Il peso delle parole e il loro uso

Ciascuno di noi usa mediamente tra le 2.000 e le 7.000 parole al giorno, un numero davvero elevato e influenzato da fattori come età, personalità e sesso. Questo dato ci fa capire quanto siano importanti i vocaboli nella vita di tutti i giorni e come influenzino, direttamente e non, le nostre giornate. Le parole che possiamo usare sono davvero tante: ci basta pensare che 2.000 sono solamente quelle di uso molto frequente che maneggiamo sin dall’infanzia. Scegliere con cura, tra le parole che conosciamo, quali usare è essenziale. 

Al di là degli interessanti dati numerici ciò che davvero importa è quali parole usiamo e come lo facciamo. Troppo spesso le scegliamo impulsivamente, senza curarci del loro effetto, ma non ci rendiamo conto di quanto esse influenzino, e modifichino, la realtà. George Lakoff, linguista statunitense, spiega ciò con un esempio semplicissimo: pronunciare la parola “elefante” fa sì che io pensi a quell’animale e lo visualizzi, seppure prima non ci stessi pensando. Questo ha un effetto dirompente anche sulle azioni: quello che viene detto ha impatto sulla realtà perché modifica e amplia i limiti di ciò che può essere detto e di ciò che è considerato consuetudine. Modificare i limiti di ciò che si dice equivale a modificare i limiti di ciò che si fa. 

Soprattutto in un mondo di relazioni come il nostro, le parole non sono effimere come suggerirebbe il detto “verba volant: le parole, anzi, rimangono e lasciano un segno chiarissimo. Claudia Bianchi nel libro Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio si concentra sul segno di odio e violenza che possono lasciare. Tra i modi in cui possiamo usarle troviamo, infatti, l’hate speech, ovvero l’insieme di immagini, parole ed espressioni che sono rivolte non agli altri ma contro gli altri. Basandosi su pregiudizi contro minoranze, qualcuno usa le parole per umiliare, denigrare e opprimere gli altri, proprio come George Orwell ci mostra in 1984.

La filosofia del linguaggio degli ultimi decenni si concentra proprio su questo uso della lingua. Il linguaggio non rispecchia soltanto la realtà, ma la modifica e plasma perché facciamo cose con le parole, per usare l’espressione di John Austin. Con l’hate speech facciamo, però, del male in maniera evidente e spesso associandolo alla violenza fisica. A questo si aggiunge la dimensione della propaganda: parole razziste e omofobe servono ad affermare la propria identità, politica o culturale, e ad affermare l’esistenza e l’appartenenza a un gruppo dominante che prevale, e vuole prevalere, su gruppi discriminati. In alcuni casi, e 1984 ne è un esempio, le parole d’odio sono presentate come normali, diffuse e anche “giuste”. L’hate speech è, dunque, usato non solo per ferire e posizionare gli altri in ruoli di inferiorità ma anche per far capire che è vero e giusto che essi siano subordinati. 

Come comportarsi di fronte a queste problematiche? Oltre a porre attenzione alle parole che usiamo, dobbiamo reagire a chi usa parole d’odio. L’indifferenza con cui accettiamo l’uso offensivo della parola diventa, facilmente, accettazione e consenso e contribuisce a trasporre nella realtà la posizione di inferiorità di coloro a cui si rivolge il linguaggio d’odio. Un esercizio che ci può aiutare a contrastare l’hate speech e a capire quando una parola o un’espressione sono da evitare è il seguente: “come sta la tua recezione?” è la domanda che ognuno di noi dovrebbe immaginare di porre al destinatario delle proprie parole. Quale è la recezione di colui a cui rivolgiamo le nostre parole? Corrisponde alle nostre intenzioni oppure no? Ponendoci nei panni altrui potremo capire cosa evitare di dire.

