nell’aldilà. Tutt’oggi nella maggior parte dei casi ci possiamo imbattere in una fila di cipressi che circondano le porte e le mura dei cimiteri. Questi alberi longilinei si spingono dove l’uomo non può andare: verso i cancelli del cielo, a un passo tra l’uomo e il divino, per metterli in contatto tra loro. Sono i guardiani che vegliano la morte.

Anche nella mitologia il cipresso è simbolo di nobiltà. Il mito narra di un giovane principe di eccezionale bellezza caro ad Apollo, di nome Ciparisso, al quale il dio aveva dato in custodia un cervo sacro dalle corna d’oro. Il giovane aveva gran cura del cervo e lo amava come se fosse domestico: gli aveva adornato il collo con un collare di pietre preziose e fibbie d’argento. Un giorno però il ragazzo, durante un pomeriggio di sole, aveva lasciato libero l’animale di brucare l’erba nel bosco e aveva deciso di andare a caccia con il suo arco addentrandosi tra gli alberi.
Rincorse una volpe nella folta vegetazione, scagliò una freccia e fu in quell’istante che il caso gli tirò un brutto scherzo: Ciparisso colpì proprio il suo cervo. Sconvolto dal dolore il principe raccontò il fatto ad Apollo, chiedendo al dio di trasformarlo in un essere immortale per piangere in eterno il suo caro amico.
Così Apollo toccato da tanta devozione, accettò di esaudire la sua richiesta e mise la mano sulla fronte del principe e lo avvolse nel suo mantello verde. Fu in quel momento allora che Ciparisso guardò il cielo, le sue lacrime divennero piccole foglie verdi scure, i suoi piedi si indurirono nella terra e si trasformò per sempre in un cipresso.

Ciparisso diventò allora l’albero che conosciamo, che ancora dalle sue fronde si spinge verso l’alto, come a cercare quell’amore perduto nel mondo dei vivi. Trova forse un senso infine, dopo aver ascoltato questa storia, quella tensione e quella sensazione di mancanza, o quel senso di tristezza pacata ma serena che il cipresso può dare. Magari la prossima volta che vedrete un cipresso, fateci caso, l’anima ora in pace di Ciparisso vive ancora in lui.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE
1.Cit. tratta dalla lettera 626a di Vincent Willem Van Gogh, Saint-Rémy, febbraio 1890, tratta da “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore
2. Cit. tratta dalla lettera 626a di Vincent Willem Van Gogh

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il pendolo di Schopenhauer: l’attesa

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«La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia»1.

Arthur Schopenhauer ritiene che sia un pendolo a giostrare la nostra vita e l’attesa dell’oscillazione che ne scandisce il tempo è ciò che ci è concesso per sperare. Di questo tempo nel mezzo, dell’attesa che impregna ogni attimo parlerà questo promemoria filosofico.

Siamo indiscutibilmente proiettati verso il futuro. Siamo in perenne attesa che qualcosa accada per andare avanti e magari qualcosa possa migliorare.

Aspettiamo una svolta per l’Italia, una politica più trasparente e che si rivolga in primis sempre al bene dei suoi cittadini, ma intanto con il sarcasmo di Crozza ci consoliamo e ridiamo della sua corruzione. Ci crogioliamo nel tempo in attesa di una democrazia più vera e concreta, se mai sarà possibile.

C’è chi aspetta una casa dopo che il terremoto gli ha rubato la sua. Le macerie che sono rimaste non sono solo che briciole di quel tetto pieno di ricordi che era una volta. E il freddo e il gelo che non dà tregua in quelle zone non fa che peggiorare la situazione e sperare però che torni il prima possibile il sole o uno squarcio di primavera. Si attendono aiuti e volontari perché possa tornare un po’ di normalità dopo tante scosse che non hanno travolto solo la terra.

