Le Congetture di frutta: confetture e utopie

Confetture e utopie: come eliminare l’indesiderato della realtà e tenere solo il dolce del pensiero.

    Il processo di preparazione della confettura consiste nell’eliminare la maggior parte dell’acqua presente nella frutta per conservarne il concentrato di gusto e zucchero. Un processo simile, nella sostanza, a quello che conduce alle utopie: si toglie la gran parte di quello che compone l’uomo per tenerne solo l’essenza più dolce – e per di più, come per le confetture, è comunque necessario aggiungervi dello zucchero. Entrambe, confetture e utopie, non si servono se non accompagnate da qualcosa di più solido e, per evitare malanni, vanno sempre assunte a piccole dosi. Eppure non se ne può fare a meno, perché esse creano „spazio al possibile: contro ogni passiva acquiescenza allo stato presente„ (E. Cassirer).

Qui vi presentiamo tre brevi confetture utopiche con la speranza di aprire un poco gli orizzonti del vostro mappamondo filosofico-dolciario.

La congettura di More

    Esattamente cinquecento anni fa Thomas More riportò quanto gli aveva raccontato il navigatore Raphael Hythlodaeus (“colui che racconta bugie”): viaggiando lungo le coste brasiliane, in un luogo non ben precisato, Raphael aveva scoperto l’isola di Utopia. A Utopia la proprietà privata era abolita, si produceva non per il mercato ma per il consumo, c’erano libertà di parola e di culto (anche se agli atei erano disprezzati) e ogni cittadino lavorava sei ore al giorno e dedicava il resto del tempo all’arte e alla cultura. Nomi evanescenti costellano la mappa di quest’isola: la capitale si chiama Amauroto, città invisibile, il fiume che l’attraversa Anidro, senz’acqua, chi la governa è Ademo, il senza popolo. A Utopia, come in cucina, «nessun piacere è da bandire, se non ne deriva alcun male.»

La congettura di Taprobanana

    L’isola di Taprobana compare già nei trattati degli antichi geografi greci e la si trova in tutti i mappamondi europei fino al XVII secolo, sul bordo, lontana, da qualche parte nell’angolo sud-est del mondo. Un nome e un profilo di carta, privi di un corpo di terra definito: per molti è stata lo Sri Lanka, per alcuni Sumatra, per altri il Borneo. Tommaso Campanella – che si finse pazzo davanti al Sant’Uffizio per evitare la morte e che trascorse 27 anni di prigionia a Napoli – nel 1602, mentre era ancora in carcere, fece sorgere su Taprobana la propria utopia: la Città del Sole.

La congettura di Tristan da Cotogna

    Nel mezzo dell’Oceano Atlantico, tanto lontana dal mondo abitato da far sembrare vicina l’isola di Sant’Elena, sorge Tristan da Cunha. Questo pezzo di roccia vulcanica di nemmeno 100 km2 è stato, agli inizi dell’Ottocento, il luogo prescelto per la società utopica di William Glass: un’isola senza proprietà privata né gerarchie, dove vigeva il divieto di impartire ordini. Ai giorni nostri a Tristan da Cunha ci sono solo 8 cognomi; sono tutti di sapore anglosassone a parte due: Repetto e Lavarello. Li hanno portati due marinai di Camogli che naufragarono sull’isola nel 1892 e decisero di non tornare più indietro.

 

LE CONGETTURE DI FRUTTA

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Persone: 2 vasetti per ogni tipo di Utopia
Tempo di preparazione: 1 h circa per congettura

Attenzione: tutti i vasetti vanno adeguatamente sanificati prima di cominciare la preparazione delle congetture! Mi raccomando.

La congettura di More e rosmarino

INGREDIENTI 2-vasetti_more_aristortele_big

500 gr more di rovo

120 gr zucchero chiaro di canna

20 gr succo di limone

1 rametto di rosmarino

Lavate e asciugate delicatamente le more. Lavate e tritate il rosmarino. Fate macerare la frutta con lo zucchero e la spezia per almeno 4 o 5 ore o fino a che lo zucchero non si sia completamente sciolto. Fate cuocere aggiungendo il succo di limone a fuoco basso, schiumate quando necessario, lasciate bollire mescolando spesso per circa 30 minuti. La congettura deve raggiungere i 105° C (se avete un rifrattometro: 65° Brix – se non avete manco un termometro: la prova del piattino!). Invasate subito.

La congettura di Taprobanana, zenzero e vaniglia

INGREDIENTI 3-vasetti_taprobanana_aristortele_big

500 gr banane mature

50 gr acqua

220 gr zucchero scuro di canna

15 gr succo di limone

30 gr zenzero fresco

1 baccello di vaniglia

Sbucciate le banane, grattugiate lo zenzero e aprite il baccello di vaniglia. Fate cuocere la frutta con l’acqua, lo zucchero, le spezie e il succo di limone per circa 30 minuti a fuoco basso, schiumando se necessario e mescolando spesso. La congettura deve raggiungere i 105° C (se avete un rifrattometro: 65° Brix – se non avete manco un termometro: la prova del piattino!). Invasate subito.

La congettura di Tristan de Cotogna e cannella

1-vasetti_cotogne_aristortele_bigINGREDIENTI

500 gr mele cotogne mature

250 gr zucchero chiaro di canna

30 gr succo di limone

30 gr cannella in polvere (o due stecche)

Sbucciate e tagliate a pezzetti tutti uguali-uguali le mele. Mettete in una soluzione di acqua e limone perché non anneriscano. Fate cuocere a fuoco basso per circa 30 minuti, aggiungendo il succo di limone e la cannella quasi a fine cottura. La congettura deve raggiungere circa i 105° C (se avete un rifrattometro: 65° Brix – se non avete manco un termometro: la prova del piattino!). Se preferite potete passarne una parte al passa-verdure per renderla più cremosa. Invasate subito dopo.

 

Mettete le congetture a testa in giù e cominciate a sognare.

Aristortele

Crostatus

Iniziamo da ciò da cui ogni torta inizia: la ricetta.

Non è importante che sia scritta a mano su un bel quaderno ad anelli (come nel nostro caso), che sia sullo schermo del televisore o del computer, che sia su una rivista di cucina o, più semplicemente, l’abbiate sentita dalla nonna: quello che ci interessa è che ogni volta che prepariamo una torta ci confrontiamo con un modello di riferimento.

Anche se a ben vedere più che a un modello – quello sarà piuttosto la torta che abbiamo assaggiato e che vogliamo imitare – la ricetta somiglia a una lista di prescrizioni, a un elenco di regole seguendo le quali si può ottenere quanto promesso dal titolo. È una sorta di guida.

Ma cosa facciamo quando seguiamo una ricetta? Quale rapporto s’instaura tra noi e la nostra guida? Quale, invece, tra quest’ultima e la nostra torta fumante?
Per evitare di risultare banali nei post futuri, cerchiamo di esserlo in questo: troviamo qualche analogia con la musica – musica classica, per l’esattezza. Ecco che il cuoco è il musicista, la ricetta lo spartito e la torta il brano eseguito.
Mettiamo che il paragone funzioni e domandiamoci: chi è il compositore? Viene spontaneo rispondere che è colui che ha scritto la ricetta e cioè, a seconda dei casi, la nonna, un’amica, una presentatrice televisiva, un pasticcere rinomato… Se il ragionamento fila, allora noi non possiamo che essere gli esecutori, ossia coloro che traducono in vibrazioni fisiche lo spartito e lo rendono fruibile al pubblico, che rendono commestibili le parole della ricetta. Certo, qualcuno di noi sarà più abile, altri meno – così come ci sono pianisti bravi e pianisti pessimi – ma cucinando non faremmo che riprodurre fedelmente una partitura culinaria.

Eppure, chiunque abbia preparato un dolce almeno una volta nella sua vita sa che le cose non vanno esattamente così. Qualche volta non abbiamo abbastanza farina, qualche volta ci scappa del burro in più, qualche volta decidiamo di sostituire un ingrediente con un altro, qualche altra l’ingrediente lo eliminiamo del tutto… Sarebbe come se, durante un valzer di Chopin, un pianista decidesse di suonare delle note diverse da quelle scritte dal compositore polacco, o le evitasse deliberatamente.
Durante la preparazione di una torta avviene, infatti, una ricomposizione della ricetta, una ridefinizione della guida di riferimento. Il pasticcere non è mai soltanto un esecutore, bensì è un compositore a sua volta. Ecco perché quando cuciniamo assomigliamo piuttosto a degli improvvisatori, a dei jazzisti: abbiamo un canovaccio, una struttura – più o meno rigida a seconda dei casi –, che ci guida lungo la nostra performance, ma il resto è affidato alla nostra verve estemporanea, che è a sua volta l’esito della nostra pratica e delle nostre esperienze passate.

