Imparare: alcune riflessioni, da un pensiero di Nietzsche

Credo non accada molto spesso di dedicarsi alla lettura di un libro accorgendosi, anche un po’ per caso, di possedere come lettrice o lettore la stessa età anagrafica dell’autore o dell’autrice nel periodo di stesura per quello specifico scritto. A me è capitato, qualche tempo fa, con Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è di Friedrich Nietzsche composto nel 1888.
La consapevolezza di quella inusuale oltre che casuale coincidenza d’età, tra chi scrive e chi legge, trasformò la mia lettura in una sorta di confronto immaginario con un coetaneo d’eccezione. Sicché, mentre procedevo nel racconto della sua autobiografia, mi pareva quasi che i pensieri espressi dal filosofo Nietzsche superassero la normale relatività della sua prospettiva culturale e del suo contesto storico e giungessero fino a me, nel XXI secolo, carichi di un senso e di un significato immune dalla parzialità a cui solitamente li costringe il tempo. E tra questi suoi pensieri autentici, perché profondamente sentiti e sinceri, ve n’è uno su cui vorrei soffermarmi e condividere alcune riflessioni.

 Scrive Nietzsche nel suo capitolo intitolato “Perché scrivo libri così buoni”:

«In definitiva, nessuno può trarre dalle cose, libri compresi, altro che quello che già sa. Chi non ha accesso per esperienza a certe cose, non ha neppure orecchie per udirle» (F. Nietzsche, Ecce Homo, 1991).

Con queste due brevi e risolute asserzioni, Nietzsche offre l’occasione alle sue lettrici e ai suoi lettori di riflettere più attentamente sulle caratteristiche del nostro modo di imparare. Egli infatti, in queste poche righe, allude a una immagine del conoscere interattiva e selettiva dove la persona che impara non subisce passivamente e indistintamente tutto quello che gli viene proposto; questo perché, nella dinamica del suo apprendimento, la persona chiama in causa quello che già sa o quello di cui ha già avuto esperienza. Potremmo dire che, in effetti, chi impara non si trova mai propriamente nella condizione concreta di una tabula rasa pronta e disponibile a colmare meccanicamente le sue lacune conoscitive, ma che è sempre la singolarità della sua persona a esserne coinvolta.

Possiamo ora appuntare due ulteriori riflessioni molto importanti per la comprensione del nostro modo di imparare.

La prima, che ha il valore di una semplice constatazione, riguarda la nostra capacità deduttiva che, diversamente da come si è soliti pensare, non si presenta come una abilità automaticamente espansiva bensì personalmente selettiva. Se infatti proviamo a riflettere sulle nostre deduzioni possiamo osservare come esse non nascano semplicemente dalla lettura o studio di un testo. Se fosse veramente così, l’uguaglianza delle nostre letture e dei nostri studi determinerebbe da sola anche l’uguaglianza delle nostre riflessioni. Ma, nella realtà, possiamo riscontrare che non avanziamo mai nel nostro apprendimento in modo tra di noi uniforme proprio perché le nostre deduzioni, le quali caratterizzano la nostra personale crescita conoscitiva, non si trovano inscritte a priori, una volta e per sempre, nel sapere trasmesso dai testi. Quando impariamo noi non rendiamo esplicite deduzioni di per sé implicite, bensì la singolarità del nostro patrimonio conoscitivo e delle nostre esperienze di vita veicola una selezione, più o meno consapevole, tra la disponibilità e la varietà logica dei nostri pensieri.

La seconda – che può dare avvio a una pratica, ora, poco diffusa – riguarda la nostra capacità di comprensione che, diversamente da quanto si è soliti porre attenzione, può svilupparsi al crescere delle nostre esperienze di vita, e per questo migliorare con l’aumento graduale dell’età. Infatti, gli avvenimenti della nostra vita conducono a un ventaglio interiore che può predisporci a un ascolto più partecipato, e quindi a una comprensione più ampia e sfaccettata. Di conseguenza, accostarsi in età matura ai pensatori e alle pensatrici della nostra storia culturale non può che essere benefico per la nostra consapevolezza interiore, perché la gamma dei nostri vissuti agisce un attrito in grado di generare lo sdoppiamento empatico dell’immaginazione.

Detto questo, solo una piccola avvertenza sul carattere del nostro bagaglio conoscitivo ed esperienziale che, in quanto perno e motore del nostro apprendimento, potrebbe condurci a liquidare troppo in fretta quelle letture che, in un dato momento, ci risultano troppo lontane e poco familiari. In questi casi, è bene pazientare e cercare qualcosa che ci aiuti ad attutire la distanza perché ogni grande pensatore e pensatrice ha qualcosa di profondo da dirci. Capire questo qualcosa significa scoprirne l’umanità che è, insieme, la loro ma sempre anche la nostra.

Anna Castagna

[Photo credit Kimberly Farmer via Unsplash]

banner-riviste-2023-aprile

A lezione di libertà con il film “Mona Lisa Smile”

Nella pellicola cinematografica Mona Lisa Smile del 2003 si racconta la storia di una docente di Storia dell’Arte che, giungendo dalla California nel Massachusetts, inizia a insegnare presso l’istituto femminile Wellesley College. Qui, fin dalla prima lezione, l’insegnante Katherine Ann Watson (Julia Roberts) si accorge dell’ottima preparazione nozionistica delle sue allieve. Colta un po’ alla sprovvista dalla dinamica della lezione, che si conclude con la decisione delle allieve di proseguire nello studio per proprio conto, escogita una diversa strategia formativa alla seconda lezione. Questo perché l’obiettivo educativo fondamentale della docente sembra essere quello di voler insegnare alle ragazze a ragionare con la propria testa.
Ma questo ambizioso proposito che cosa davvero significa? In fondo, è veramente possibile insegnare a ragionare liberamente? E se sì come? 

Iniziamo con il cercare di rispondere alla prima domanda e al riguardo, notiamo subito che molte conversazioni del film ruotano intorno al tema dell’Arte che possiamo considerare, in un duplice senso, occasione ed eccellenza dell’espressività umana. L’opera artistica, infatti, rappresenta non soltanto la testimonianza della singolarità dell’artista, ma offre anche a chi la osserva la possibilità di rintracciare, rispetto all’opera, il proprio personale sentire. Cosicché la disciplina dell’Arte può rappresentare una perfetta opportunità didattica per una lezione sulla libertà espressiva attraverso l’unicità di chi esegue e di chi osserva l’opera artistica. Non a caso, l’insegnante Katherine sollecita più volte le sue allieve a esprimere una propria opinione intorno a un dipinto e a soffermarsi a riflettere per poter esplicitare a parole il proprio pensiero, il proprio sentire. Ciò sembra quindi suggerirci che il ragionare con la propria testa significhi mostrare di saper riconoscere ed esprimere ad altri l’autenticità del proprio sentimento e della propria sensibilità.