Si attende una proposta di lavoro, o almeno si cerca un posto. La disoccupazione è solo uno stato di passaggio dal non fare al fare che non dovrebbe farsi attendere troppo. Se sei giovane c’è chi dice che di tempo ce n’è sempre e bisogna fare esperienza per trovare un lavoro stabile, ma non si vive di sole esperienze se manca il sostegno economico dietro a queste. La voglia di imparare e l’impegno dovrebbero essere ripagate come giusto meritano e non essere sottopagate o peggio, sfruttate.

Se sei una mamma o un papà anche tu hai aspettato con pazienza per nove mesi qualcosa di meraviglioso, che poi è arrivato e ti ha sconvolto la vita. Meritava, non è vero?

L’importante è il viaggio e non la meta, qualcuno diceva, e aveva ragione: siamo bloccati nel tempo che passa, un attimo prima era ora, e qualche secondo dopo è passato. L’unico modo per sopravvivere a questo è lasciare che gli eventi ci attraversino, rimanendo però saldi e presenti per viverli.

In fondo è una vita che aspettiamo qualcosa e la risposta forse è molto semplice: speriamo sempre in un futuro che sia migliore.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1.Aforisma tratto dall’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” 

[Immagine tratta dall’opera L’attesa di Baron Daniele (Google immagini)]

Ti dono le cose che non ho mai detto

Quei momenti in cui avresti voluto dire tante cose ma non l’hai fatto, pensando fosse meglio un silenzio: quegli istanti li hai ancora in mente. Solo alla fine della giornata ritornano a occupare i pensieri e a tenerti compagnia nella notte. Ma ormai il passato è passato.

«Cos’è il ricordo se non uno spettro nascosto in un angolo della mente, pronto a irrompere durante il giorno, o a disturbare il nostro sonno, con un atroce dolore, una gioia, qualcosa che non abbiamo detto o che abbiamo ignorato?»1.

Azar Nafisi, scrittrice iraniana, così descrive il ricordo delle cose non dette e a partire da questa riflessione vorrei far iniziare questo promemoria filosofico.

Vorrei darti la possibilità di dire le cose che, quando avresti potuto e magari dovuto hai taciuto, per sentirti libero di poterlo fare almeno una volta. Per tutte quelle occasioni in cui hai scelto di non dire quello che sentivi, quello che provavi, quello che ti meritavi perché l’occasione non era giusta, non era il caso o non pensavi di poter essere preso troppo sul serio.

Per quella volta che ti sentivi il mondo crollarti addosso e volevi urlare la tua disperazione ma non potevi. Dopo aver aspettato a lungo una notizia, sperando che ti potesse giovare, spesso è arrivata la delusione che si avvinghia alle tue aspettative. Avresti voluto allora non tremare ancora e finalmente dire: “No, io non lo accetto” e poterti ribellare.

Per quella circostanza in cui, per strada o di fronte alla stazione, hai visto l’amica di anni che per un bisticcio dopo molto tempo non ti ha più parlato: quella sera invece ti ha guardato, si è voltata e non ti ha neanche salutato. L’hai salutata tu, può darsi, ma avresti voluto chiederle se davvero così ci si comporta.

Alla persona che ti ha ferito a parole, a gesti, a fatti, vorresti chiedere perché farti tutto questo male.

A quella stravagante signora che vedi ogni giorno alla fermata dell’autobus, magari vorresti chiederle come si chiama e cosa ci fa anche lei alla stessa ora lì o solo dove sta andando.

Credo che vorresti dire grazie ai tuoi genitori che vicini o lontani ci sono sempre accanto a te.

Ammetto che non confesserai mai alla persona che ami, tutto e quanto amore provi per lei, ma è un segreto che terrai per te, lo so, tranquillo.

Il tentativo che ti chiedo di fare pero’ è questo: rivela una cosa che non hai mai detto ad un altro, un nodo che hai in gola da tempo o un pensiero felice, ti sentirai più leggero.

Vorrei invece che avessi l’onestà di parlare a te stesso. Per chiarire le cose in sospeso con il tuo Io, con quel Se che alla fine è te stesso, ma mai lo stesso. Per ricordarti quanto vali, quanto veramente puoi essere contento di te quest’anno. Questo è il mio dono di Natale, per riportare alla luce chi sei e cosa hai fatto per arrivare dove ti trovi.