La ricetta è la descrizione di un ideale irrealizzabile. Serve solo da sfondo alle manifestazioni concrete – e tutte diverse tra loro – che sono le nostre torte; e queste manifestazioni concrete spesso portano a modificare quella che era la costruzione ideale: facendo la crostata ci accorgiamo che quattro pere sono più che sufficienti ed ecco che andiamo a modificare il nostro quaderno ad anelli e, laddove c’era scritto sei, mettiamo un bel quattro.
Nel cucinare c’è una continua e sostanziale rimessa in discussione delle premesse. Esperimenti sull’onda della felicità, improvvisazioni dettate dalla dimenticanza, errori ai quali è troppo tardi per rimediare, deviazioni repentine causate da vuoti frigoriferi imprevisti… sono tutti aspetti che portano a riconsiderare i parametri di riferimento e a modificare le regole della ricetta. Ma, allo stesso tempo, sono ciò che permette di mantenerla viva.

Le improvvisazioni di oggi saranno ciò che guiderà le improvvisazioni future.

Ma facciamo attenzione e non abbandoniamoci a facili entusiasmi. La libertà di cui gode il cuoco – come anche quella di cui gode il jazzista – non deve essere ingenua e mettere in secondo piano l’obiettivo di ogni vero pasticcere: la ricerca della perfezione ideale. È pur sempre con in mente la crostata perfetta che si impasterà la più prelibata delle crostate. Il grande jazzista e il grande pasticcere tendono al loro ideale con la stessa sistematicità e la stessa perseveranza del grande filosofo.
Ecco perché su questo blog non vedrete nessun binomio scontato tra cucina e filosofia, ma piuttosto tra pasticceria e filosofia. Perché quello di cui siamo convinti è che la pasticceria non sia solo fonte di godimento estetico e sensoriale, ma sia attraversata da congiunture logiche che la rendono profondamente filosofica.

Come diceva il buon Kant:
«Il cielo stellato sopra di me, la crema pasticcera dentro di me».

CROSTATUS PERE, CIOCCOLATO E NOCI

Ricetta Crostatus Aristortele - La chiave di SophiaPersone: 8
Tempo di preparazione: 40 min. + 6 ore in frigorifero

INGREDIENTI

Per la “Pasta Frolla Elementare”:
• 250 gr farina deboluccia
• 125 gr burro morbido
• 100 gr zucchero semolato
• 20 gr tuorlo d’uovo
• 1 uovo intero
• 2 gr lievito per dolci
• 1 pizzico di sale
• Aromi (vaniglia, scorza di limone, scorza d’arancia)

Per la crema pasticcera al cioccolato:
• 250 ml latte fresco
• 63 gr zucchero semolato
• 40 gr tuorlo d’uovo
• 28 gr farina 00
• una stecca di vaniglia
• 150 gr cioccolato fondente (75% massimo)
• 100 ml panna fresca
• 2 pere
• 150 gr gherigli di noce

PREPARAZIONE

«Melius deficere quam abundare», Anonimo latino.

1. La PFE, Pasta Frolla Elementare:
1.1 Amalgama velocemente il burro con lo zucchero;
1.2 Aggiungi tuorli e uovo un po’ alla volta;
1.3 Incorpora nel composto gli ingredienti secchi:
1.3.1 Farina;
1.3.2 Lievito;
1.3.3 Sale;
1.3.4 Aromi;
1.4 Fai una sfera;
1.5 Metti a riposare in frigo per almeno sei ore;
1.6 Gli ingredienti sono le cose;
1.6.1 Le cose sono i mattoni;
1.6.2 La pasta frolla è lo stato di cose elementare su cui si costruisce il Crostatus.

2. La CLPC, Crema Logico-Pasticcera al Cioccolato:
2.1 Scalda il latte con la vaniglia;
2.2 Mescola e frusta in una boule:
2.2.1 Farina;
2.2.2 Zucchero;
2.2.3 Tuorli;
2.3 Quando il latte bolle aggiungi il composto della proposizione 2.2;
2.4 Lascia bollire per due minuti continuando a frustare;
2.5 A parte fai la ganache al cioccolato:
2.5.1 Metti a bollire la panna;
2.5.2 Versa la panna bollente sul cioccolato tritato e lentamente amalgama;
2.6 Aggiungi la ganache al composto della proposizione 2.4;
2.7 Metti a raffreddare in frigo in un contenitore basso e con la pellicola a contatto;
2.8 Ogni domanda senza risposta è priva di senso;
2.8.1 Ogni domanda priva di senso è un grumo;
2.8.2 Ogni domanda logica ha una risposta;
2.8.3 La Crema Logico-Pasticcera non ha grumi;
2.8.3.1 L’Enigma non v’è;

3. Il Mistico. Pere e Noci:
3.1 Sbuccia e taglia a cubetti le pere;
3.2 Sbriciola i gherigli di noce;
3.3 Non come è fatto il Crostatus, è il Mistico, ma che esso è;
3.3.1 Le Pere e le Noci mostrano se stesse nel Crostatus;
3.3.1.1 Pere e Noci sono l’ineffabile;

4. Composizione del Crostatus:
4.1 Fai rinvenire la PFE utilizzando il mattarello;
4.2 Dividila in due parti;
4.2.1 Stendi una parte sulla tortiera e lascia in frigo per un paio d’ore;
4.2.2 Stendi il resto della pasta e lascia ugualmente riposare in frigo su un pezzo di carta forno;
4.3 Incorpora alla CLPC il Mistico;
4.4 Versa la CLPC-mistica sulla PFE della proposizione 4.2.1;
4.5 Ricopri il Crostatus con la parte di PFE della proposizione 4.2.2;
4.6 Inforna a 180° per 15-20 minuti.

5. Tutto ciò che non si può infornare, si deve congelare.

Aristortele

Il ghiacci-olismo: il neopositivismo logico del ghiacciolo

Per il neopositivista logico le sole cose sensate che possiamo dire sono quelle che possiamo direttamente verificare con l’esperienza.

1. Lo stecco del Liuk è al gusto di liquirizia.
Questa è una proposizione sensata: compro un Liuk, mangio la parte di ghiacciolo al limone, mordo lo stecco e verifico con l’esperienza che è al gusto di liquirizia. La proposizione 1 oltre ad essere sensata è anche vera.

2. Il ghiacciolo è composto da acqua ghiacciata.
Questa è invece una proposizione logica: non ha bisogno di essere verificata con l’esperienza, perché è sempre vera. E’ analitica, non esprime nulla del mondo; è come dire: “L’acqua ghiacciata è composta da acqua ghiacciata”. Le proposizioni analitiche, proprio perché sono vere in ogni situazione possibile, definiscono i limiti del linguaggio. Per il neopositivista solo le proposizioni come 1 e 2 sono dotate di significato.

3. Il Calippo racchiude la Ghiacciolitudine, l’essenza dell’essere-ghiacciolo.
Questa, infine, è una proposizione priva di senso. Non posso applicare un metodo per verificare se essa è vera o falsa, perciò la proposizione 3 è una proposizione metafisica. Anche se non sembra, le proposizioni metafisiche sono insensate quanto una serie sconnessa di grugniti.

«Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri» (Wittgenstein, Tractatus 4.112). Ogni proposizione va analizzata nelle sue componenti; se una qualche componente della proposizione non è verificabile attraverso l’esperienza, allora l’intera proposizione è priva di senso. Questo è il compito dei filosofi neopositivisti: ripulire il linguaggio dagli enunciati metafisici, che sono pseudo problemi privi di qualsiasi valore conoscitivo.