Quale la conclusione che possiamo trarre da questa breve riflessione sul linguaggio? Porre attenzione a ciascuna parola che usiamo non è un capriccio o un lusso ma un modo per fare viaggiare di pari passo realtà e linguaggio con l’obiettivo di non dare vita a odio e violenza in nessuna delle due realtà.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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Elogio della gentilezza

Viviamo nell’epoca dell’individualismo, in cui ciascuno di noi pone i propri bisogni e desideri in primo piano. Portato all’estremo, questo interesse limitato all’Io, porta a mettere fra parentesi l’Altro, rischiando di relegarlo a una posizione di ostacolo per i propri interessi. Il fenomeno che vede sempre più a rischio le relazioni, di qualsiasi tipo esse siano, a causa di questa tendenza sociale è stato molto studiato. Tra i contributi più influenti troviamo il discorso tenuto da George Saunders, scrittore e saggista statunitense, ai neolaureati della Syracuse University. Questo discorso è stato pubblicato in seguito e il suo titolo rende chiaramente l’idea che l’autore sostiene: L’egoismo è inutile – Elogio alla gentilezza. Superfluo dire quanto le sue parole costituiscano una lezione fondamentale per tutti noi, da ascoltare e condividere.

Seguiamo passo dopo passo l’intero discorso. Innanzitutto, in ognuno di noi c’è una tendenza – una malattia, per usare il termine che preferisce Saunders – che è l’egoismo. La stessa tradizione filosofica ci ha parlato di quest’ultimo: Hobbes, per esempio, afferma che gli interessi di ciascuno di noi sono diversi da quelli degli altri e, dunque, siamo portati a metterci in primo piano, attuando atti di egoismo. Tendiamo (se naturalmente o non e quanto frequente sono questioni molto discusse) all’egoismo, al bellum omnium contra omnes, per difendere i nostri interessi e farli prevalere. Per questa malattia esiste, però, una cura: la gentilezza.

Indipendentemente dalla nostra natura, che sia di homo homini lupus (“l’uomo è un lupo per l’uomo” hobbesiano) o zoon politikon (“animale politico” aristotelico) – ovvero: sia che la nostra natura tenda all’egoismo sia che tenda alle relazioni con gli altri – potrebbe ritenersi necessario attuare la cura, ovvero una gentilezza che consista di atti di aiuto e altruismo verso gli altri. Non si tratta di dover mettere tra parentesi il nostro io, autocausandoci danni o autoponendoci in difficoltà. Si tratta, piuttosto, di trovare un equilibrio e, pur tenendo in grande considerazione il nostro benessere, porre attenzione alle necessità altrui e mettere in atto una gentilezza che ci richiede di non rimanere neutrali di fronte alla sofferenza altrui, o alle esigenze altrui. Si tratta di rispondere all’appello a cui ci richiama il volto dell’Altro, usando un’espressione di Levinas. Questo giova anche alla nostra coscienza, poiché non reagire di fronte alla sofferenza altrui potrebbe portarci al pentimento causato dal non avere agito per l’Altro.

Vediamo l’esempio pragmatico di Saunders. L’autore si chiede: “Se guardi indietro, che cosa ti dispiace?” Ci racconta che, in seconda media, arrivò nella sua classe una nuova compagna, Ellen. Quando era nervosa, Ellen si metteva una ciocca di capelli in bocca e la masticava. I compagni molto spesso la prendevano in giro e Saunders, ora cresciuto, si pente di non essere mai intervenuto. La reazione di lei alle prese in giro era chiara: rimaneva a occhi bassi, rannicchiata, quasi volesse sparire dopo le offese ricevute. Era come se le parole negative altrui le ricordassero il posto che le apparteneva, un posto nascosto, non tra la gente, un posto in cui nessuno la potesse e dovesse guardare. Dopo poco, lei traslocò e Saunders non l’ha più vista. Dopo quarantadue anni, lui si pente non perché abbia compiuto del male, ma perché non è stato gentile. Si pente di tutte le volte in cui, e questa era una di quelle, la sofferenza altrui era davanti ai suoi occhi e lui ha reagito con neutralità.