Non lasciare che le porte chiuse ti abbattano e non dimenticare le tue passioni per la convenienza. Non dimenticarti di te stesso dopo tante ore di lavoro, dopo tanta fatica e lascia che le cose vadano come devono andare. Devi volerti bene, rispettarti e apprezza i limiti che hai scoperto di avere, non sei sempre invincibile. Non è mai semplice ricordarti, ma ne vale sempre la pena.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1. Azar Nafisi, Le cose che non ho detto, Aldelphi, Milano, p. 14

C’era una volta… per davvero

«Ciò che le fiabe narrano – o, al termine della loro metamorfosi nascondono – una volta accadeva: giunti a una certa età i ragazzi venivano separati dalla famiglia e portati nel bosco (come Pollicino, come Nino e Rita, come Biancaneve), dove gli stregoni della tribù, abbigliati in modo da far spavento, col viso coperto da maschere orribili (che a noi fanno subito pensare ai maghi e alle streghe) li sottoponevano a prove difficili, spesso mortali (tutti gli eroi delle fiabe ne incontrano sul loro cammino). I ragazzi ascoltavano il racconto dei miti della loro tribù e ricevevano in consegna le armi (i doni magici che nelle fiabe donatori soprannaturali distribuiscono agli eroi in pericolo) e infine facevano ritorno alle loro case, spesso con un altro nome (anche l’eroe torna talvolta in incognito). Erano maturi per sposarsi (come nelle fiabe, che nove volte su dieci si concludono con una festa di nozze)»1.

Le parole di Gianni Rodari ci raccontano di riti divenuti fiabe. Sull’origine della fiaba, sulla sua ritualità tratterà questo promemoria filosofico.

Rodari riprende la teoria dell’etnologo sovietico Vladimir Prop secondo cui la fiaba ha cominciato a vivere come tale quando l’antico rito è caduto, lasciando di sé solo il racconto. Ciò che era presente come rito tradizionale, è diventata storia passata che gli uomini hanno trasformato in mito, fino ad abbandonarlo e lasciarlo esistere come un ricordo. Non si tratta solo di un “raccontino per bambini”, ma si tratta della nostra storia. Molti anni addietro, nelle prime comunità umane, la fiaba era un costume consolidato, un rito di passaggio che permetteva ai giovani di diventare adulti. Il caso vuole che le fiabe siano comunemente considerate adatte ai più piccoli e questo non sia del tutto sbagliato, anche se in un senso limitato. La fiaba dovrebbe essere oggetto di analisi storico-antropologica poiché ci dà gli strumenti per comprendere la storia umana in modo profondo.

Nelle tribù arcaiche la fase dalla giovinezza all’età adulta era una consuetudine sacra, che era dettata dagli déi primordiali legati alla terra. Oggi possiamo riflettere come le fiabe quindi siano nate per caduta del mondo sacro al mondo laico: come per caduta sono finiti al mondo infantile, quegli oggetti che avevano valenza culturale. Prendiamo come esempio il peluches più caro ai bimbi: l’orsacchiotto. L’orsacchiotto che stringe il bambino che vedi per strada, una volta era uno degli animali totem divinizzati dalle popolazioni antiche, come animale protettore della comunità. È assolutamente affascinante approfondire e scoprire in quello che confiniamo solo adatto ai bambini, il nucleo primitivo magico proprio e comune per l’umanità. A riguardo si ricollega il concetto di inconscio collettivo di Jung, che connette in senso meta-temporale il ragazzino primitivo che conquista la sua identità matura attraverso il rito sociale, al bambino di oggi, che mediante il racconto fiabesco entra a conoscenza delle dinamiche del mondo di cui farà parte un giorno.