Critica al neopositivismo logico: l’olismo del ghiacciolo o Ghiacci-olismo

Per il ghiacci-olista nessuna proposizione risponde individualmente all’esperienza. Le proposizioni sul mondo che ci circonda non si sottopongono mai singolarmente al tribunale dell’esperienza sensibile, ma sempre come un insieme solidale con le altre proposizioni che fanno parte della teoria (Tesi di Duhem-Quine). In breve, non posso valutare la proposizione 1 se non considerando contemporaneamente il mio sapere sui ghiaccioli nella sua totalità (considerando, per esempio, che normalmente lo stecco di un ghiacciolo è in legno).
Cocco e More

E le proposizioni logico-analitiche come la 2? Il Ghiacci-olismo sostiene che tutte le proposizioni, comprese quelle logico-analitiche, sono rivedibili. Ciò che differenzia le proposizioni tra loro è solo la nostra disponibilità a farne a meno, vale a dire che una proposizione è più o meno rivedibile a seconda della sua posizione nella nostra rete di credenze (web of belief). Il fatto che i neopositivisti ritengano alcune proposizioni come la 2 necessarie e “vere in ogni mondo possibile” è dovuto solo alla loro centralità nel sistema preso in esame. Tuttavia, a fronte di grandi pressioni alla periferia – per esempio di fronte alla dimostrazione che esistono dei ghiaccioli non composti di acqua ghiacciata, come nel caso del nostro ghiacciolo allo yogurt – dovremmo rinunciare anche alle proposizioni centrali. Tutte le proposizioni sono dunque empiriche e nessuna è analitica.

Ma se facciamo piazza pulita di questa distinzione, su cosa si basa un sistema? Un sistema si basa sulla propria efficienza. Se funziona, allora le sue proposizioni reggono, altrimenti lo si abbandona. Non c’è dunque una differenza di sostanza tra proposizioni come la 2 e la 3: possono essere entrambe postulati di un sistema. In altre parole, non c’è una contrapposizione netta tra analitico e metafisico: «In quanto a fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dèi differiscono solo per grado e non per la loro natura» (Quine, I due dogmi dell’empirismo). La proposizione 2 si è semplicemente rivelata più efficiente nel sistema del neopositivismo logico del ghiacciolo, fino a che il nostro ghiacciolo allo yogurt non l’ha smentita.

Ricadute del Ghiacci-olismo sulla quotidianità

Ogni giorno nel rapportarci col mondo dobbiamo verificare se delle proposizioni sono vere o false (“Il supermercato fa orario continuato”, “Il croissant di quella pasticceria è delizioso”, “In quel negozio sono dei ladri” etc.), ma nessuna di queste verifiche possiamo farla senza considerare il nostro bagaglio teorico, ossia i nostri postulati culturali. Ciascuna proposizione è inseparabile dalla rete di credenze di cui fa parte. Ogni volta che ci muoviamo, l’immenso intrico di tradizioni, insegnamenti, preconcetti, verità ritenute analitiche, si muove con noi.

La domanda che ci pone il Ghiacci-olismo è dunque questa: cosa serve per mettere in discussione i nostri postulati? Se poniamo che anche la nostra conoscenza del mondo, come quella scientifica, alterna periodi in cui vige il paradigma e periodi di rivoluzioni (Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche), quand’è che il nostro paradigma sarà messo in crisi? A volte potrà bastare un ghiacciolo allo yogurt, ma quando si tratterrà di temi più profondi? Quante percezioni contraddittorie alla periferia serviranno per scuotere il tepore al centro della nostra rete di credenze? Quante proposizioni dovranno essere smentite dalla realtà perché ci mostreremo disposti a cambiare i nostri schemi mentali? Nella risposta a queste domande sta forse il termometro della nostra saggezza.

I GHIACCI-OLISMI

Ghiacciolismi tutti - La chiave di SophiaPersone: di più! (circa 8 ghiaccioli per tipo in stampi da 70 gr)
Tempo di preparazione: 10 minuti per tipo, più la forza del vostro congelatore

Ingredienti e preparazione:
700 gr acqua
550 gr zucchero di canna
100 gr zucchero semolato

Preparate lo sciroppo di zucchero di canna: mettete la stessa quantità di acqua e di zucchero in un pentolino e portate a bollore. Lasciate raffreddare prima dell’utilizzo.
Preparate lo sciroppo di zucchero semolato: mettete 100 gr di acqua e 50 gr di zucchero in un pentolino e portate a bollore. Lasciate raffreddare prima dell’utilizzo.

Ghiacciolismi2 - La chiave di Sophia(1) TE’ VERDE E LAMPONI:

125 gr lamponi, 2 bustine di tè verde (circa 8 gr)

Fate un tè verde piuttosto intenso e lasciate raffreddare. In un pentolino scaldate per pochi minuti i lamponi con un cucchiaio di zucchero di canna e lasciate raffreddare. Alternate nello forma dei ghiaccioli il composto dei lamponi al tè e mettete in congelatore.

 

Giacciolismo1 - La chiave di Sophia(2) LIMONE E FICHI:
4 limoni, 3 fichi

Spremete i limoni e filtratene il succo. Unitelo allo sciroppo di zucchero semolato preparato precedentemente. Sulla superficie interna di ogni forma di ghiacciolo adagiate due fette sottili di fico e riempite con lo sciroppo di limone. Mettete a congelare.

 

Ghiacciolismi3 - La chiave di Sophia(3) COCCO E MORE:

400 gr latte di cocco, 160 gr latte intero, 125 gr more di rovo

Scaldate il latte intero in un pentolino con 40 gr di sciroppo di zucchero di canna preparato precedentemente. Una volta raffredatosi, aggiungete il latte di cocco e mescolate energicamente. Frullate le more. Alternate nello forma dei ghiaccioli il composto di more a quello di latte di cocco e     mettete in congelatore.

Ghiacciolismi4 - La chiave di Sophia(4) BANANA E KIWI:
4 banane, 2 kiwi

Frullate le banane con 50 gr di sciroppo di zucchero di canna preparato precedentemente (se il composto è ancora troppo denso potete aggiungere un po’ di acqua fredda). Frullate i kiwi. Riempite gli stampi con il composto di banana e terminateli con i kiwi frullati. Mettete a congelare.

 

Ghiacciolismi 5 - La chiave di Sophia(5) POMPELMO ROSA E MIRTILLI:

4 pompelmi rosa, 125 gr mirtilli

Spremete i pompelmi e filtratene il succo. Unitevi 100 gr di sciroppo di zucchero di canna preparato precedentemente. Frullate i mirtilli. Alternate nello forma dei ghiaccioli i mirtilli frullati al succo di pompelmo e mettete in congelatore.

 

 

Aristortele 6 - La chiave di Sophia

(6) MANGO E PEPE ROSA:
2 mango, 5 gr pepe rosa in grani

Frullate i mango privati della buccia con 50 gr di sciroppo di zucchero di canna preparato precedentemente (se il composto è ancora troppo denso potete aggiungere un po’ di acqua fredda). Aggiungete i grani di pepe rosa e mescolate. Riempite gli stampi con il composto e mettete a congelare.

 

(Ghiacciolismi 7 - La chiave di Sophia7) ANANAS E BASILICO:
1 ananas, 10 foglie di basilico

Frullate l’ananas precedentemente sbucciato e pulito con 50 gr di sciroppo di zucchero di canna preparato precedentemente e le foglie di basilico (se il composto è ancora troppo denso potete aggiungere un po’ di acqua fredda). Riempite gli stampi con il composto e mettete a congelare.

 

Ghiacciolismi 8 - La chiave di Sophia(8) MELONE E CHICCHI DI MELOGRANO:
1 melone cantalupo, i chicchi di 1 melograno

Frullate il melone precedentemente sbucciato e pulito con 30 gr di sciroppo di zucchero di canna preparato precedentemente. Aggiungete i chicchi di melograno e mescolate. Riempite gli stampi con il composto e mettete a congelare.

 

aristortele_ricetta_ghiacciolo_yogurt-pesche (9) YOGURT E PESCHE:
400 gr yogurt greco, 20 gr miele di acacia, 5 pesche

Mescolate lo yogurt insieme al miele energicamente. In un pentolino scaldate per 10 minuti (o comunque fino a che il composto non sarà morbido) le pesche sbucciate e a cubetti con due cucchiai di zucchero di canna e lasciate raffreddare. Alternate nello forma dei ghiaccioli il composto di pesche a quello di yogurt e mettete in congelatore.

 

aristortele_ricetta_ghiacciolo_caffe-cardamomo(10) CAFFE’ E CARDAMOMO:
400 ml caffè espresso, 70 gr latte condensato, 200 ml panna liquida, 20 semi di cardamomo

In un pentolino scaldate fino circa 40° la panna con i semi di cardamomo e 20 gr di latte condensato. Mettetela per una notte in frigorifero con i semi di cardamomo in infusione. Preparate il caffè e aggiungetevi 50 gr di latte condensato. Lasciate raffreddare. Riempite gli stampi fino a 3/4 con il composto di caffè e fino all’orlo con il composto di panna e cardamomo filtrato. Mettete a congelare.

 

Potete anche farne un solo tipo, ma ricordate il precetto base dell’olismo: il tutto è superiore alla somma delle parti.