Si interroga allora sul perché: perché siamo abituati a rimanere neutrali di fronte alla sofferenza? Perché proviamo difficoltà nell’agire con gentilezza? Perché l’egoismo è radicato in noi? Tre sono i paradigmi che, secondo Saunders, causano questa condizione odierna: ciascuno di noi si sente centro dell’universo, separato dall’universo, e dunque anche dagli altri, ed eterno. Qualcuno si sentirà innocente, altri si sentiranno presi in causa ma la verità è che tutti siamo protagonisti di questa visione egocentrica della realtà: a livello razionale sappiamo che i tre paradigmi non sono veri, ma a livello viscerale ci crediamo perché riteniamo che la nostra storia personale sia più importante, e ciò è, potremmo dire, naturale perché conta in modo diverso da quella degli altri, proprio in quanto nostra.

La lezione di Saunders è chiara: non dobbiamo aspettare per essere gentili. Non dobbiamo dirci che lo saremo domani, dalla prossima settimana, in un futuro non precisato. Iniziamo sin da subito a praticare la gentilezza. E basta poco, basta un sorriso, un grazie, una parola.

«Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso»1.

 

Andreea Elena Gabara

NOTE
1. Judy Foreman, frase scritta con vernice sul muro di un magazzino.

 

[Photo credit Matt Collamer via Unsplash]

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La scrittura e la vita. Intervista a Chiara Gamberale

Chiara Gamberale, nata a Roma nel 1977, è una scrittrice e conduttrice radiofonica e televisiva. Laureata presso il DAMS di Bologna, ha pubblicato il suo primo romanzo Una vita sottile nel 1999, dando così inizio alla sua carriera professionale che spazia in numerosi ambiti. Tra i numerosi altri libri pubblicati, l’ultimo, Il grembo paterno, ha avuto un successo davvero notevole. Oggi si dedica a un podcast, Gli slegati, prodotto da Chora Media, e alla sua scuola di orientamento creativo, CreaVità. La sua produzione letteraria non è, però, mai ferma dato che a marzo presenterà il suo nuovo libro.

In quest’intervista, parleremo delle relazioni che intercorrono sia tra noi e gli altri che tra noi e il nostro io interiore. Lasciamoci trasportare dalle parole delicate della Gamberale, che riesce a parlare al nostro io interiore e a farci riflettere su ciò che di più complesso c’è da comprendere: la vita. Buona lettura!

 

Andreea Elena GabaraCara Chiara, la sua vita professionale è decisamente poliedrica. Vorrei, infatti, iniziare chiedendole non di un suo libro ma del suo podcast, Gli slegati. Chi sono gli slegati a cui dà voce?

Chiara Gamberale – Gli Slegati li riconosci con lo sguardo, sono persone che non accettano soluzioni precostituite. Sentono, anzi sentiamo, la vita con cuore, ma la viviamo con la testa. Sono coraggiosi o impauriti, non capisci dove inizi una e finisca l’altra. Sono persone che all’amore chiedono troppo o troppo poco.

AEG – Le puntate del podcast indubbiamente parlano a tutti noi di tutti noi. Come possiamo convivere con il dualismo che ci caratterizza in quanto slegati, ovvero il contrasto tra voglia e paura dell’altro e la tendenza a slegare e allo stesso tempo legare relazioni?

Chiara Gamberale – Potremmo affidarci alla Preghiera degli Alcolisti Anonimi: Dio aiutami a cambiare quello che di me posso cambiare e ad accettare quello che non posso cambiare. Credo fermamente nell’imperativo greco del conosci te stesso… Chi non s’inganna non inganna. Qualsiasi sia il suo fisico emotivo e il tipo di relazione dove quel fisico può crescere, ma senza farlo apposta…

AEG – Viviamo in una società in cui i legami affettivi, a differenza del passato, tendono ad avere breve durata. Per usare un’espressione di Zygmunt Bauman, gli amori sono tendenzialmente liquidi e ci scappano dalle mani, impedendoci di creare relazioni durature. Secondo la sua personale opinione, come mai avere una relazione duratura oggi è così difficile?