Passiamo ora al secondo quesito che ci invita a riflettere sull’apparente paradosso della pretesa pedagogica di Katherine ben espresso dal docente di Italiano Bill Dunbar (Dominic West). Nella scena del film che sancisce la rottura della loro relazione, Bill, infatti, con aspra franchezza, le dice: Tu non sei venuta qui per aiutare le persone a trovare la propria strada, ma per aiutare le persone a trovare la tua strada!” 

Katherine non è sposata, è economicamente indipendente e nell’America degli anni Cinquanta, che vede nel matrimonio la piena realizzazione della donna, Katherine rappresenta l’opposto del modello femminile tradizionale. L’accusa di Bill allude quindi al rischio di Katherine di imporre alle ragazze il suo stile di vita, confondendo il suo obiettivo educativo alla libertà con l’aspettativa di essere da loro emulata.
In realtà, la vicenda dell’allieva Joan (Julia Stiles), che sceglie di sposarsi e rinunciare agli studi universitari, ci suggerisce che Katherine ha sì indirizzato Joan al modello femminile dell’auto-realizzazione professionale, aiutandola per esempio nella compilazione della domanda universitaria, ma che sembra anche essere riuscita, in qualche modo, a far emergere nella giovane studentessa la fermezza della sua personale decisione.

A questo punto, allora, possiamo considerare il terzo quesito che ci spinge a riflettere su come sia possibile insegnare a ragionare liberamente. In questo caso è la vicenda di una altra alunna a suggerirci una possibile risposta. Betty (Kirsten Dunst), che rappresenta l’aspirazione femminile al matrimonio, tradita dal marito, finirà per chiedere il divorzio, rifiutandosi di fingere una felicità d’apparenza così come le viene invece indicato dalla madre. L’atteggiamento di Betty, quindi, si capovolge nel corso del film: da sostenitrice imperterrita della tradizione culturale a donna che riesce a dare legittimità al suo sentire senza avvertire la necessità di una approvazione che non sia esattamente la sua. In questo cambiamento interiore Betty riconosce l’importanza della testimonianza della sua insegnante Katherine, dedicandole l’ultimo suo articolo al Wellesley College. Katherine, quindi, è riuscita a far maturare in Betty la consapevolezza di sé stessa; e lo ha fatto, non attraverso uno scontro diretto con lei, ma attraverso l’argomentazione in aula della sua profonda delusione per il fraintendimento del suo insegnamento, accusato di sovvertire il ruolo naturale delle donne. 

Tutto questo ci predispone a comprendere il valore pedagogico di una autentica testimonianza di libertà di pensiero e di vita. Testimonianza che ha il duplice scopo di rafforzare in noi ciò che vi è di simile e, parimenti, di sfidare ciò che, al contrario, ne è diverso. Insegnare a ragionare con la propria testa significa, allora, distendere la trama del possibile. Imparare a farlo vuol dire, per questo, avvertire vibrare i propri confini. La libertà è l’elasticità del nostro dettaglio che scopre la singolarità del suo slancio attraverso l’unicità delle piccole e grandi opere del mondo.

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film]

banner-riviste-2023

Sull’importanza dello studio come nostra attività quotidiana

C’è un brevissimo scambio di battute nel film “Vento di Passioni” del 1994 di cui vorrei avvalermi per introdurre e discutere un tema, quello della formazione e dell’istruzione, sempre più cruciale a molte questioni irrisolte della nostra contemporaneità. 

La scena cinematografica è quella che vede il Colonnello Ludlow (Anthony Hopkins) e la futura nuora Susannah (Julia Ormond) condividere la loro cena in cucina con la famiglia incaricata dei servizi domestici della casa. Durante la conversazione a tavola, il Colonnello, accorgendosi delle lacune educative della tredicenne Isabel (Sekwan Auger), offre ai genitori la sua disponibilità a occuparsi personalmente della sua istruzione. Il padre Decker (Paul Desmond) si rivolge quindi alla moglie (Tantoo Cardinal) per un suo parere, e subito dopo, con franchezza e senza fronzoli, pone al Colonnello la seguente domanda: «E che ci farà con tutta questa istruzione?» Al ché il Colonnello Ludlow, in un misto di sorpresa e ovvietà, gli risponde: «Avrà una vita più ricca e più piena!»

Questa risposta rapida e concisa sembra però lasciare un po’ perplesso il padre di Isabel. La sua esclamazione, in pronta battuta, sulla peculiarità d’origine della figlia sembra infatti esprimere il dubbio che l’educazione offerta dal Colonnello possa essere, in qualche modo, inadatta o inappropriata rispetto alle realistiche opportunità future di Isabel.

Il film è ambientato nel Nord-America durante gli anni dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quindi all’incirca poco più che cent’anni fa, ma la domanda del padre di Isabel supera la contingenza temporale cinematografica, qualificandosi piuttosto come un interrogativo tra i più comuni. Chi di noi non si è mai chiesto almeno una volta il senso e il motivo dell’utilità pratica dello studiare

Ora, se è del tutto normale investire il proprio impegno di studio in previsione di una più o meno specifica occupazione professionale è altrettanto vero che la selezione formativa e conoscitiva operata dalla nostra scelta rischia di circoscrivere l’importanza dello studio esclusivamente a una funzione preparatoria e per questo tacitamente a termine.

Ecco che allora la risposta del Colonnello Ludlow ci offre l’occasione di riflettere più in profondità sul senso dello studio. La sua affermazione infatti esprime la convinzione che l’educazione culturale in senso lato, abbia un valore a prescindere da qualsiasi posizione o possibile contesto sociale. Quello studio infatti permetterà a Isabel di vivere «una vita più ricca e più piena» indipendentemente da un suo riconoscimento generale o una sua remunerazione materiale poiché l’importanza dell’impegno e dell’esercizio allo studio sta innanzitutto nel rafforzamento della propria interiorità e personalità. Infatti, attraverso esso, noi impariamo a interrogare il nostro pensiero, ad assumere momentaneamente la prospettiva di altri e ad acquisire, per questo, una maggiore capacità e volontà espressiva. 

Queste considerazioni lineari, apparentemente prive di implicazioni pratiche, sfidano, in realtà, almeno due nostre impostazioni culturali piuttosto assodate.

La prima è quella che tende a identificare lo sviluppo della persona con la competenza di una professionalità specifica e contingente nonostante non ci siano evidenze empiriche di una coincidenza al dettaglio tra le funzioni gerarchiche sociali e la diversificazione di ciò che chiamiamo “talento”. Se, dal punto di vista pratico e realistico, sembra più che ottimale una selezione conoscitiva di tipo funzionale, è di certo discutibile l’idea, a essa troppo spesso implicita, di uno sviluppo della nostra persona coincidente e mai abbastanza eccedente la competenza acquisita di una mansione generica o specializzata. Ciò a maggior ragione oggi che le nostre attività occupazionali tendono a subire un dinamismo capace di renderle obsolete. 