Aristortele

Mein Bavarese

Oggi vi mostreremo come il Bavarese (non il biondone in bretelle che state immaginando) sia il dolce della riconciliazione. In esso trova finalmente pace il conflitto tra Kultur e Zivilisation che tanto ha scosso i pensatori agli albori della prima guerra mondiale.
Non è difficile riconoscere alla cucina il suo valore di custode della cultura: dalla cucchiaiata di un dolce non riceviamo solo il mero nutrimento, bensì anche il testimone di una tradizione che per generazioni si è mantenuta attraverso gli stomaci dei nostri avi. Mangiando introiettiamo – nella maniera più naturale possibile – un sapere radicato nel territorio che è frutto di un rapporto ancestrale tra l’uomo e la terra che abita. E questa è la Kultur. Lo spirito ineffabile di una comunità, il legame viscerale tra noi e l’ambiente in cui siamo stati gettati.
Da qui al nazismo culinario il passo è breve. La Kultur, infatti, accende in noi la vena battagliera, il bisogno di purezza e, soprattutto, il senso di appartenenza; fa forza sulle centinaia di cucchiaiate inconsce che hanno formato la nostra identità, sui profumi della cucina natale, sul rigore filologico delle ricette della nonna, e produce la xenofobia: “nel mio sangue e in quello di chi mi ha preceduto è scorso quel cibo, fatto di quegli ingredienti, di quelle precise dosi imponderabili alla mente straniera, e tu vuoi viziare quel sangue con i tuoi miscugli, con quei prodotti di terre lontane, quegli incroci improvvisati?”.
La Kultur si oppone alla riflessione logica, al pensiero retorico, al calcolo astratto, alla politica, alla società, all’universalità… In breve, a tutto ciò che pone l’uomo al di fuori della sua comunità e lo innalza oltre il legame con la propria terra (oltre il Blut und Boden). E tutto questo è, appunto, la Zivilisation.

«Tedesco vuol dire abisso», scriveva Thomas Mann, per il quale la Germania, aristocratica e musicale, era la patria della Kultur in contrapposizione alla Francia, simbolo democratico della Zivilisation, dei «moralisti da boulevard», degli «urlatori dei diritti dell’uomo». Anima contro società, libertà contro diritto di voto, arte contro letteratura: è in questo scontro che risiede l’origine spirituale della prima guerra mondiale. Abbiamo già accennato a cosa significa Kultur in cucina, vediamo cosa può significare il suo opposto. Zivilisation è approcciarsi al dolce da preparare in maniera scientifico-democratica, ossia ponendo tutti gli ingredienti – a prescindere dalla loro provenienza e dall’essere o meno di stagione – sullo stesso piano, tendendo a una continua sperimentazione, sfruttando le nuove tecnologie e privilegiando gli ibridi in nome di una cucina universale e senza confini.

Ma una simile mentalità non può portare che a un prodotto senz’anima, a un impasto anodino, a una crema astratta, a una gelatina apatica, insomma, a un dolce figlio di nessuno, insulso quanto un trattato sull’amore cosmico! D’altro canto un dolce all’insegna della Kultur fomenta l’odio, la chiusura, la ricerca infinita della purezza e, peggio di tutto, l’immobilità: la perfezione è già qui nella nostra comunità e ha radici in una lontana e passata Età dell’oro, a noi non resta che venerarla e riprodurla, senza accettare alcuna contaminazione.
Allora – per far sì che questo conflitto non sfoci in un’altra guerra mondiale – vi proponiamo il nostro Mein Bavarese, che riconcilia in sé l’inconciliabile. Il bavarese originario – maschile, anche se molti erroneamente lo vogliono femminile – nasce infatti da cuochi francesi alla corte del re di Baviera e, cosa ancora più emblematica, poggia su una base di crema inglese (chissà se lo sapeva Hitler quando si ingozzava dei bavaresi che gli preparava Eva Braun…).
Il Mein Bavarese va preparato col fervore e l’animo della propria Kultur, ma anche col piglio innovativo e multiculturale della Zivilisation. In essa l’ariano e puro cioccolato bianco s’incontra con quello straniero degenerato del kiwi.
Quando assaggerete il Mein Bavarese, non fatelo da soli. Vi accorgerete di come sappia riconciliare i conflitti spirituali – ben più violenti e dolorosi di quelli fisici – ed evitare che in cucina si arrivi a sparare all’arciduca Francesco Ferdinando.

Mein Bavarese, Aristortele - La chiave di SophiaMEIN BAVARESE AL KIWI DEGENERATO E CIOCCOLATO ARIANO

Persone: 10 monoporzioni
Tempo di preparazione: 30 min. + 6 ore in frigorifero

Ingredienti

250 ml di latte
90 g di tuorlo d’uovo
90 g di zucchero semolato
1 bacca di vaniglia
10 g di gelatina alimentare in fogli (per la versione vegetariana 3 g di Agar agar)
375 g di panna fresca
200 g di cioccolato bianco
4 kiwi maturi
zucchero a velo
granella di mandorle

Preparazione

Inizia preparando la crema inglese: appoggia la pipa e metti sul fuoco un pentolino con il latte; incidi longitudinalmente la bacca di vaniglia e immergila nel latte. In una boule frusta i tuorli con lo zucchero. Quando il latte sobbolle, stempera nel pentolino il composto di uova e zucchero. Mescolando continuamente (non frustare, sennò schiuma!) porta la crema inglese a 83° C – se non hai il termometro, prendi un po’ di crema con un cucchiaio, rovesciala e verifica se ne rimane un leggero velo sul cucchiaio. Speriamo tu non abbia macchiato la bombetta.

Ora è il turno della Kultur: taglia grezzamente, come un vero teutone, il cioccolato ariano. Ammorbidisci la gelatina in acqua fredda; quando è abbastanza molle, strizzala e inseriscila nella crema inglese ancora calda mescolando fino al suo completo scioglimento. Filtra la crema direttamente sul cioccolato caucasico e amalgama delicatamente finché il cioccolato non si sarà completamente sciolto. Metti a raffreddare. Nel frattempo semi-monta la panna (sii padrone della tua volontà di potenza: fermati quando la panna inizia a montarsi!). Quando il composto si è raffreddato e inizia a raddensarsi, aggiungici la panna mescolando dal basso verso l’alto per non far smontare il composto. Dividi il bavarese nelle monodosi e metti a raffreddare per almeno 6 ore.

Infine la Zivilisation: distogli gli occhi dalla Dichiarazione internazionale dei diritti della frutta, sbuccia e taglia i kiwi (“un solo mondo, una sola patria”) a cubetti. Crea la salsa frullandoli insieme a due cucchiai di banausico zucchero a velo.

Sforma le monoporzioni e decorale con la salsa ai kiwi e la granella di mandorle.

«La pasticceria non è mai un atto isolato», C. von Clausewitz.

Aristortele

Sito web qui

Bhegel

Di recente il mondo della filosofia è stato scosso dalla pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger. Gli intellettuali stavano ancora dibattendo sull’appoggio del filosofo al Nazismo e sul suo antisemitismo, quando un altro, inaspettato evento – un’altra relazione pericolosa – è arrivato a scuotere le accademie di tutto il mondo. Karl Nasestecker, dottorando in filosofia teoretica, ha ritrovato nel sottoscala della casa del giovane Hegel a Tubinga degli appunti raccolti sotto il titolo Das absolute Bagel.

Scritto tra il 1788 e il 1790, Das absolute Bagel – “Il Bagel Assoluto” – dimostra un fatto prima d’ora sconosciuto: Hegel aveva cercato la risoluzione del proprio sistema nella pasticceria. All’epoca l’austero mondo accademico respinse stizzito l’empito filosofico-dolciario del giovane filosofo direzionandolo verso lidi ben più oscuri e speculativi. La vergogna fece molto, ma, per fortuna, non abbastanza: Hegel nascose il testo, ma non lo distrusse. Il caso, o chi per lui, ha fatto sì che rimanesse intatto attraverso i secoli, permettendoci oggi di presentarvelo nella traduzione italiana.

Non storcete il naso se ci abbandoniamo all’entusiasmo davanti a questa scoperta: Hegel fondò la pasticceria filosofica. Sebbene il timido studente di Tubinga abbia lasciato in fretta questa strada, per diventare il filosofo che Friederich Förster, durante la sua orazione funebre, definì «la stella del sistema solare dello spirito del mondo», ora sappiamo che prima di tutto ciò fu “la stella polare della pasticceria filosofica”. Noi di Aristortele ringraziamo commossi.