Chiara Gamberale – Provo a rifletterci ne Il grembo paterno (Feltrinelli 2021) e ci ho messo quasi duecento pagine per farlo… È una questione troppo complessa per risponderle in poche righe, ma in estrema sintesi credo che oggi siamo più liberi di sentire solo con il nostro cuore e pensare solo con la nostra testa, e questa libertà può rischiare di confonderci anziché orientarci.

AEG – In ogni puntata chiede se slegati si nasce o si diventa. Lei come risponderebbe a questa domanda?

Chiara Gamberale – Secondo me gli Slegati si riconoscono da sempre, dalle medie, dal liceo. Con questo podcast, però, non voglio insegnare niente, né dare risposte, solo incoraggiare le persone a provare a capire chi siamo davvero.

AEG – La famiglia è un tema fondamentale sia del podcast che del suo romanzo Il grembo paterno. Concentriamoci sulla nascita di un/a figlio/a: come affrontare l’arrivo di un tu che si contrappone all’io e al contempo lo riflette?

Chiara Gamberale – Io con l’io ci ho giocato in tutti i romanzi; è sempre stato un contrapporre la vita reale alla fantasia. L’unico modo per non cadere nella tentazione di un tu che si mangi tutto l’io è, forse, restare in contatto. Se restiamo in contatto con noi stessi e con i nostri figli forse potremmo farcela.

AEG – Lei dà molta importanza all’io bambino che ciascuno di noi percepisce in sé e che, secondo lei, ha un ruolo cruciale in qualsiasi relazione. A questo io si accompagna la voce bambina a cui tutti noi dobbiamo dare ascolto, la voce che dà vita all’arte. Come riscoprire questa voce e permetterle di farsi spazio nella nostra mente e nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Durante una delle lezioni di CreaVità, la mia scuola di orientamento creativo a cui abbiamo messo le ali quest’anno, propongo un gioco: far scrivere alla bambina o al bambino che siamo stati una lettera indirizzata a qualcuno con cui sentiamo di avere un dialogo ancora in sospeso, qualcosa da dire e sentire. Questa immersione nel Laggiù dà dei risultati potentissimi di cui all’inizio neppure io mi ero resa conto.

AEG – Tra le cose a cui ha dato vita per far riscoprire alle persone questa voce c’è CreaVità, Percorso di Orientamento Creativo. Nel presentare questo spazio in un programma televisivo, lei ha spiegato ai giovani che l’assenza di stimoli e il vuoto sono necessari per capire chi si è. Dato che viviamo in un mondo di sovrastimolazione, cosa possiamo fare per isolarci dagli stimoli continui e tornare in contatto con la nostra persona più profonda?

Chiara Gamberale – Scrivere quella lettera, per esempio. Ritrovare il privilegio della noia, del tempo lento. Credo nel potere dell’arte, a me la letteratura ha salvato la vita; attraversare se stessi usando musica, libri e corpo mi pare un primo importantissimo passo per ri-sentirsi parte di qualcosa.

AEG – Visto che stiamo parlando di mancanza e assenza, mi fa piacere ricordare il suo libro Qualcosa (Longanesi, 2017), favola morale in cui la protagonista Qualcosa di Troppo, che è sempre stata troppo in tutto, si trova di fronte a una mancanza, precisamente la morte della madre. Questo aiuterà Qualcosa di Troppo ad affrontare i limiti e le fragilità. Le mancanze e i limiti sono, quindi, essenziali nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Senza dubbio ci permettono di avere uno sguardo trasversale, nuovo. Dal vuoto e dall’impossibilità nascono le idee, quindi i passaggi segreti. Se io non fossi stata una bambina con dei limiti non avrei mai iniziato a scrivere.

AEG – L’arte, che ha descritto come una missione, uno strumento e anche una possibilità di terapia, aiuta a conoscere e affrontare quello che non si ha, cioè i nostri limiti?