Ora il mio augurio è questo: ripeschiamo tra i ricordi quella fiaba che ci faceva brillare tanto gli occhi e che abbiamo fatto nostra, e cerchiamo rileggerla con il vissuto di oggi, di vedere quanti punti di questa abbiamo realizzato o che ancora ci prefissiamo di raggiungere. Incosciamente da bambini l’abbiamo scelta anche per questo.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:
1. Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi Ragazzi, Trieste 2013, pg. 86

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Bukowski e il blocco dello scrittore

«Scrivere del blocco dello scrittore è sempre meglio che non scrivere affatto»1.

Charles Bukowski in questo caso ha ragione. Dedico questo promemoria filosofico proprio alla pagina bianca, sofferenza dello scrivere e quell’appagante gioia che ti dà nel momento hai finalmente scelto l’ultimo punto.

Il blocco dello scrittore è l’evento più devastante che può accadere ad uno scrittore. Avere idee e non saperle esprimere, continuare a cancellare la stessa frase almeno duecento volte e rimanere sempre di fronte a quella pagina bianca in cui ti rifletti. Si prova una sorta di vertigine, pur non stando in piedi, pur non stando in alto fisicamente. Non è neanche possibile accartocciare la carta in cui abbiamo scarabocchiato i tentativi di appunti, ormai si scrive quasi sempre su un foglio virtuale, non c’è neanche questa via libera per la frustrazione. Ma pensandoci non succede solo agli scrittori: a chi non è successo quando era alle scuole e ha avuto un blocco durante un tema? Chi non sapeva quella volta come scusarsi di fronte al torto fatto? Chi non sapeva cosa scrivere in quel messaggio per quell’amico lontano? A chi non è successo di non sapere esprimere chiaramente i propri sentimenti ad una persona cara?

Spesso quel vuoto ci assilla e ci assale e ci fa perdere nell’insensatezza dei nostri pensieri. L’ignoto dell’indefinito, di quello che ancora non abbiamo chiarito con delle semplici frasi si propaga davanti a noi. Il non riuscire a scrivere ci terrorizza. Il non riuscire ci blocca. Lo si può chiamare anche terrore e paralizza. Dunque la scelta più facile sembrerebbe lasciare stare, magari riprovare più tardi, un’altra volta.

Non solo nella scrittura ma soprattutto durante la vita avviene. Se non abbiamo una strada tracciata e bisogna partire da zero, è impossibile non essere impauriti da quello che può succedere. Il nuovo può provocare angoscia, propriamente la paura dell’indefinito, dell’infinito possibile. Uno scrittore non sa mai dove lo porterà quel nuovo paragrafo, quella frase in cui un racconto inizia e una storia prende forma, come in un viaggio on the road in posti sconosciuti. Non si conosce la strada da percorrere.

Ed è forse qui che l’unica cosa che ci salva davvero è per il suo senso opposto quell’indefinito, come per il bicchiere mezzo vuoto, che di fatto è anche mezzo pieno. Quel mezzo pieno ci permette di essere in qualche modo positivo e dire a noi di stessi che ce la possiamo fare, perché c’è qualcosa di nuovo da intraprendere. Nuove prospettive da analizzare, scelte azzardate e fidate a seconda di quello che l’istinto ci guida. Se l’angoscia ci spinge da una parte, è emozionante dall’altra, l’ignoto ci fa provare diversi effetti.

Così anche scrivere di questo blocco aiuta lo scrittore a esprimere il suo malessere, ma pur sempre gli consente di scrivere. Lo sforzo aiuta ad andare avanti a pensare, a vivere nel modo migliore che ci è permesso; alla fine è tutta questione di volontà fin dove ci è dato. Esercizi quotidiani di scrittura, come sempre anche un po’ di vita per andare avanti, passo dopo passo verso un futuro. Oppure come in questo caso al prossimo punto e ad un nuovo articolo.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:
1. Charles Bukowski.

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Il vero guerriero della resilienza: Nietzsche

«Quel che non mi uccide, mi rende più forte»1.

In Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa con il martello, opera del 1888, Nietzsche esprime la sua sentenza e reagisce alla morte di Dio: in merito si rivolge ad un acclamato richiamo alla vita e torna a vivere orientandosi direttamente verso la teoria all’Oltreuomo (Ubermensch). Questo è il Nietzsche che rinasce dalle ceneri della decadenza dei valori e dei costumi, lo spirito costruttivo che noi stessi dovremmo adottare di fronte al negativo.