DAS ABSOLUTE BAGEL di G. W. F. Hegel

Il bagel come superamento del dualismo kantiano: fenomeno-noumeno, io-mondo, soggetto-oggetto, ma, soprattutto, dolce-salato.
La forma del bagel come immagine della circolarità e infinità della realtà – nel Seicento veniva offerto in dono alle partorienti della comunità aschenazita polacca: forma ad anello = ciclo della vita […]
Il bagel puro in sé è quello inventato dalla religione ebraica. Puro pane salato, per il quale è impensabile l’avvicinamento con il dolce e con l’inconoscibile meraviglia che il dolce porta con sé. L’uomo è relegato alla sola dimensione terrena e salata.

Il momento di negazione del bagel puro avviene con il Cristianesimo, che vede nella dolcezza il principio unico delle cose. Il Cristianesimo nega l’inconoscibilità del dolce per il salato: il dolce è intuibile dall’uomo, ma è posto comunque in una sfera altra, inarrivabile per l’uomo stesso.

Il superamento (Aufhebung) avviene con l’idealismo del Bagel assoluto. Esso supera il divario fra dolce e salato – l’unità ritenuta impensabile – e rende il dolce conoscibile e reale, mantenendo l’in sé, il salato, ma rendendo il Bagel in sé e per sé, e dolce e salato.

La pasticceria risolve il sistema dello Spirito. Il sapere assoluto è il Bagel che si sa come Bagel.

«Soltanto
Dal forno di questo regno dei lievitati
cresce fino a lui la sua infinità».
(F. Schiller)

Piccola postilla: Hegel, per tutta la sua futura carriera, cercò di spiegare a parole il proprio sistema, parole che, non è un gran segreto, sono sempre state assai difficili da interpretare. La nostra ricetta del Bhegel assoluto ha l’intento di farvi afferrare il pensiero hegeliano senza, appunto, le parole, bensì attraverso le papille gustative. Ispirati dal suo saggio giovanile, abbiamo creato il dolce-salato che vi permetterà di comprendere attraverso il gusto la soluzione del sistema di Hegel e il superamento dell’imperante dualismo kantiano. Non riuscirete comunque a tradurre il termine Aufhebung, ma forse qualche parte di voi ne intuirà il significato.

BHEGEL ASSOLUTO ALLA BANANA E PREZZEMOLO

Persone: 12 apostoli del superamento;
Tempo di preparazione: idealisticamente 2 ore

Ingredienti:

Bhegel - La chiave di Sophiaper l’impasto:
250 gr farina forte
200 gr farina medio-forte
8 gr sale
12 gr lievito di birra
225 gr latte tiepido (max 30° c)
8 gr zucchero semolato
8 gr malto (o miele)
35 gr acqua tiepida (max 25° C)
50 gr uova
30 gr burro morbido
30 gr fecola di patate

per la farcitura:
200 gr panna fresca
20 gr prezzemolo fresco
1 banana
succo di limone

Preparazione:

Sciogliete nel latte tiepido il lievito di birra, lo zucchero e il malto (o il miele). Impastate le due farine con latte, lievito e zuccheri sciolti e le uova, fino a che il composto non risulti liscio ed elastico. Aggiungete quindi l’acqua tiepida in cui avrete sciolto il sale. Reimpastate fino a che i liquidi non vengano assorbiti e si ricrei un impasto elastico. Infine mettete il burro ammorbidito e continuate a impastare fino a che l’impasto non risulti completamenti liscio.
Lasciate lievitare nel forno spento per circa 30 minuti o comunque fino a che l’impasto non abbia raddoppiato il suo volume. Reimpastate quindi velocemente, togliendo l’aria che si sarà formata all’interno della massa e create delle sfere di circa 65 gr l’una. Cercate di rendere liscia ogni piccola sfera e bucatela al centro per creare la forma Assoluta della ciambella.
Riponete le ciambelle a lievitare, abbastanza distanziate fra loro, per circa 30 minuti nel forno spento su una teglia. Nel frattempo mettete a bollire in una pentola due litri d’acqua con la fecola di patate e un cucchiaio di malto (o miele). Al termine del tempo di lievitazione immergete ogni ciambella nell’acqua bollente per circa 10 secondi per lato, scolatela e mettetela sulla teglia con la carta forno.
Infornate per circa 25-30 minuti a 210°C, finché i Bhegel non risultino dorati in superficie.
Preparate il burro al prezzemolo: montate la panna con una frusta elettrica fino a che non sarà a neve ben ferma, a questo punto aggiungete il prezzemolo tritato e continuate a montare finché non si separi il grasso dalla parte liquida, chiamata latticello. Scolate bene il burro formatosi.
Una volta intiepiditi, tagliate a metà i Bhegel e farciteli con il burro e la banana precedentemente tagliata a rondelle e passata nel succo di limone.

L’avete intuito l’Assoluto?

Maddalena Borsato

Philosopher’s Scone

DULCIS HERMETICUM

In una mansarda di Rue Servandoni a Parigi, che fungeva fino agli inizi del Novecento da sala cerimoniale del Rito scozzese antico e accettato, nascosta all’interno di un’edizione ottocentesca della Sphynx mystagoga di Athanasius Kirchner, abbiamo trovato una prima edizione della rosacrociana Fama fraternitatis, al cui margine dell’ultima pagina, in antichi caratteri greci, era stata vergata a mano una formula dal titolo “Ricetta alchemica per Tuthmose III”. La formula consiste in una serie di ordini impartiti dal dio egizio Thot a un anonimo sacerdote-cuoco per la preparazione di un dolce in grado di risanare la corruzione della materia umana. Questo dolce, noto come Philosopher’s scone dagli adepti della United Grand Lodge of England, è stato lo scopo supremo della ricerca alchemica secentesca, panacea ai dolori dell’uomo, elisir di lunga vita, ipostasi ultima dei sussurri mistici degli dèi.
 Dopo un’accurata traduzione del testo greco abbiamo scelto di pubblicare in calce a questo articolo l’originario processo di produzione del Philopher’s scone. Invitto attraverso i secoli, testimone ultimo della ragnatela cosmica che connette le epoche dell’uomo, questo dolce vi porterà alla Verità.

philospher_scones_collage_aristortele_verticalOra, voi siete liberi di non credere a questa storia (forse non abbiamo ancora l’autorità necessaria per persuadervi).
 Fatevi pure forza della vostra ragione illuminata, denigrateci per aver confuso filosofia ed esoterismo, per aver cercato la verità negli intrichi oscuri dell’astrologia e della numerologia e non nei cieli tersi del logos e del buon senso. E dunque? Potete dirvi davvero liberi dalla fede? Liberi da qualsiasi narrazione che stabilisca un ordine superiore degli eventi? Una narrazione di cui non avete prove ma a cui non potete che dire sì?

Ecco perché, posto che è ingenuo credere di poter eliminare l’aspetto fideistico che permea le nostre esistenze, vi vogliamo consigliare, in un’epoca famosa per il silenzio degli dèi e per il prolificare dei loro surrogati, di abbandonarvi alla sicurezza della ritualità che fin dall’alba dei tempi gli esseri umani hanno utilizzato nella meticolosa preparazione dei dolci. Diventate sacerdoti della cucina, ricercate il perfetto equilibrio alchemico degli ingredienti con tutta la serietà e l’investimento di senso che una religione può darvi, fate della ricetta la parola degli antichi dèi, cullatevi nella sua autorità, abbiate fede nel dolce definitivo, perché “comprendere è credere, non credere è non comprendere” (trattato IX, Corpus Hermeticum). Insomma, siate consapevoli che la verità non si raggiunge mai con la sola ragione, ma fatelo almeno nell’unica chiesa che non vi deluderà mai, la pasticceria.

PHILOSOPHER’S SCONES

τὸ ἀρχικον πρόσταγμα
Seguaci: 8
Tempo di preparazione: 4 clessidre da 15 minuti

300 gr farina
70 gr zucchero
20 gr lievito chimico
70 gr burro
1 uovo
80 ml latte
50 gr mirtilli freschi
per farcire: burro e marmellata di Ananassimandro

Segui con assoluta precisione la maniera esatta che ti indicherò e non sbaglierai.