La seconda, tanto antica quanto imbarazzante, è quella che accorda al sapere l’attributo del potere e che, parimenti, accetta senza riserve la necessità organizzativa delle proprie strutture economiche come criterio elettivo e selettivo del proprio personale patrimonio conoscitivo, determinando un rapporto inverso, e quasi sempre definitivo, tra volume conoscitivo e status sociale. Situazione particolarmente paradossale oggi che la funzionalità dei nostri compiti sembra esonerarci da osservazioni e riflessioni di più ampio respiro.

Per queste ragioni lo studio non è da intendersi come una attività meramente scolastica finalizzata al superamento di un esame e all’ottenimento di un titolo specifico ma come una nostra attività fondamentale da coltivare con libero interesse e ordinarietà. La sua importanza sta nel sostenere la nostra voce che si caratterizza imparando a legittimare l’esigenza di espressività che spunta e muove dalla singolarità della propria vita.  

Riuscirà la cultura del nostro secolo a riconoscere il valore dello studio, a tradurlo in pratiche quotidiane e a fiorire grazie all’uso democratico e alla costruzione partecipata della conoscenza? 

 

Anna Castagna

 

[Photo credit Alexander Grey via Unsplah]

 

banner riviste 2022 ott

Una breve riflessione sul pensiero critico

La nostra cultura contemporanea concorda pressoché unanimemente sull’importanza del pensiero critico. Ma precisamente qual è lo scopo di questa operazione intellettuale? qual è il risultato empirico-sociale che ci attendiamo? e perché ne sottolineiamo frequentemente la necessità? Al fine di non sottovalutare la rilevanza di questi quesiti scelgo qui di seguito di richiamare e commentare una particolare scena cinematografica del film Codice d’onore del 1992 (titolo originale A Few Good Men).

Mi riferisco alla deposizione al banco dei testimoni del Caporale Jeffrey Barnes (interpretato da Noah Wyle) a cui l’avvocato d’accusa, il Capitano Jack Ross (interpretato da Kevin Bacon) mostra un paio di libri per i Marines allo scopo di fargli ammettere l’inesistenza procedurale del Codice Rosso. In particolare, l’avvocato d’accusa, strutturando il suo ragionamento deduttivo sulla base della premessa che solo ciò che è presente e definito in un libro è potenzialmente applicabile, ricorre alla testimonianza di Barnes sull’assenza del Codice Rosso come argomento di testo, per persuadere la Giuria della colpevolezza dei due Marines che avrebbero così agito indipendentemente da un ordine militare.

A ciò l’avvocato difensore, il Tenente Daniel Kaffee (interpretato da Tom Cruise) interviene con successo, accogliendo sì la stessa premessa ma in un ragionamento logico finalizzato a evidenziarne la falsità: se solo ciò che è presente e definito in un libro è potenzialmente applicabile come si può spiegare la fruizione concreta del servizio mensa, di cui si accetta, concordemente, l’assenza di una sua indicazione scritta? «Allora non capisco. Come sapeva dov’è la mensa se non è scritto nel manuale?» chiede al testimone con simulato stupore il Tenente Kaffee.

A questo punto, esposto questo dettaglio cinematografico, vorrei evidenziare due aspetti della nostra razionalità per poter poi articolare una breve riflessione sul nostro pensiero critico.

Il primo aspetto riguarda la coerenza logica, che come si evince dalla scena descritta è sì necessaria alla costruzione congruente di un ragionamento razionale ma non è di per sé determinante all’esito vincente di una argomentazione nel momento in cui le premesse di base individuate risultino discutibili o persino totalmente false. Nel dibattito cinematografico il non costituirsi come argomento di testo scritto non equivale a constatare e a sancire la reale inapplicabilità del Codice Rosso.

Il secondo aspetto, delicato perché ambivalente, riguarda l’uso intenzionale della logica. Il Capitano Ross e il Tenente Kaffee mirano entrambi a ottenere il favore del verdetto della Giuria e costruiscono i loro discorsi a sostegno rispettivamente dell’accusa o della difesa degli imputati.  Se generalizziamo questa caratteristica processuale, possiamo sostenere che, se è vero che siamo vincolati dalle medesime regole della logica razionale, è altrettanto vero che, siamo proprio noi i fautori della sua progettazione e selezione argomentativa.

Ora riepilogando, se la coerenza logica è il requisito obbligato di una argomentazione ma non la garanzia di per sé della sua veridicità – e se la parzialità, come l’obiettività, sono più propositi della nostra volontà che qualità intrinseche della razionalità, tanto che l’aggettivo ‘logico’ non è automaticamente sinonimo di ‘giusto’ – possiamo renderci maggiormente conto delle implicazioni effettive del pensiero critico. Esso ci conferisce l’abilità di decostruire tutte quelle affermazioni che appaiono convincenti senza per questo essere necessariamente vere, mostrando per esempio l’erroneità dei presupposti che sono i fondamenti, potenzialmente sempre vulnerabili, dei nostri discorsi. Inoltre e soprattutto, il pensiero critico ci consente di esperire una certa autonomia di pensiero. Ogniqualvolta esso individua e comprende la probabile posizione prospettica altrui acquista di rimbalzo la consapevolezza del proprio intendimento e la facoltà del proprio intento.

Detto questo, in una realtà intricata come la nostra, l’importanza del pensiero critico eccede di gran lunga l’appagamento individuale della propria libertà di pensiero. Esso ha piuttosto un duplice valore strategico: da un lato, ci permette di non subire inconsapevolmente l’abilità persuasiva altrui e dall’altro, ci consente di strutturare più consapevolmente il nostro intento, obiettivo o parziale che sia. In questo senso lo scopo del pensiero critico è anche lo scopo dei nostri valori e delle nostre intenzioni. Il risultato empirico-sociale che attendiamo non è quindi per nulla scontato poiché è la nostra stessa libertà a contemplare la molteplicità delle possibilità. Forse, la frequenza con cui sottolineiamo la necessità del pensiero critico testimonia la nostra generale difficoltà ad argomentare in favore di una società globale migliore.

Ecco che allora riflettere sul pensiero critico significa chiedersi:

  • quanti presupposti so individuare?
  • quanta parzialità sono in grado di percepire o ipotizzare?
  • e soprattutto, quanto riesco a imprimere nella precisione logica della ragione il mio senso personale di giustizia?

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da Unsplash]

banner riviste 2022 ott

Per una prospettiva politica di emancipazione

Nel libro Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea di Alessandra Pescarolo vi è una frase che ha attirato la mia attenzione per settimane. La riporto per intero: «Non c’è, dunque, niente di automatico nello sviluppo dell’autonomia economica delle donne, che dipende dall’incrocio fra le trasformazioni del contesto e la capacità di mobilitazione soggettiva e politica delle attrici e degli attori storici»1.