Chiara Gamberale – Esattamente. Grazie ai passaggi segreti di cui ho parlato prima, lungo quel tragitto, sento che l’arte ha la sua migliore possibilità di realizzazione. Da lì in poi è tutta una terapia a forma di abbraccio reciproco, e viceversa.

AEG – Immagino che lei sia particolarmente d’accordo con Simone Weil quando scrive che «dentro ogni limite abita un Dio». Cosa significa per lei questa frase?

Chiara Gamberale – Che ci innamoriamo dell’umano e poi invece, da noi stessi, pretendiamo il divino; crediamo anzi che il divino abbia a che fare con l’assenza di limiti, ma non è così. Invito tutti e me stessa ad abbracciarli e coccolarli, i limiti, per le possibilità impensabili che ci offrono.

AEG – Come ultima cosa, dato che abbiamo varcato la soglia del mondo della filosofia, citando Simone Weil, ci tengo a chiederle cosa sia per lei la filosofia e se abbia influenzato la sua vita professionale.

Chiara Gamberale – Sono da sempre affascinata dalla filosofia, ma alla letteratura ho dedicato la mia esistenza. Ricorda cosa sosteneva Gramsci? Che la filosofia mette le mutande al mondo, la letteratura gliele toglie…

 

Andreea Elena Gabara

[Photo credit Feltrinelli]

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Binario 21: la Memoria come vaccino contro l’indifferenza

Oggi, 27 gennaio, si celebra il Giorno della memoria dedicato alle vittime dell’Olocausto. Questa ricorrenza ci chiede di non dimenticare la violenza inutile della Shoah e ci ricorda di mantenere attiva la nostra memoria. Ricordare non è, infatti, così semplice come qualcuno potrebbe pensare, soprattutto in una società come la nostra, focalizzata sul presente. Proprio per questo, oggi è fondamentale fermarsi e soffermarsi sul passato, anche se doloroso e difficile da affrontare.

Come anticipato, ricordare non è semplice. Perché? Perché non si tratta solo di pensare a ciò che è successo ma è necessario anche agire. L’agire concreto può avvenire in diverse forme: leggere, chiedere, conoscere, parlare, approfondire e visitare. Concentrandoci sull’ultima, tra i luoghi da visitare per meglio comprendere la storia della Shoah vi è il Memoriale della Shoah a Milano, sviluppatosi intorno a Binario 21, luogo da cui partirono le deportazioni naziste verso i campi di concentramento e sterminio. Binario 21 era il luogo, sotto la stazione di Milano Centrale, dove arrivavano uomini, donne, bambini e anziani che venivano spinti con violenza e infilati nei vagoni. Caricati come merci, partivano su questi vagoni per una destinazione ignota. Da qui, è iniziato anche il viaggio agghiacciante di Liliana Segre. Le parole della senatrice – che si batte perché non si commettano più atrocità simili e non si dimentichi ciò che è accaduto, – spiegano la relazione tra memoria e indifferenza:

«Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare».

Grazie a questa frase comprendiamo perché, accedendo al memoriale, ci si trova di fronte a un lungo muro in cui è incisa la scritta Indifferenza, scelta proprio da Liliana Segre.

«Ho visto e ho provato quanto l’indifferenza sia molto più grave della violenza stessa. La violenza non ci trova di solito impreparati. Dalla violenza cerchiamo di difenderci, magari nascondendoci, preparandoci a combatterla. Ma combattere l’indifferenza è impossibile, è come una nuvola grigia che incombe e non sai dov’è il tuo nemico. In fondo non è un tuo nemico, non fa nulla. Ma è terribile non fare nulla, voltare la faccia dall’altra parte».