Raccogli in un recipiente capace le polveri che ti ho in elenco menzionato, avendo cura di lasciare da parte 100 gr della quantità di farina totale. 
Aggiungi a esse la sostanza grassa (burro) ridotta in piccoli pezzi e mescola con l’apposito strumento in legno.
 A parte mesci insieme l’uovo e il latte e riponi in un alambicco. Aggiungi nel recipiente tale sostanza poco per volta, incorporandola alle polveri. Infine, aggiungi la restante farina e i frutti del sottobosco.
 Forma una sfera perfetta. Riponi a raffreddare. Trascorso il tempo solare di 6 ore, stendi il composto, crea dei dischi perfettamente identici e poni nell’Athanor alla temperatura esatta di 180° per 17 minuti.
 Lascia nuovamente raffreddare. Taglia a metà in senso orizzontale i dischi rigonfi ottenuti, farcisci con burro e marmellata di Ananassimandro utilizzando la spatola apposita e disponi sull’altare per il rito conclusivo.

LE MONT(AIGNE) BLANC

Nel suo Le massif du Mont Blanc l’architetto francese Viollet-le-Duc propose un progetto alquanto singolare: riportare il Monte Bianco alla sua grandiosità primordiale, vale a dire “ristrutturarlo”. Immaginate la vastità di un’opera simile: migliaia di operai impegnati tra i ghiacci a rimodellare la natura, a combattere il tempo ripristinando quello che i millenni hanno rimosso.

Il proposito di costruire una montagna, o anche solo di “aggiustarne” una, trova molti corrispettivi nella filosofia. Servono certamente molti meno operai nel caso delle costruzioni filosofiche, ma in quanto a complessità e ambizione (e aggiungiamoci anche fattibilità) molte di queste non hanno nulla da invidiare al progetto di Viollet-le-Duc.

Oggi, tuttavia, ci terremo distanti da ogni impresa pomposa, tanto dagli schemi che vogliono inquadrare il mondo quanto da quelli che lo vogliono determinare. Oggi non faremo della cucina un cantiere di opere immortali e men che meno sfideremo la fisica per raggiungere vette di panna inusitate. Oggi, ciononostante, faticheremo, sia fisicamente che mentalmente, perché una montagna ci attende comunque. Davanti a noi c’è la più impervia delle scalate, ma la meno appariscente. Quella che sale lungo il crinale di noi stessi.

Entriamo in cucina e «presentiamo noi a noi stessi, come argomento e soggetto» (Montaigne, Saggi, Libro II, VIII), perché noi stessi saremo la materia di questo dolce. Non affronteremo sistemi astratti, sillogismi astrusi, complesse guarnizioni o cotture ardite. Ci spetterà, con umiltà e onestà, senza affettazione né artificio, di indagarci.

Ci troveremo stanchi e soli, chini a spellare una catasta di castagne, e non ci sarà nessun metodo a guidarci. Allora dovremo armarci di pazienza ed essere pronti a tornare costantemente «al dubbio e all’incertezza e alla [nostra] forma dominante che è l’ignoranza» (Libro I, L). Ma soprattutto non dovremo preoccuparci di quanto maestoso e impeccabile sarà il risultato finale. Quelli che sforneremo dopo ore di dura fatica saranno piccoli promontori scomposti, non troppo belli, forse brutti, che rappresenteranno, però, sinceri innalzamenti verso la comprensione di noi stessi. Ogni tanto, all’ennesima castagna, subentrerà lo sconforto e ci capiterà di dire: «non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per l’indagine del mio giudizio» (Libro I, X), ma senza quel desiderio di investigarci, di entrare in colloquio con noi stessi, ci potrà capitare solo di perderci del tutto.

Se infine ci sembrerà, facendo tutto questo, di far tutt’altro che filosofia, se ci diremo che i grandi pensieri coinvolgono ben altri temi, che la filosofia è seria e precisa (e così la pasticceria), allora ricordatevi che la filosofia «si ha gran torto a descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno e terribile […] Non c’è nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone. Essa non predica che festa e buon tempo. Una cera triste e sconsolata dimostra che la sua dimora non è qui» (Libro I, XXVI).

La gloria del bel dolce e il complimento per il virtuosismo oggi non fanno per noi. È l’impegno quotidiano – la lenta cura per la nostra virtù – il vero Mont Blanc che oggi cominciamo a cucinare scalare.

montaigne-blanc_aristorteleLE MONT(AIGNE) BLANC

Persone: tutti gli alpinisti interiori
Tempo di preparazione: prendetevelo un pomeriggio

Ingredienti

500 gr castagne o marroni
400 gr latte
80 gr zucchero semolato
3 gr sale
15 gr cacao
40 ml Rum o Whisky
500 gr panna fresca
violette candite e meringhette

PREPARAZIONE (lenta e faticosa)

La montagna che ci attende si costruisce a partire dalla più gran fatica, ma superata questa, ogni passo in salita sarà più semplice del precedente. Mettiamo le castagne lavate ed incise con un coltellino a bollire per circa 20 minuti. Una volta morbide, iniziamo a spellarle una a una, lasciando le altre nell’acqua calda in modo da non rendere la nostra impresa ancora più impervia. Se superiamo questo momento duro, poi possiamo rilassarci per circa 15 minuti: mettiamo le castagne spellate in un pentolino con il latte, lo zucchero e il sale. Lasciamo ammorbidire fino a che il composto non risulterà uniforme. Spostiamo in una boule e aggiungiamo il cacao setacciato e il liquore scelto. Mescoliamo con vigore e facciamo riposare la pasta di castagne in frigorifero coperta da una pellicola fino a che non si sarà raffreddata e rassodata.
Trascorso il tempo di riposo, riprendiamo il cammino alla scoperta di noi stessi: con uno schiacciapatate creiamo degli spaghetti di pasta di marroni e stendiamoli su un piatto. Quando pensiamo di averne fatti abbastanza, riponiamo di nuovo in frigorifero. Nel frattempo montiamo la panna (se vogliamo con 20 gr di zucchero) e con un sac-à-poche creiamo al centro del piattino scelto per il dolce una montagna innevata, alta tanto quanto pensiamo di meritarla. Possiamo anche sbriciolare delle meringhe sotto e sopra la nostra piccola vetta di panna, possiamo anche innalzare la nostra cima su una piccola base di frolla già cotta: ognuno è artefice del proprio destino. Fatto ciò, riprendiamo i nostri spaghetti e ricopriamo la montagna nel modo migliore: sarà sempre e comunque difficile e il risultato decisamente poco attraente. Decoriamo con un ciuffetto di panna e delle violette candite. Non ci facciamo i complimenti, ma affondiamo il cucchiaio nel nostro impegnativo sforzo di comprensione di noi stessi.

Aristortele

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IL SEMI-FREUD PECCAMINOSO

IL SOGNO

Sul tavolo davanti a voi risplende il disco di un semifreddo appena estratto dal congelatore. Imponente, solido (ma solo fino a quando non lo scioglieranno le vostre labbra), sormontato da una spiaggia di pistacchi, il semifreddo guida le vostre mani verso di sé. Il cucchiaino sta già per affondare il primo colpo quando alla vostra destra deflagra una luce accecante. Vi bloccate a bocca aperta mentre dal centro della luce cominciano a delinearsi i lineamenti di un uomo imbolsito, cinto da una cocolla nera, che, senza muovere alcunché se non le pupille, vi indica qualcosa sopra la sua spalla destra. Solo allora vi accorgete che nell’aria è sospesa una donna nuda intenta ad afferrare una mela da un albero spuntato or ora nella vostra cucina. Con un colpo di gola l’uomo richiama la vostra attenzione su un’altra scena che sta prendendo forma alla sua sinistra: una massa indistinguibile di uomini immersi nel fango viene vessata dalla grandine e dai latrati di Cerbero.

Spaventati da cotante apparizioni allontanate il cucchiaino dal semifreddo ed è a quel punto che l’uomo imbolsito comincia a sussurrare con voce severa: «Il peccato di gola non consiste nella materialità del cibo, ma nella brama di esso non regolata dalla ragione.» “Quale ragione?” vi chiedete disorientati ripensando alla totale istintività con la quale avete spalancato il congelatore. L’uomo prosegue come se volesse rassicurarvi: «Alla gola va attribuito invece soltanto questo, che uno ecceda nel mangiare per la brama di un cibo gradevole». “Eccesso?” vi domandate sempre più confusi, “Una fetta di semifreddo è sufficiente per raggiungere l’eccesso?” “No,” vi rispondete facendovi coraggio, “Una fetta andrà benissimo!”

Tornate a muovere il cucchiaino, ma avete perso la spensieratezza iniziale, sembra che qualcosa vi rallenti. Di colpo il casco di banane alla vostra sinistra comincia ad allungarsi e a prendere le sembianze di un signore pelato, con la barbetta bianca e due occhialini rotondi. Vi guarda in silenzio, il signore, come a dirvi “Perché lo fate? Perché lo fate davvero?” Balbettate tentando di motivare il vostro gesto, ma ecco che lui, dopo aver fatto un tiro di sigaro, emette una nuvola di fumo e dalla nuvola emerge un’immagine di voi da piccoli, immersi in una bacinella, con accanto vostra madre che vi insapona completamente nuda. Prima di scomparire il signore pronuncia soltanto due parole: «State sublimando».