Tale sentenza richiama il concetto di resilienza, che ormai non ci è molto oscuro come termine. La rivalutazione di tale parola è molto utilizzata oggi in psicologia e fa leva su questa strategia per risolvere e affrontare i problemi. Per “resilienza” per intenderci possiamo indicare la capacità di reagire agli urti della vita, di riuscire a superare le esperienze più negative e traumatiche della nostra vita, uscendone rafforzati. Un modo per affrontare queste situazioni lo avevo già messo in dubbio nello scorso articolo, trattando della distrazione, ma questa volta è proprio necessario prendere il toro per le corna e affrontare il tema.

Ognuno di noi è capace di reagire a ciò che gli accade: ognuno a suo modo. Questa attitudine adattativa comune ma personale, ci consente di essere di nuovo intatti, arricchiti e pronti per nuovi stimoli ed esperienze. Essere resilienti significa analizzare la situazione traumatica, comprendere gli errori, l’evento, le colpe e le responsabilità, e accettarli. La fase dell’accettazione è la più difficile perché richiede un notevole sforzo emotivo, che spesso è dato per scontato, perché si tratta non solo di accettare l’evento, ma di convivere con le conseguenze che esso ha creato e di tutte quelle modifiche che hanno cambiato anche noi stessi. Con l’accettazione di ciò e dunque l’accettarsi, l’evento si può dire superato. L’urto in questo caso non è più vissuto in modo violento e non crea lo stesso turbamento che si è presentato in un primo momento. Le ferite, se profonde, si possono rimarginare, anche se a volte i segni e le cicatrici rimangono.

Ecco, la resilienza sta proprio nella nostra capacità di guarigione da queste ferite dell’anima che ci vengono inferte volontariamente e involontariamente.

Detto così è semplice, ma non tutti hanno in primo luogo gli stessi tempi di reazione; a volte avviene in modo completo e efficace e può succedere che da soli non riusciamo ad affrontare le situazioni. Ci possiamo ammalare per questo. La prima tra tutte le malattie dell’anima e la più comune, solo per citarne una, è la depressione. Anche prendendo in considerazione semplicemente il termine, si può comprendere la sua natura: de – pressione, il cui prefisso è un rafforzativo. L’anima è sotto pressione, è schiacciata dalla vita. Di questo però parleremo in un’altra occasione.

Questa dote che è la resilienza non è solo una capacità della persona, ma può essere insegnata, sviluppata e dovrebbe essere condivisa per vivere e cercare un equilibrio nel vortice della vita. A volte da soli non si riesce ad affrontare tutto, insieme il peso e la pressione dei carichi che questa esistenza ci lascia, si dimezza. Ricordatevi solo che anche questo è un dono.

Al prossimo promemoria filosofico

 

Azzurra Gianotto

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
1. F.NIETZSCHE, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 2010, pg.26.

LE DIVERTISSEMENT: la distrazione tra Pascal e Chomsky

«Vedo bene che, per render felice un uomo, basta distrarlo dalle sue miserie domestiche e riempire tutti i suoi pensieri della sollecitudine di ballar bene. Ma accadrà il medesimo con un re, e sarà egli più felice attaccandosi a quei frivoli divertimenti anziché allo spettacolo della sua grandezza?
[…] i re son circondati da persone che si prendono una cura singolare di evitare che restino soli e in condizione di pensare a loro stessi, ben sapendo che, se ci pensassero, sarebbero infelici, nonostante che siano re»1.

Ebbene sì, anche i re secondo Pascal, come tutti gli uomini, hanno bisogno di distrarsi dalle questioni serie della vita. La morte viene scansata, messa da parte come tutte le miserie umane, che da un tono cupo e nero acquisiscono un colore grigio tenue, quasi indifferente e ci sentiamo più sereni. Magari fosse così semplice, anche il valore della vita stessa viene scalfito: saranno passati secoli ma basti solo pensare già a Versailles e la sua funzione primaria di distrazione dei nobili verso le faccende politiche. Luigi XIV aveva già anticipato in parte il sistema per cui far perdere interesse nelle tematiche importanti in primo piano; di fatto feste in regge lussuose e banchetti sfarzosi, se si pensa, possono essere paragonati in forma easy dei nostri party all’aperto e alle apericene o buffet offerti oggi.