Leggendola e rileggendola il mio pensiero non era soltanto rivolto alla questione attualissima della disoccupazione, sia essa femminile, giovanile, ecc., ma più in generale alla sua perdurante persistenza. Non riuscivo infatti a smettere di riflettere sull’immagine dell’ incrocio indicata da Pescarolo come elemento figurale determinante dell’emancipazione economica. Il motivo della mia insistenza era dovuto dalla seguente riflessione deduttiva: se accetto il disegno concettuale dell’incrocio sono costretta ad ammettere un insidioso limite insito nella protesta sociale e nella proposta politica. Questa figura implica infatti che le due determinanti variabili storiche, rispettivamente le trasformazioni del contesto e la capacità di mobilitazione, siano concepite come condizioni necessarie all’emancipazione ma non di per sé sufficienti se non nell’indefinita contingenza di una loro presenza congiunta e/o congiunturale. Pertanto qualsiasi forma di mobilitazione, senza l’opportuno cambiamento del contesto, è destinata all’inconcludenza a meno che non si riesca a prospettare e a definire un nostro ruolo attivo proprio nelle trasformazioni del contesto.

Per questo penso alla possibilità di definire una prospettiva politica di emancipazione capace di incrementare i nostri punti di presa direzionali sulle dinamiche del nostro cambiamento storico. A tal fine sarà innanzitutto necessario attribuire un senso nuovo alla distinzione che solitamente operiamo tra spazio pubblico e spazio privato. Tale distinzione non intenderà demarcare l’impermeabilità o l’invalicabilità dei rispettivi confini ma evidenziare i due termini di una relazione fondamentale.

La qualità di vita di ogni singola dimensione privata dipende infatti dalla profondità della nostra discussione pubblica. Questo perché il nostro bene comune più che essere una meta ideale da raggiungere è un magma sotterraneo da far emergere. Il bene è comune non nel senso di un minimo comune denominatore, una sorta di uguale resto fortuito e successivo alla soddisfazione dei nostri singoli interessi privati, ma è comune nel senso che ci accomuna, che ci lega l’uno all’altro in una griglia relazionale da identificare. Perciò partecipare alla politica non significa scegliere da che parte stare, non significa limitarsi a una opzione di voto ma vuol dire interagire a monte nella definizione delle questioni politiche, vuol dire indagare per poter collaborare.

Ecco che allora la nostra emancipazione non potrà prescindere dal progetto intellettuale di un approfondimento individuale e interpersonale. Tale progetto non potrà che essere:
eccezionale perché spesso è proprio il nostro stile di vita a censurare il tempo della ricerca e della riflessione, che è invece essenziale per poter disinnescare preventivamente «l’uso supremo e più insidioso del potere [che] è quello di far sì che le persone non abbiano rimostranze, plasmando le loro percezioni, preferenze e cognizioni»2.
trasversale alle nostre occupazioni quotidiane e professionali perché in politica l’uguaglianza non si riferisce all’identità di uno status economico-sociale ma alla conquista di una assertività capace di astrarre dal proprio ruolo non per accantonarlo ma per ricomprenderlo alla luce di un contesto storico e contingente più ampio.
volto a migliorarsi e a migliorare perché la ragione senza desiderio di armonia dimentica la sua intrinseca contraddizione. La ragione infatti non può evidenziare senza nel contempo oscurare, argomentare senza tralasciare, trascurare o addirittura fuorviare.

Per di più, se davvero la società è «un insieme di individui i cui interessi economici e sociali sono inevitabilmente in conflitto o in concorrenza»3 sarà importante che ciascuno di noi scelga di assolvere il compito paradossale di affidarsi con diffidenza alla razionalità. Senza riflessione il lume della ragione si affievolisce, si spegne. Senza sensibilità del bene proprio quel lume ci abbaglia, ci acceca poiché impedisce di vedere e di mostrare alla ragione ciò che le manca. E la strada della nostra emancipazione sta proprio lì, nel mezzo, tra l’inconsapevolezza e la rivendicazione, tra la sottomissione e la prevaricazione, tra il disinteresse e la compiutezza non porosa del sapere.

L’emancipazione è il buon uso della ragione. Riconoscerne l’eccellenza perennemente in difetto è la vera chiave per diventare, ovunque, l’uno il collaboratore dell’altro.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. A. Pescarolo, Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, Viella 2019, p. 28
2. Citazione riportata in Anne Stevens, Donne, potere, politica, Il Mulino 2009, pp. 35-36 di S. Lukes, Il potere. Una visione radicale, Milano, Vita e Pensiero, 2007
3. A. Stevens, op. cit., p. 104

[Photo credit pixabay]

banner-riviste-2022-feb

Due parole sulla disuguaglianza: intervista a Michele Alacevich e Anna Soci

Intervistiamo i professori dell’Università di Bologna Michele Alacevich – Storia economica e Storia del pensiero economico – e Anna Soci – Economia politica – che con piacevole chiarezza e grandissima capacità di sintesi ci offrono spunti di riflessione davvero preziosi intorno ad alcune grandi questioni della nostra storia umana. Mi riferisco in primis alla disuguaglianza economica e alle sue implicazioni o per esempio al rapporto tra tecnologia e lavoro come a quello della democrazia. Un assaggio veloce ma oggi più che mai necessario. Ringraziando moltissimo entrambi gli autori per la loro disponibilità auguro a tutti buona lettura!

 
Anna Castagna – Il vostro recente libro Breve storia della disuguaglianza (Laterza, 2019) ha sicuramente il merito di riuscire a «introdurre il lettore non esperto all’importante dibattito sulla disuguaglianza»1. Di fronte alla «crisi sociale, economica e politica»2 che stiamo vivendo qual è in sintesi il ruolo fondamentale giocato dalla disuguaglianza economica?

Michele Alacevich e Anna Soci – La disuguaglianza economica ho un ruolo davvero fondamentale tra le cause di questa larga crisi che soprattutto i Paesi occidentali stanno vivendo. Si potrebbe dire che la disuguaglianza economica è “la madre di tutte le disuguaglianze”. Da un lato, infatti, risulta nociva per la crescita economica stessa, contribuendo così ad accentuarla ancora di più, in assenza di politiche redistributive da prevedere e concordare. Inoltre, genera una diffusa crisi sociale, nel modo in cui restringe le opportunità per la vasta categoria delle persone a basso reddito: opportunità di accedere a una istruzione qualificata, a una sanità di buon livello per tutti, a una vita dignitosa, sotto i suoi molteplici aspetti. Né è meno nociva dal punto di vista politico, ampliando il rischio di un progressivo distacco da comportamenti di cittadinanza attiva, e dalle istituzioni da cui ci si sente abbandonati.

 

A. C. – Oggi riuscire a trovare una occupazione lavorativa sufficientemente soddisfacente sembra essere una impresa ardua e difficile. Quanto la conoscenza dei fenomeni sociali, economici e politici del passato può contribuire alla formazione di una forma mentis incline a proposte di cambiamento attivo e direttivo delle strutture produttive e organizzative del mercato del lavoro piuttosto che a risposte di adattamento passivo e auto-selettivo?