Sebbene non vi sentiate più padroni delle vostre azioni e non vi muoviate per paura di deludere vostro padre, con un ultimo gesto di menefreghismo riavvicinate il cucchiaio al semifreddo. Ed è allora che davanti a voi, in piedi sul tavolo, compare una bionda muscolosa con indosso un body anni ’90 e degli scaldamuscoli. «Su le gambe!» vi urla con un forte accento americano, mentre sopra alla sua chioma si susseguono apparizioni di obesi che spingono il carrello della spesa tra le risa dei passanti.

A questo punto lasciate cadere il cucchiaino e vi accorgete che il semifreddo davanti a voi si è sciolto e non ne rimane che un pozza confusa su cui galleggiano degli scogli di pistacchio.

L’ANALISI DEL SOGNO

Quando, preparato il nostro semi-Freud, vi troverete a tu per tu con una simile trinità di peccato di gola/sublimazione inconscia/bomba calorica, ricordatevi che, almeno per questa volta, non dovete rendere conto a nessuno del vostro agire, né al Dio che vi può punire, né alle ombre della vostra infanzia nascoste nella profondità dell’Es, né al vostro io futuro ossessionato dal giudizio altrui.

Non siete in dovere verso niente.

Respirate a pieni polmoni e prendete il nostro semi-Freud come un inno alla più bella caratteristica della vita: la gratuità.

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Persone: 6

Tempo di preparazione: 40 minuti più una notte in congelatore

Difficoltà: media

INGREDIENTI

130 g zucchero semolato

36 g acqua

160 g tuorlo d’uovo

40 g pasta di pistacchio

60 g cioccolato fondente

400 g panna fresca

q.b. granella di pistacchio

PREPARAZIONE

Semi-montate la panna e riponetela in frigo. Mettete in un pentolino sul fuoco metà dell’acqua e metà dello zucchero e lasciate che si formi una specie di sciroppo (zucchero cotto): dovreste arrivare alla temperatura di 121° C. Nel frattempo iniziate a montare i tuorli con le fruste elettriche. Quando lo sciroppo sarà molto caldo, versatelo con molta attenzione nei tuorli che stanno montando e continuate con le fruste fino a che il composto non si raffreddi leggermente e diventi bianco opaco e spumoso (pate à bombe). A questo punto aggiungete con delicatezza la pasta di pistacchio fino a ottenere un composto liscio.

É ora di tirare fuori la panna dal frigo e amalgamarne metà nel composto, sempre mescolando dall’altro verso il basso per non far smontare il tutto.  Versate quindi il composto al pistacchio sulla tortiera scelta fino a circa metà della sua altezza e, se volete, cospargete con un po’ di granella di pistacchio la superficie. Riponete in frigorifero.

Ora ripetete la serie di operazioni precedenti per la parte al cioccolato: cuocete l’altra metà di acqua e zucchero fino a raggiungere i 121° C. Montate i tuorli e versate a filo lo zucchero cotto fino a ottenere la pate à bombe. Aggiungete il cioccolato fondente precedentemente fuso a bagnomaria e tiepido. Amalgamate l’altra metà della panna al composto. 

Infine versate il secondo composto nella tortiera, livellatelo nella parte superiore e infilatelo in congelatore per una notte.

Sformate il semifreddo su un piatto, decorate con la granella di pistacchi e servite da congelato.

Sdraiatevi sul lettino e gustate senza rimpianti.

Aristortele

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[Immagini di proprietà di Aristortele]

Non diciamo cassate

1872, una sala del British Museum. Un uomo in preda all’euforia si spoglia tra le facce attonite dei presenti.
Quell’uomo si chiama George Smith, lavora in una stamperia di Londra ma trascorre ogni pausa pranzo al museo; è un grande appassionato della civiltà assira e possiede un particolare talento per la decifrazione della scrittura cuneiforme. Da un po’ di tempo tutte le sue attenzioni sono state rivolte a una tavoletta d’argilla proveniente da Ninive, nell’odierno Iraq, e grande poco più di una cartolina. A spingere Smith a spogliarsi è stata la gioia di averne finalmente tradotto il contenuto.
«Abbatti la tua casa, ti dico, costruisci una nave,» recita un rigo della tavoletta. «Ecco le misure del battello, così come lo costruirai: che la sua larghezza sia pari alla lunghezza, che il suo ponte abbia un tetto come la volta che copre l’abisso; conduci quindi nella nave il seme di tutte le creature viventi.» Il racconto procede, ma pensiamo che abbiate già intuito quale sia il motivo per cui questa nave debba essere costruita: la tavoletta descrive l’episodio del Diluvio universale. La cosa interessante è che, risalendo al 700 a.C., lo fa con quattro secoli di anticipo rispetto alla più antica versione della narrazione biblica. Anzi, Smith scoprì che la tavoletta era la copia di un capitolo di un poema epico babilonese – il primo, per quanto ne sappiamo, della storia dell’umanità: L’epopea di Gilgameš – e che dunque gli anni d’anticipo diventavano più di un migliaio. In sostanza dimostrò che il famoso episodio di Noè era la rielaborazione ebraica di un mito comune a tutta l’area mesopotamica.
Che c’entra tutto questo con i dolci? Noi vi rispondiamo sibillinamente chiedendovi: perché si festeggia il Natale il 25 dicembre? Si dà il caso che i festeggiamenti per la nascita di Cristo, il cui giorno non è mai specificato nei Vangeli, si siano sovrapposti nel corso del terzo e quarto secolo d.C. ai festeggiamenti pagani in onore di un’altra (ri)nascita, quella del sole: la festa del Sol Invictus si celebrava tre/quattro giorni dopo il solstizio d’inverno, vale a dire quando il sole, dopo un apparente stallo nel cielo, riprende la sua corsa e le giornate tornano ad allungarsi.
Ora che abbiamo sorvolato due capisaldi della cristianità pescati dal bacino del paganesimo arriviamo finalmente al nostro dolce: la cassata. Nella Magna Grecia, per la sua forma sferica, era associata al culto solare; in tempi più recenti, tuttavia, è diventata il dolce tipico della Pasqua siciliana, «perché,» come scrive Salvatore Farina, «quel dolce, rotondo come il sole, ricordava il suo tramonto e risorgere, così come ogni anno ci ricorda la passione, morte e risurrezione del Cristo» [tratto da S. Farina, Dolcezze di Sicilia, Ed. Lussografica 2003, p. 54].

Questo percorso tortuoso è per dirvi che la nostra cassata sarà per voi l’occasione per ripensare i simboli che ci circondano. Non dimentichiamo che oltre al fumo che, erigendosi a verità, avvolge gli oggetti del nostro presente, si nasconde un intrico di vicende umane, una catena contorta di significati che lega tra loro generazioni e culture e fa di quegli oggetti dei testimoni di civiltà. Perciò vi invitiamo, come fece il nostro George Smith, a spogliarvi: spogliatevi travolti dall’euforia di aver scoperto in un oggetto, in un gesto, in una parola, il guizzo di un passato semi sepolto e che solo grazie a voi è sopravvissuto alla tirannia del presente.
Riscoprite, preparando la nostra cassata, la sua forma solare e così facendo celebrate a modo vostro il lento tramonto del sole, nel momento in cui, passato il solstizio d’estate, le giornate tornano impercettibilmente ad accorciarsi. Assaporate, nel mangiarla, la dolcissima stratificazione dei simboli e affondate i denti nello spessore morbido dei suoi significati. Vi accorgerete che è proprio in quello spessore che ogni oggetto nasconde il suo sapore.