La distrazione è ciò che fa stare bene, ma solo per un determinato tempo, perché si è gettati nella realtà e non si può evitarla troppo a lungo. Soprattutto se non pensiamo a ciò che ci accade nella realtà, come possiamo riconoscerne il valore?

«L’uomo è chiaramente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo merito; e tutto il suo dovere consiste nel pensare come si deve. Ora, l’ordine del pensiero è quello di cominciare da sé, e dal suo autore e dal suo fine.
Ma a che cosa pensa la gente? Mai a questo; ma a ballare, a suonare il liuto, a cantare, a comporre versi, a infilzar l’anello nelle giostre, e cose simili, a battersi, a farsi incoronare re, senza pensare che cosa vuol dire essere re e che cosa vuol dire essere uomo».

Oggi poco è cambiato dal passato: si balza da Pascal alla più attuale teoria di Chomsky, che paiono ad un certo punto continuarsi e evolversi con i tempi e la cultura della propria epoca.

Secondo Chomsky infatti i mass media per ottenere consenso manipolano la volontà, distraendo la coscienza in modo costante e repentino, affinché non resti il tempo per pensare e interessarsi alle conoscenze essenziali, al di fuori delle proposte già date. Si basti pensare come l’attenzione sia stata tolta da eventi urgenti di ieri, come l’emergenza profughi o la crisi economica o la povertà emergente in Italia, di fronte ai risultati delle partite degli Europei di calcio, informazioni che davvero a confronto sembrano essere insignificanti.

Ora pensiamo alle nostre singole vite: anch’io personalmente, a volte preferisco non pensare a certe cose, ma quelle cose lì non si dissolvono. Quante volte si decide di non pensare e di distrarsi, credendo che così facendo si possa essere felici anche solo per un minuto? Distrarsi può essere, ma non è sempre un rimedio. A lungo tempo andare, abituandosi ad esso, diventa il male che ci fa ammalare della miseria più grande per Pascal: il non pensare. Il pensiero rende l’uomo quello che è e non può dimenticarsi una parte di sé.

Distrarsi dai problemi non li risolve, li mette solo da parte.

Bisognerà ritornare a pensare, un giorno o l’altro. Ma quando?

Intanto proviamo a ricominciare a pensare da qui.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1. B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pag 157.

Le cose dell’amore, parte II

«Le anime amanti si avvicinano in quel momento e depongono il loro velo: esse si sentono strette da un vincolo misterioso, che può svanire rapidamente, ma può anche imprimersi più profondamente e durevolmente degli stessi vincoli del sangue.
In realtà l’amore è il più alto grado di beatitudine che l’essere vivente può raggiungere. La beatitudine nasce da un senso di più profonda realtà, di perpetuità dell’esistenza; e la perpetuità dell’esistenza è condizionata dall’unità, dall’unione con un altro essere e con tutti gli altri esseri. […] L’amore è il primo punto luminoso della vita»¹.

L’attrazione. Un’ inspiegabile tensione che ci coglie ad un primo impatto di fronte ad una persona. Quella forza arcaica che è ci rende umani e meno razioni dimostrandoci che non possiamo dimenticare la nostra natura. Questo promemoria filosofico vuole trattare dell’attrazione attraverso i sensi, tranne il più concreto, il tatto, narrata da Piero Martinetti, professore di filosofia che si distinse nella sua epoca per non aver aderito al regime fascista.
Ciò che è più affascinante è come le sue descrizioni siano ancora così vere, così senza tempo da essere ancora attuali. Sono riflessioni sull’amore che non sono intrise di romanticismo o idealità, ma che si concretizzano sul sentire del genere umano, prendendo entrambe le parti.