M. A. & A. S. – Spesso, non capire le cause di un problema ci porta a dare risposte o immaginare soluzioni irrealistiche o sbagliate — soprattutto perché non risolvono il problema. La disuguaglianza è un problema sociale, non è l’effetto di pigrizia, o di qualcuno che ha fatto scelte sbagliate e si è andato a ficcare in un guaio. Inoltre, è un problema con delle radici, che noi cerchiamo di spiegare, che sono sia di natura intellettuale sia di natura politico-economica. In altre parole, la disuguaglianza delle nostre società, così come l’ideologia che la giustifica, hanno una storia. Conoscerla serve a capire le forme che ha preso, le ragioni per cui in tanti la ritengono un dato di fatto, quasi fosse uno stato di natura, e anche i modi in cui possiamo mitigarla e gli argomenti che possiamo sviluppare in un dibattito democratico civile e informato.

 

Anna Castagna – Nel capitolo intitolato Disuguaglianza e globalizzazione viene riportata la seguente frase di James Galbraith: «il fattore determinante della disuguaglianza economica è la composizione strutturale dell’economia stessa»3. Sulla base di questa affermazione quale collocazione interpretativa è possibile attribuire all’emarginazione economica che segna inesorabilmente la vita di molte persone?

Michele Alacevich e Anna Soci – Galbraith sottolinea alcuni elementi strutturali delle nostre economie che spiegano molto della disuguaglianza che esiste nelle nostre società. Molti studiosi insistono sul fatto che lo sviluppo tecnologico corre a una velocità tale che gli individui non riescono ad assorbire l’istruzione necessaria a operare ad alti livelli con le nuove tecnologie. Rimanendo indietro, si accettano lavori meno qualificati (nel senso che ci viene richiesta una qualificazione, o un’istruzione, di medio livello, o di basso, o di bassissimo livello, o nullo) e così finiamo nella situazione di essere pagati poco per lavori a bassa qualificazione.
Galbraith non nega che le trasformazioni tecnologiche abbiamo un ruolo importante nella nuova geografia sociale ed economica della disuguaglianza. Però nota anche che tutto questo rimanere indietro non lo nota: quanti laureati fanno lavori che non hanno bisogno di una laurea? Galbraith dunque dice qualcosa di leggermente diverso: ci sarà anche questa corsa tra tecnologia, che si aggiorna a ritmi vorticosi, e istruzione, che si costruisce e si aggiorna più lentamente. Ma molte di queste dinamiche hanno a che fare con questioni tutto sommato più semplici: se sei un operaio in una regione che si sta deindustrializzando, non puoi “aggiornarti” o fare nuova formazione. Molto peggio, sei tagliato fuori. Le regioni geografiche sono facili da vedere, ma ci sono spazi identificabili nella nostra struttura economica e sociale che magari non sono geograficamente localizzabili ma sono abitati da individui in carne e ossa — spazi, in altre parole, frantumati nel contesto delle nostre città e regioni—che includono persone che strutturalmente non riescono più a crescere con il resto dell’economia. Così rimangono indietro, prime vittime della crescente disuguaglianza.

 

A. C. – Immaginando per un momento la stasi e la saturazione del complesso fenomeno della Globalizzazione, con il raggiungimento di un equilibrio economico globale accettabile, quanto l’attuale interesse tecnologico per l’automatismo e la robotica potrebbe, dal vostro punto di vista, tradursi in un tentativo accelerato di riduzione del costo del lavoro? In un quadro di ottimizzazione dei processi produttivi e organizzativi, la problematicità sociale, ora connessa alla disuguaglianza economica, potrebbe ripresentarsi in una forma storica diversa?

M. A. & A. S. – La robotica è la vera nemica del mondo del lavoro, citando Milanovic, uno dei più profondi conoscitori del tema della disuguaglianza economica, e indubbiamente questo sviluppo accelerato del suo utilizzo avrà sempre maggiore impatto su occupazione e salari. Il dibattito sul rapporto tra progresso tecnico e occupazione è antico e mai risolto e fondamentalmente si gioca sui diversi scenari ipotizzabili nel breve oppure nel lungo periodo. Già nel 1817 Ricardo ne parlava diffusamente nel capitolo 31, intitolato appunto On machinery, del suo fondamentale contributo On The Principles of Political Economy and Taxation, affermando che aveva mutato opinione e che si era poi convinto «that the substitution of machinery for human labour, is often very injurious to the interests of the class of labourers» aggiungendo tuttavia che «If a landlord, or a capitalist, expends his revenue in the manner of an ancient baron, in the support of a great number of retainers, or menial servants, he will give employment to much more labour, than if he expended it on fine clothes, or costly furniture; on carriages, on horses, or in the purchase of any other luxuries». In altri termini, la risposta alla domanda “quale sarà l’effetto dell’automazione sul lavoro umano” – sostituendo lo Stato moderno al proprietario terriero e al capitalista ricardiani – è: dipende. Dipende da quali strade si apriranno per impiegare l’offerta di lavoro ridondante, ovvero, da quali obiettivi sociali ci porremo.
Da un punto di vista di vista sicuramente più elitario, ma non meno affascinante, Keynes – nel suo famosissimo Economic possibilities for our grandchildren (1931) – affrontava il problema nell’ottica del lungo periodo, sottolineando come, in un mondo che la tecnologia avrebbe liberato dagli affanni del lavoro e dalle costrizioni quotidiane, il genere umano avrebbe potuto finalmente pensare alle cose importanti della vita, tempo libero e cultura in primo luogo.
Quanto alla problematicità sociale, il mondo non ne sarà mai privo. La disuguaglianza è di certo un elemento di forte problematicità sociale, che sicuramente si intensificherà se il dualismo robotica/lavoro umano dovesse permanere e acuirsi. 

 

Anna Castagna – Aristotele (384/83a.C.-322/21a.C.) nella sua riflessione politica individuava alcune forme di governo degenerate. Oggi come allora si teme per la correttezza delle modalità di convivenza collettiva. Non solo, come argomentato, «la disuguaglianza economica mina – almeno potenzialmente – la democrazia»4 ma anche il nostro stesso stile di vita frenetico potrebbe, verosimilmente, compromettere l’effettività qualitativa di una sostanziale collaborazione democratica. A vostro avviso quanto potrebbe essere importante o fattibile tentare di trovare un sano equilibrio tra la partecipazione economica e l’approfondimento personale e interpersonale del nostro contesto socio-politico?