 

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LA CASSATA AL FORNO

Persone: 8
Tempo di preparazione: 40 minuti
Difficoltà: media

INGREDIENTI

Per la pasta frolla:
• 250 gr farina debole
• 125 gr burro morbido
• 100 gr zucchero semolato
• 20 gr tuorlo d’uovo
• 1 uovo intero
• 2 gr lievito per dolci
• 1 pizzico di sale
• Aromi (vaniglia, scorza di limone, scorza d’arancia)

Per la farcitura:
• 600 gr ricotta di pecora
• 200 gr zucchero semolato
• 70 gr gocce di cioccolato fondente
• 1 uovo
• 100 gr pan di Spagna

PREPARAZIONE

All’ora del crepuscolo, facciamo la pasta frolla: amalgamiamo velocemente il burro con lo zucchero; aggiungiamo tuorli e uovo un po’ alla volta facendoli assorbire delicatamente; incorporiamo nel composto gli ingredienti secchi, ossia farina, lievito, sale e aromi. Creiamo una sfera e mettiamo a riposare in frigo per un’ora; per infondervi un’eco siciliana, l’abbiamo arricchita aromaticamente con la scorza grattugiata di un limone e di un’arancia.
Quando la pasta frolla si sarà debitamente raffreddata, rilavoriamola e stendiamone metà all’altezza di circa 2,5 cm sulla tortiera solare; lasciamo che cali la notte facendola riposare in frigorifero e intanto prepariamo la ricotta.
Ammorbidiamo la ricotta utilizzando il passaverdure. Amalgamiamo lo zucchero e le gocce di cioccolato a essa, mescolando bene. Versiamo in maniera uniforme metà della farcitura sulla nostra pasta frolla. Foderiamo questo primo strato con uno strato di pan di Spagna non troppo spesso. Versiamo su esso la restante ricotta. Stendiamo la pasta frolla rimanente e ricopriamo la nostra cassata. Manca poco: indossiamo la tonaca da sacerdote di Eliogabalo.
Spruzziamo o spennelliamo la torta con un ultimo strato simbolico di uovo sbattuto. Incidiamo con tre sapienti tagli poco profondi la cassata e inforniamo a 180 °C per circa 15-20 minuti. Mettiamo una sedia davanti al forno e godiamoci l’alba.
Infine, copriamo il sole con la neve: una volta sfornata, aspettiamo che raffreddi, quindi rovesciamola e cospargiamola di zucchero a velo.

Aristortele

Sito web: qui

 

Kantucci – Critica della Pasticceria Pura

Giudizio del Kantuccio analitico a priori.

Osservate il cantuccio appena uscito dal forno. Anzi no. Non osservatelo, non annusatelo, men che meno assaggiatelo. Non fate nulla che implichi i cinque sensi. Ancor di più: mettete da parte tutto ciò che avete mai esperito di un cantuccio.
Fatto? Bene. Cosa sapete di lui?
Il nome, innanzitutto. Si chiama cantuccio, dal latino cantellus, pezzo o fetta di pane, e questo ci dice che sicuramente il cantuccio sarà una parte, non un intero. Non conosciamo la sua grandezza né i suoi contorni, ma sappiamo che non avrà una forma intatta. Sarà la parte di un qualcosa che prima era unito. Che le cose stanno così è già contenuto nel nome: il cantuccio è in pezzi, ribadirlo è solo spiegare qualcosa che era già nel soggetto stesso (un po’ come spiegare a qualcuno che gli scapoli non hanno moglie).
Proseguiamo.
Avete notato? Per quanto ci sforziamo di pensare al cantuccio mettendo a tacere l’esperienza, non riusciamo a rinunciare a due cose: spazio e tempo. Non riusciamo a figurarci nulla che non sia in uno spazio o in un tempo, perché tutta l’esperienza esterna è possibile solo a partire da queste due rappresentazioni, e non viceversa. Spazio e tempo sono perciò intuizioni a priori, e quando diciamo di qualcosa che è a priori intendiamo che è necessario e universale, assolutamente indipendente da qualunque esperienza.
Considerate adesso il tempo e lo spazio di una cena. Il tempo è quello durante il quale restate seduti a tavola, lo spazio è il vostro stomaco. Per quanto pesante e lungo sia stato il pasto, ci saranno sempre alcuni minuti finali da dedicare al cantuccio e sempre nel vostro stomaco ci sarà un angolo per loro (un cantuccio appunto, altro illuminante disvelamento analitico). Quel tempo e quello spazio sono le condizioni necessarie per l’esistenza dei cantucci, e non viceversa. Spazio e tempo postprandiali determinano a priori la nostra ricetta di oggi.
Insomma, prima di aprire la porta all’esperienza, questo è quello che sappiamo: il cantuccio è un dolce in pezzi da mangiare al termine della cena.

Giudizio del Kantuccio sintetico a posteriori.

Osservate finalmente il cantuccio. Avremmo potuto farlo blu, ma così non è stato. E’ marroncino chiaro, come i mille altri cantucci che avete già mangiato (ora che potete di nuovo accedere all’esperienza, non lesinate coi ricordi!). Ma per il resto, come sarà? Come potete dire qualcosa di nuovo su di lui, aggiungere qualcosa alla vostra conoscenza iniziale? Assaggiandolo, naturalmente.
Lo avete fatto? Nulla di ciò che era contenuto nel termine cantuccio poteva farvi pensare che ci fossero tra gli ingredienti estratto di rosa e il peperoncino. Ora, a posteriori, mentre sentite il retrogusto pungente abbandonarvi, lo sapete. Ecco che avete compiuto un lavoro di sintesi, avete scoperto qualcosa che stava al di fuori della vostra idea di partenza, e lo avete fatto attraverso l’esperienza.

Giudizio del Kantuccio sintetico a priori.kantuccio-collage_OK_2

6+7=13, giusto? Ma il 13 non è contenuto né nel 6 né nel 7, dunque trovando il risultato abbiamo scoperto qualcosa di nuovo, che stava al di fuori di quei due numeri (abbiamo fatto un lavoro di sintesi). Eppure, che 6 più 7 sia uguale a 13 è necessario e universale (a priori): non può essere che qualche volta risulti 13, qualche volta 18, né che per qualcuno l’operazione dia qualcosa di diverso da 13.
Quello che avviene con il calcolo matematico avviene anche con il calcolo culinario. Cantuccio+vinsanto=lamortesua, vale a dire che l’apoteosi non è contenuta né nel cantuccio né nel vin santo, ma è qualcosa che si raggiunge solo abbinandoli. Al contempo, il piacere sopraffino del loro accordo è inevitabile e non si può dare il cantuccio senza il vinsanto: come per ogni a priori che si rispetti, il vinsanto si accompagna al cantuccio necessariamente e universalmente, e necessariamente e universalmente questo porterà a “lamortesua”. Trovate voi una buon’anima che si sgranocchi il cantuccio da solo, così com’è, nella sua assoluta secchezza!

Conclusione

Ora non vi resta che godervi i nostri Kantucci ed esperire con calma ciò che a priori non si può determinare, ossia il sublime (mai aggettivo fu più azzeccato) incontro tra la mandorla classica e l’aroma di rose e peperoncino. Tuttavia non ci piace accomiatarci da voi pervasi da quest’aura di rigore. Perciò vi invitiamo a un piccolo atto di sabotaggio, un innocuo gesto di libertà: a fine pasto provate a incrinare lo sposalizio con il Vin santo immergendo il Kantuccio nel Torcolato di Breganze.
SAPORE AUDE!kantucci-artistortele

KANTUCCI SINTETICI A PRIORI

Persone: 4
Tempo di preparazione: 20 minuti + ca. 20 minuti in forno

INGREDIENTI

90 gr burro
180 gr zucchero semolato
100 gr uova
3 gr lievito per dolci
5 gr sale
250 gr farina debole
80 gr mandorle sgusciate e a pezzi
10 gr estratto di rose
peperoncino q.b.

PREPARAZIONE

Siate metodici. Iniziate sempre a cucinare alle ore 17:00.

Amalgamate il burro precedentemente ammorbidito con lo zucchero, cercando di non montare l’impasto. Aggiungete le uova e l’estratto di rosa. Setacciate insieme farina, lievito e sale e incorporate delicatamente all’impasto. Infine versatevi le mandorle a pezzi e il peperoncino (nella quantità che preferite, ma senza esagerare).

Con l’aiuto di un sac-à-poche senza bocchetta, create con l’impasto sulla carta da forno due o tre filoncini (la scelta dipende da quanto desiderate vengano grandi i vostri Kantucci) ben distanziati fra loro.
Cuoceteli in forno preriscaldato a 180° C per circa 12-14 minuti. Quando iniziano a essere dorati e compatti, toglieteli dal forno e lasciateli raffreddare per circa cinque minuti.

Tagliate i filoncini in diagonale con un coltello a sega, in modo da ottenere biscotti di 1,5 cm di spessore. Disponete i biscotti ottenuti girandoli lateralmente sulla teglia: lasciateli tostare a 210° C per circa 5 minuti (se ne avete la possibilità usate la funzionalità Grill del vostro forno).

Lasciateli raffreddare fino a fine cena, preparate il Torcolato e godetevi la pace perpetua.

Aristortele

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