A partire dall’idea che ogni individuo cerca di realizzare con l’altro la più perfetta unità possibile, ogni essere umano cerca un altro essere che lo completi e che gli dia ciò che a lui manca. L’attrazione si regge su questo filo inconscio che si rende cosciente nel momento in cui scatta qualcosa e si accende nella forma della passionalità.

L’attrazione attraverso la vista rivela la bellezza dei tratti del viso, lo splendore del colorito, il fascino dello sguardo, se non da ultima l’eleganza delle forme. Alla bellezza statica del corpo si aggiunge l’azione della bellezza dinamica, dei movimenti, che si mostra nel moto armonico del corpo, come nel più semplice dei gesti e dei movimenti del viso. Nelle donne è più evidente, determinato dai caratteri anatomici, e rappresenta un elemento dell’attrazione sessuale: incessus patuit dea. La grazia dei movimenti femminili raggiunge il suo più alto effetto nel movimento ritmico della danza². Un elemento importante di attrazione erotica è anche l’abito, che, sia in quanto nasconde, sia in quanto rivela, serve anche a mettere in rilievo la bellezza del corpo: il corpo vestito è sessualmente più eccitante che il corpo nudo. Ha una seconda ragione d’essere nel pudore e può considerarsi come un esprimersi esteriore del pudore. Di più, anche l’esibizione erotica viene col processo del tempo contenuta ed affinata dai sentimenti più delicati dell’amore; il vestito che vela il corpo e tuttavia ne mette in rilievo le linee flessuose, risponde anche a questa esigenza. Accade qui come per i colori: i colori vivi hanno un’azione erotica più violenta e sono i preferiti dalle donne delle civiltà arretrate. Un’eleganza più raffinata sa scegliere colori più pallidi e delicati³. Tra l’abito e l’istinto dell’esibizione erotica ha luogo quindi una specie di compromesso.

Per la donna ha la massima importanza ciò che l’uomo sa dirle, sa esprimerle. Certa è l’attrazione attraverso l’udito per un uomo verso una voce femminile più acuta ma melodiosa.

Il senso dell’odorato è un senso chimico e ciò che intimamente più attrae.  Ha una particolare importanza il profumo del collo e dei capelli, sia dal punto di vista femminile che maschile: i lunghi capelli della donna sono come un naturale organo di profumo che nessun profumo artificiale può sostituire. La donna conserva anche in età avanzata questo odore gradevole del capo, che è come un odore di foglie secche di rosa⁴. Esso è diverso nelle diverse donne, afferma Martinetti, e distingue la donna in due classi: quelle che hanno un naturale profumo di violetta e quelle che hanno un profumo di ambra. Esso è più intenso nelle carnagioni più scure che nelle bianche, e, più nelle brune che nelle bionde; i capelli rossi hanno un profumo caratteristico molto inteso.
L’uso dei profumi con i quali si cerca di sostituire o correggere l’odore naturale, appartiene a tutti i tempi e i popoli, ed ha, in grandissima parte, un carattere erotico. È degno di nota che molti profumi artificiali si connettono con la vita sessuale animale; e la maggior parte dei profumi vegetali sono prodotti floreali, quindi connessi con la fase più acuta della vita erotica della pianta.

Ciò ci può dare un’idea di ciò che attraverso questi tre sensi ci può trarre nell’altro, fateci caso.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

[L’immagine è tratta da Google Immagini e ritrae Robert Mupplethorpe e Patty Smith alla fine degli anni Sessanta]

NOTE:
1. Piero Martinetti, L’Amore, Ed. Il Melangolo, Milano 1998, pag 56;
2. Ibidem, p. 61;
3. Ibidem, p. 63;
4. Ibidem, p. 68.