Michele Alacevich e Anna Soci – Questa è una domanda enormemente importante, ma è impossibile rispondere. La disuguaglianza economica mina la democrazia, è vero. Però provate, come esperimento mentale, a costruire una società egualitaria; considerando dunque non solo i mille imprevisti che vanno di traverso al “grande pianificatore centrale”, ma anche le diverse preferenze e i diversi desideri, tutti legittimi, che caratterizzano gli individui. Vedrete che o inizierete a eliminare chi non crede nel vostro esperimento (mentale) o inizierete ad accettare qualche compromesso, cioè ad accettare qualche grado di disuguaglianza in nome della convivenza. Bene, qual è il giusto livello di compromesso?
Questo è solo un punto di partenza, perché non siamo neppure d’accordo con chi dice che, in base a questo esempio, il grande conflitto è tra uguaglianza e libertà. Non è vero, perché la disuguaglianza porta mancanza di libertà. Disuguaglianza e illibertà vanno mano nella mano come care amiche. Il problema è, come al solito, più complesso, e non si risolve con uno schema, ma con un processo continuo di deliberazione informata.
Quindi permetteteci di puntare in una direzione diversa dalla vostra domanda: guardiamo alla qualità e salute dei corpi intermedi? Quei soggetti sociali che intermediano le diverse istanze, i diversi desideri, le diverse esigenze, ed esistono perché mediano il conflitto sociale in forme negoziali. O guardiamo a come ci informiamo? L’indipendenza e qualità dei media in Italia?

 

A. C. – Si è soliti affermare che il tempo è denaro. Oggi in una prospettiva di work-life balance quanto la promozione di un tempo libero più orizzontale potrebbe dare impulso e spazio a maggiori, nuove e non, attività o settori? Potrebbe la diversificazione economica essere la chiave di una equilibrata suddivisione sociale?

M. A. & A. S. – La diversificazione economica, di per sé, può andare in una direzione o nella direzione opposta in termini di equilibrio tra “vita” e “lavoro”. E neppure le nuove tecnologie offrono soluzioni univoche e sicure. Il telelavoro da casa, per esempio, è stato fondamentale per affrontare l’emergenza pandemica e spesso è utilissimo per conciliare le esigenze di vita e lavoro di tante persone, pensiamo a un genitore single. Detto questo, aiuta a preservare il tempo libero? Aiuta a migliorare la qualità della vita? Abbiamo i nostri dubbi. Diciamo che spesso aiuta a vivere, che è molto, ma è un’altra cosa.

 

A. C. – Un’ultima domanda: dalla lettura del vostro libro mi sembra di capire che in realtà non si possa parlare e discutere di economia senza anche presupporre, esprimere e progettare una determinata e definibile visione valoriale. Quanto potrebbe essere auspicabile un’attività congiunta tra Economisti e Filosofi per la formulazione di soluzioni davvero efficaci alla drammaticità economica e sociale della nostra contemporaneità?

M. A. & A. S. – Rispondiamo alle due domande congiuntamente perché toccano lo stesso tema di fondo, che potremmo chiamare il rapporto tra scienza ed etica. E’ ben noto che nel 1932 Lionel Robbins – professore alla London School of Economics nonchè uno dei maggiori esponenti della teoria marginalista, ovvero la teoria ortodossa ancora largamente dominante in economia – pubblicò un libro destinato a segnare un salto evolutivo strutturale nel genoma dell’Economia: An Essay on the Nature and Significance of Economic Science. Là, Robbins la definì: a value-free science. Tradotto, l’etica non doveva interferire. Non è questa la sede per confrontarci con le molte radici di questo paradigma, ma di sicuro possiamo confermare che, fuori da piccole nicchie esterne al corpus principale della scienza economica consolidata, l’affermazione di Robbins è tutt’ora largamente condivisa. Ciò in parte risponde alla seconda domanda perché noi riteniamo che una visione valoriale nell’ambito della nostra professione sia importante e che assolutamente si debba perseguire una collaborazione tra studiosi di ambiti limitrofi (e forse anche lontani) ma diversi, in una ottica di ampia interdisciplinarietà. Riteniamo che questo tema sia largamente condiviso, ma che possa essere ben diverso da quello cui si accennava più oltre, nel senso che una cosa è avere gerarchie di importanza, almeno nel senso di rilevanza sociale, e altro è avere la scala valoriale dentro il ventaglio di strumenti da usare per essere scienziati (anche sociali). Ritornando così alla vostra prima domanda, la maggiore difficoltà che la scienza economica ha incontrato nel definire quale livello di disuguaglianza non sia “intollerabile” dal punto di vista sia sociale che economico è stata… l’opinabilità! Prendiamo come esempio eclatante l’indice di disuguaglianza di Atkinson, uno dei maggiori studiosi di disuguaglianza.  Nel 1970 Anthony Atkinson – dopo cinquant’anni dalle intuizioni, cadute nell’oblio, di Hugh Dalton, grande precursore degli studi sul rapporto tra distribuzione del reddito e benessere economico– rianimò la questione normativa elaborando un indice che misura la perdita di benessere per la collettività causata dalla disuguaglianza. Questo indice dipende crucialmente da un parametro che indica l’avversione della società alla disuguaglianza e, dunque, va ben oltre il concetto stesso di misura, parola piena di oggettività scientifica. Ma chi può dare un contenuto numerico a questo indice? Nessuno. Il successo di questo indice? Un quasi oblio, niente di più che un prezioso frammento per gli studiosi.

 
Anna Castagna
 
NOTE:
1. Ivi, p. XIX
2. Ivi, p. 120
3. Ivi, p. 86 – Citazione dal testo di J.K. Galbraith, Inequality and Instability: A Study of the World Economy Just before the Great Crisis, Oxford University Press, Oxford 2012, p. 48
4. Ivi, p. 104
5. Ivi, p. 143
6. Ivi, p. 119
 
 
[Immagine tratta dalla copertina del libro, photo credits Laterza]
 
banner-riviste-2022-feb

La preziosa inaffidabilità del nostro denaro

Che cos’è il denaro?
Patrimonio o debito, remunerazione o imposta, dono o sanzione il denaro è indiscutibilmente un elemento imprescindibile nelle nostre vite che detiene e trattiene una specifica problematicità estrinseca. Il denaro è infatti una necessità costruita e condivisa e mai parimenti suddivisa. Esso si configura come la convergenza gravitazionale monetaria di una struttura storico-economica produttivamente consequenziale-gerarchica, di una potenzialità speculativo-finanziaria fruttuosamente attraente e di una interconnessione globale contestualmente disomogenea. Di conseguenza, sebbene il denaro venga solitamente concepito e considerato come un oggettivo, efficace e funzionale mezzo di scambio paritario e pacifico, in realtà esso si configura come «l’espressione e lo strumento di un rapporto, della reciproca dipendenza degli uomini, della loro relatività»1 e in quanto tale stabilisce ed evidenzia la misura di una apparentemente ineliminabile asimmetria relazionale reciproca. Esso è ed esprime la cifra, il perno nodale, di una determinata e precisa interdipendenza sociale.

Cosicché il denaro non è semplicemente il fluido ingranaggio capace di garantire il funzionamento continuo e senza intoppi dei meccanismi socio-economici, ma rappresenta quantitativamente la trama specifica di una fitta filatura socio-culturale. Infatti non solo «i valori e i sentimenti corrompono […] il denaro, dandogli un senso morale, sociale e religioso»2 ma, anche attraverso di esso, veicoliamo bisogni e desideri, aspettative e priorità, doveri e mancanze; e in tal senso il denaro cattura e converge incessantemente la nostra singolarità che, mentre si impegna a soddisfare la sua necessità o passione, scopre e sperimenta paradossalmente il brio e la freschezza della libertà testimoniando di volta in volta la gamma estesa o ristretta delle sue opzioni o alternative di scelta.