Le cose dell’Amore – parte 1

Sono smarrito di fronte all’altro che vedo e non tocco e del quale non so più che fare. È già molto se ho conservato il ricordo vago di un certo al di là di quello che vedo e tocco, un al di là di cui so precisamente che è ciò di cui voglio impadronirmi. È allora che mi faccio desiderio.1

Forse un po’ banale, questo sarà un promemoria sull’amore. A partire dal libro omonimo2 di Galimberti ci si può inoltrare in questo grande mare, del quale almeno una volta noi tutti siamo o siamo stati in balia. Senza partire dalle fasi dell’amore vorrei soffermarmi sul sentire dell’amore, sulla condizione dell’Io nel momento in cui si incontra l’Altro, quando si diventa desiderio. De-siderio trae la sua origine dalla parola greca sidus, che è tradotto con stella o costellazione, termine che deriva dal linguaggio di navigazione. De è un prefisso privativo a indicare l’assenza e quindi la mancanza. Per comprendere ora meglio il suo significato proviamo ad immaginare di essere un marinaio, durante un lungo viaggio e lontani da casa, in mare aperto e di doverci orientare: l’unico mezzo per avere una rotta sarebbe servirsi della posizione della stella polare. In quella notte pero’ il cielo è nuvoloso e non ci è possibile scorgere la stella. Il nostro animo è teso nella vana ricerca di quel punto di luce che ci possa salvare e lo sguardo è rivolto verso l’alto. Ci si sente smarriti per un attimo o più. È questo il sentimento che si impadronisce di noi e che fa tendere il nostro animo verso qualcosa di oltre, verso l’infinito riconosciuto nell’altro. Si desidera l’oggetto d’amore trovando in lui ciò di cui si ha bisogno, ma essendo la sua forma per natura finita e il desiderio infinito, questa tensione non si arresta, anche nella trasformazione o nel cambiamento dell’altro. Si tratta infatti di ri-conoscere nell’altro quel tu, che è familiare, che ci è proprio. Come se si realizzasse il mito raccontato da Aristofane durante il simposio platonico.

Aristofane narra a suo modo l’origine dell’amore che trova uno scopo in se stesso, senza confinarlo al solo fine procreativo. In origine tutti gli esseri viventi avevano due teste, quattro braccia, quattro gambe, due organi sessuali ed erano tondi. Vi erano tre generi sessuali, il maschile, il femminile e l’androgino, che aveva caratteristiche dell’uno e dell’altro. Per via del loro grande potere e superbia di ascendere all’Olimpio, il mito narra che Zeus decise di dividerli a metà, così che fossero più deboli singolarmente. Da allora nella loro unione l’essere umano trova la sua antica forza, garantita da Eros che infonde in lui il desiderio.

Dunque al desiderio e alla ricerca dell’intero si dà nome amore.3

Si tratta di un desiderio innato che comporta il ricongiungimento di un’unità primitiva, che ha delle conseguenza sulla propria identità che si costruisce arricchendosi e trasformandosi, come in ogni altra relazione umana, ma che è ovviamente più intima, per la sua dimensione sessuale, ed un’unica per la sua straordinaria forza e bellezza. Ed è così che accade:

Ai confini tra il corporeo e l’incorporeo, amore abita la reciprocità dello sguardo, del sorriso, della voce, del gesto, del movimento. Un sorriso che non è contrazione ma offerta, uno sguardo che apre insicuro la strada del desiderio in cui si riflette l’unicità dell’evento, una voce malcerta in cui è tutta l’immediatezza del sensibile, l’incarnazione della parola, un gesto in cui la grazia che è ritmo della bellezza chiama tenerezza, mentre un movimento che accenna una timida disposizione di danza allude a un’impercettibile gioia nascosta.4

Con questa splendida descrizione di Galimberti, termino questa breve prima parte sul tema dell’amore.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

Note

1 J. P. SARTRE, L’essere e il nulla (1943), pg.481, il Saggiatore, Milano 1966

2 U. GALIMBERTI, Le cose dell’Amore, Feltrinelli, Milano 2004

3 PLATONE, Simposio, 192e-193a, Bur, Milano 2007

4 U. GALIMBERTI, Le cose dell’amore, pg. 19

Azzurra Gianotto

[Immagine “A letto il bacio” di Henri de Toulouse Lautrec del 1892]