Per questo il denaro non può e non deve essere concepito come un criterio indiscutibile e infallibile a cui poter affidare serenamente il successo armonioso della nostra tessitura sociale, poiché esso risulta da sempre compromesso dal fraintendimento della nostra indipendenza che non articola, non conosce e non comprende l’infinito intricato intreccio di necessità sottostante e precedente all’esercizio della propria libertà. Di fatto la posizione relativa che occupiamo riflette ed esprime perennemente l’imprecisione di una conoscenza difettosa ed emotivamente fuorviata. Le nostre necessità contingenti come le nostre possibilità disponibili, filtrate numericamente dal denaro, seguono filamenti inconsapevolmente incuranti del contesto radiale e retrogrado della loro genesi. Inoltre la nostra posizione relazionale risente significativamente della quantità di denaro posseduta poiché il grado di libertà espressa altera in eccesso o in difetto la percezione della possibilità di defilarsi definitivamente o invano dalla nostra interdipendenza, non riuscendo quasi mai a interpretare l’inferiorità come una reale reiterata strutturale difficoltà.

Perciò il denaro, che filtra, converge e traduce quantitativamente la nostra asimmetria relazionale, potrebbe diventare un particolare e prezioso oggetto di studio non esclusivamente «confinato ai territori intellettuali degli economisti»3. Il flusso del denaro potrebbe infatti essere concepito come una sorta di marcatore fluorescente in grado di indirizzare e accompagnare le nostre indagini lungo le molteplici connessioni da esso generate a evidenziare i difettosi vuoti conoscitivi come i deformanti responsi emotivi allo scopo di districare puntualmente le iniquità dalle criticità delle dinamiche e strutture sociali. In poche parole si immagina uno studio a tutto tondo sul denaro capace di dispiegare le interrelazioni dirette o indirette tra le condizioni contestuali dell’abbondanza e gli effetti a catena della carenza perché in una intelaiatura interdipendente marcatamente asimmetrica è verosimile che il denaro non possa espandersi da un lato senza evitare di comprimere da un altro in una circolarità espulsiva di reciprocità al ribasso.

E oggi che «viviamo in un’epoca in cui quasi tutto può essere comprato e venduto»4 l’esigenza fuorimisura del denaro può interpretarsi come l’evidenza di un elevato grado di dipendenza sociale in una visione culturale che è fortemente affascinata dall’autonomia. Per questo si ipotizza la progettazione di una prospettiva conoscitiva radiale e retrograda capace di individuare progressivamente le connessioni laterali e/o collaterali tra l’abbondanza e la carenza per verificare la possibilità di equilibrare costruttivamente, attraverso un investimento correttivo, protettivo e nobile, l’intelaiatura organizzativa portante. La nostra filatura socio-culturale ne trarrà conseguentemente beneficio e il denaro non apparirà più come il criterio neutrale e innocente della nostra calcolata obiettività ma come la risorsa aggregante e accelerante della nostra perfettibile umanità.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. G. Poggi, Denaro e modernità. La “Filosofia del denaro”, Georg Simmel, Il Mulino 1998, p. 142

2. V. A. Zelizer, Vite economiche. Valore di mercato e valore della persona, Il Mulino 2009, p. 117
3. Ivi, p.112
4. M. J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli 2013, p. 13

[Immagine di copertina proveniente da pixabay]

abbonamento2021

Ragionando con Platone: sviluppo, sapere, sensibilità

Nella Repubblica Platone (428/7-347 a.C.) delinea un preciso rapporto di corrispondenza parallela e speculare tra la composizione psicologica dell’individuo e l’organizzazione politica della città-stato1. In effetti, egli individua e articola tra il singolo e l’intero una relazione reciproca: «non c’è individuo giusto se non in una società giusta»2 e «non c’è società giusta se non lo sono insieme i suoi singoli membri»3.
Possiamo anche oggi affermare che esiste una relazione reciproca tra la persona e la sua società? Se sì, come la formuliamo e la tracciamo? E successivamente, quali considerazioni possiamo avanzare? 

Ecco proposta qui una breve riflessione che sceglie come elemento di congiunzione nella relazione reciproca non la giustizia ma lo sviluppo, quest’ultimo inteso nel senso più esteso e immaginabile.

Teoricamente se la persona cresce e migliora, anche l’intera società evolve, e a sua volta se la società registra condizioni sociali, politiche ed economiche favorevoli, anche la singola persona verosimilmente ne trae beneficio. In tal senso possiamo affermare che lo sviluppo della persona è anche lo sviluppo della società e viceversa. In termini grafici la società potrebbe assomigliare a un grande cerchio che si estende man mano che tutti i cerchi più piccoli al suo interno – le persone – crescono. Tale espansione e sviluppo sociale avrebbe poi un effetto di incremento positivo sulla qualità di vita delle persone.

Ma che cosa determina lo sviluppo?

La risposta potrebbe essere proprio ciò a cui lo stesso Platone attribuisce grande importanza e rilevanza nella costruzione del suo progetto politico: il sapere4. Ma se nel caso di Platone il sapere è definito come «un complesso sistema di conoscenze etico-scientifiche»5, qual è il sapere funzionale al nostro sviluppo? Si tratta di un sapere unicamente di tipo tecnico-scientifico?

Ora, se è vero che il «processo di innovazione tecnologica […] è da sempre il maggiore catalizzatore di ricchezza e benessere»6, è altrettanto vero che «tutte le innovazioni tecnologiche contengono dei valori, rinvenibili nell’idea iniziale e nel processo di sviluppo e diffusione»7. I valori costituiscono quindi il contrassegno originario e il riferimento creativo delle tecnologie sin dalla loro primissima ideazione. Ciò sembra sottilmente suggerire la possibilità di attribuire alla dimensione etica, quale insieme globale dei valori non esclusivamente una funzione limitante, di controllo e di censura ma una funzione generante, di decollo e di fioritura.

A questo punto, esplicitata questa riflessione e tenendo conto che sono proprio i sentimenti gli «ispiratori, supervisori e mediatori dell’impresa culturale umana»8, possiamo ricorrere alla nozione di sensibilità qui proposta come intreccio singolare e dinamico tra valori e sentimenti, la cui caratteristica sostanziale sta nel configurarsi come una grandezza a dimensione variabile. In primo luogo perché quando parliamo di relativismo dei valori constatiamo in realtà e innanzitutto una varietà valoriale quantitativa, in parte ordinabile, indipendentemente da quanto riteniamo confrontabile questo variegato assortimento misterioso. In secondo luogo perché quando ci avvaliamo del concetto di civilizzazione nell’interpretazione della storia umana ammettiamo indirettamente un cambiamento storico-culturale della sensibilità.

Di conseguenza, più questa dimensione riesce ad avvertire e annotare concezioni e condizioni aridamente indifferenti alla tesaurizzazione della persona e delle sue relazioni, più essa contribuisce a mantenere attiva e vigorosa la grande agenda dell’impresa creativa umana. Detto altrimenti, la sensibilità estende orizzontalmente e minuziosamente gli orizzonti multiformi della curiosità, della ricerca e dell’immaginazione, poiché invita sempre e di nuovo la ragione a sbilanciare la sua coerenza, sfidandola ad abbracciare tutte le sfere di realtà che essa ha reso tenacemente consistenti e visibili. La sensibilità non è propriamente una bussola che indica una direzione precisa, ma è contemporaneamente un proiettore che rivela una maggiore spaziosità visiva e un propulsore che fornisce la spinta e l’intensità all’azione.

Sarà poi questa sensibilità a costituire lo sfondo brioso e brulicante del nostro dialogo socio-economico, generando un sapere capace di vigilare operativamente sugli elementi sottrattivi dello sviluppo e di ridurre le distorsioni reciproche dovute alle differenti posizioni relazionali. Lo sviluppo non sarà più una linea che sfreccia verso l’alto assottigliandosi, ma un raggio che volteggiando vorticosamente rasoterra spinge e ci sospinge incommensurabilmente più in alto. È l’ampiezza della sensibilità, che aziona e dispiega virtuosamente il sapere l’imperdibile moltiplicatore del nostro sviluppo.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Editori Laterza 2010 – Cap. V – pp. 116-117, 122-124, 131-135
2. Ivi, p. 117
3. Ibidem
4. Ivi, pp. 122-3
5. Ibidem
6. K. Schwab, Governare la quarta rivoluzione industriale, FrancoAngeli 2019 Parte 1, p. 29
7. IIvi, p. 36
8. A. Damasio, Lo strano ordine delle cose, Adelphi 2018, p. 13

abbonamento2021

Sull’importanza della filosofia per noi, oggi

Perché è o dovrebbe essere importante la Filosofia per tutti noi oggi? E che cosa intendiamo quando utilizziamo questo termine?
«Se oggi parliamo di filosofia è perché i Greci hanno inventato la parola philosophia, che significa amore della saggezza, e perché la tradizione della philosophia greca si è trasmessa al Medioevo e quindi ai Tempi Moderni»1. Con queste parole, Pierre Hadot (1922-2010), considerato uno dei maggiori specialisti contemporanei nel campo degli studi di filosofia antica sintetizza il percorso storico della Filosofia.

Ma questo amore della saggezza, come è giunto fino a noi oggi? attraverso quale immagine semantica? Non è forse vero che immaginiamo esistere da qualche parte una saggezza, un sapere vero mai pienamente raggiungibile? e che immaginiamo il filosofo tentare da solo questo sforzo?

In realtà, se è vero che «non è nella natura dell’uomo possedere un sapere […] tale che se lo possedessimo sapremmo cosa fare e cosa dire»2, è altrettanto vero che è proprio il nostro, di fatto, condividere tempi
e spazi comuni, nella molteplicità delle sue forme e dinamiche, a ricreare ininterrottamente e senza fine l’esigenza di sapere come vivere e come vivere insieme.

Non disponiamo di alcun sapere vero definitivo, applicabile efficacemente senza margine di errore ad ogni circostanza; non possiamo raggiungere la saggezza, pur se ne tentiamo l’impresa con sincera e ammirabile convinzione. Non potremmo mai contemplare simultaneamente tutta la contingenza possibile ed agire con assoluta certezza.
Eppure la Filosofia come amore inarrestabile della saggezza, come ricerca che non conquista ciò che sembra promettere, non è un’attività inutile e marginale, in quanto le forme e le dinamiche della nostra vita individuale e collettiva si originano silenziosamente e senza sosta dall’humus del nostro pensiero.

Di conseguenza, le questioni poste dalla Filosofia non sono superflue, non costituiscono un sovrappiù intellettivo, non conducono ad un’indagine sterile ed improduttiva perché inevitabilmente «we live some answer to these questions every day»3.

Cosicché, la Filosofia che lavora con ciò che riteniamo costituire il perno del nostro volere, del nostro agire e del nostro pensare rappresenta un’attività primaria e molto speciale poiché permette al nostro pensiero di costruire e modellare attivamente le forme e le dinamiche della nostra vita personale e sociale.
Per questo, la Filosofia non può e non deve delinearsi come attività esclusiva né tantomeno escludente, ma rendersi disponibile a chiunque sperimenti interiormente e/o esteriormente una sfasatura significativa e rilevante tra ciò che sente essere e ciò che sente dovrebbe essere.
Ecco la preziosità e l’importanza della Filosofia che riesce a materializzare la nostra sensibilità in parole, rendendo la nostra ragione più delicata e il nostro sentimento più prudente.
Ecco il nostro impegno filosofico che non può e non deve mai dissolversi, mai mancare; il suo evidente, costitutivo, ineliminabile ed irrimediabile fallimento nel raggiungimento del vero sapere rappresenta in realtà, la miglior garanzia di massima libertà di pensiero e di azione poiché è il nostro vivere insieme nella sua mobile e irrevocabile contingenza a costituire una fonte inesauribile di problematicità e ad esigere per questo, un plurale coinvolgimento e un impegno attento e costante.
Nessun sapere vero da applicare ma un intero mondo da costruire.

In conclusione, la Filosofia non è da qualificarsi in negativo, come attività che aspira alla saggezza senza mai raggiungerla, ma in positivo, come quella attività che permette di tradurre ed esprimere a parole quella particolare sensibilità che inevitabilmente viaggia e viaggerà nel tempo sempre con noi. Non si tratta di impegnarsi in un’ impresa solitaria dall’obiettivo irrealizzabile ma di sentirsi legittimamente, pienamente e socialmente coinvolti in un’attività corale capace di dar forma, concretezza ed espansione alla nostra singola voce: non per imporsi ma per collaborare, non per contestare ma per proporre, non per non cambiare mai ma per imparare a farlo. Infondo, «il vero sapere è in realtà un saper fare, e il vero saper fare è il
saper fare il bene»4.

Nessun sapere vero da raggiungere ma un tesoro dal valore incommensurabile a cui attingere ed al contempo, arricchire con la nostra singolare sensibilità. La Filosofia è amore della saggezza non perché desidera definitivamente definirla ma perché desidera infinitamente realizzarla.

 

Anna Castagna

 

Nata a Verona e laureata in Filosofia nel 2004.
Impiegata fino al 2015.

 

NOTE:
1. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi Editore, Milano 2010 (ed. originale 1995), p. 4.
2. Ivi, p. 51.
3 M. J. Sandel, The moral side of murder – Lecture 1 – www.justiceharvard.org.
4. P. Hadot, op.cit., p. 21.

[Photo credit unsplash.com]