Le sue parole ci ricordano che chi è indifferente non è innocente, ma complice della violenza e, dunque, colpevole. Così come l’indifferenza ha portato allo sterminio durante la Seconda Guerra Mondiale, oggi l’indifferenza contribuisce all’odio e alla violenza che quotidianamente colpisce chi è debole, diverso o considerato estraneo rispetto al concetto di “normalità” che, seppure non dovrebbe esistere, qualcuno ancora oggi sostiene. Il male ci coinvolge, sia direttamente che non, e noi non possiamo e non dobbiamo fare finta che non esista: ciascuno di noi deve impegnarsi a contrastare la violenza, fisica o verbale, che persiste nella nostra società.

Foto verticale

Proprio questo è l’intento del progetto artistico Binario 21, ideato dal coreografo Matteo Mascolo e dalla ricercatrice e scrittrice Bianca Pasquinelli: condannare l’indifferenza e incoraggiare la memoria. Si tratta di un’opera coreografica di danza contemporanea nata da sei giorni di introspezione in cui Matteo, Bianca e sei danzatrici (la sottoscritta, Chiara Riva, Costanza Costantini, Giada Biglieri, Giulia Zandarin e Letizia Ferrario) hanno investigato i temi dell’indifferenza e della memoria. Attraverso il movimento dei loro corpi, le danzatrici hanno voluto dare forma a queste parole del coreografo Matteo: «Ricordare ci permette di combattere l’indifferenza e tentare di non commettere più non solo i gesti atroci che hanno segnato la storia, ma di prevenire anche i gesti di violenza quasi invisibile che possiamo trovare nella quotidianità».

 

Oggi dobbiamo ricordare il passato per capire che la violenza e l’indifferenza sono mali che colpiscono chiunque. Il seme della violenza è, infatti, sempre presente tra noi e basta poco perché dia vita ad atti inaccettabili contro gruppi, ristretti o meno, di uomini. Noi non possiamo e non dobbiamo in alcun modo dare a questo seme terreno fertile in cui vivere. Impegniamoci piuttosto a coltivare e praticare gentilezza, bontà ed empatia, curandoci della nostra coscienza e, soprattutto, della vita altrui.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit dell’autrice]

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Inconscio e arte in Hieronymus Bosch

Hieronymus Bosch, pittore olandese attivo tra fine 1400 e inizio 1500, è noto per la complessità delle sue opere. Il suo linguaggio artistico è sicuramente singolare, caratterizzato da figure oniriche e luoghi curiosi, popolati da creature fantastiche e mostruose. Questo artista eclettico è protagonista di una mostra a Palazzo Reale (Milano) in quanto emblema di un Rinascimento alternativo, contrapposto al Rinascimento che fa perno sul mito della classicità. L’altro Rinascimento di Bosch è composto da mondi onirici, composizioni affollate, in cui loci amoeni, ovvero luoghi incantevoli, sono dipinti vicino a città incendiate e sono popolati da mostriciattoli, uomini con volti spaventosi e ibridi animali. Nonostante ciò, da lontano le sue creazioni possono sembrare ordinari dipinti rinascimentali.

Bosch è un artista davvero enigmatico: la sua vita tranquilla di uomo religioso si contrappone a un’arte in cui vengono alla luce demoni con sembianze di uomini, animali e/o oggetti. Queste figure informi passano dalla mente dell’artista alla tavola, immersi in ambienti fantasiosi e inquietanti, e sono figure che ben si inseriscono nella cultura del tempo di Bosch: rappresentano speranze e timori che si respiravano in un Medioevo agli sgoccioli. Il pittore mette in scena un mondo la cui unica certezza era la miseria di ogni singolo individuo, dovuta a una morale sempre conflittuale. Questo conflitto interno non è, però, legato solamente agli uomini di quel periodo, ma è presente in ciascuno di noi come continua guerra tra bene e male. Quello di Bosch è un monito: il male non è qualcosa di relegato all’aldilà, bensì è presente nella nostra realtà. La follia dell’umanità ci ricorda e il peccato e il male sono abissi in cui chiunque può cadere. Bosch, dunque, rappresenta le conseguenze di una vita totalmente lasciva e dedita al male, come vediamo nel Trittico del Giardino delle delizie (1480-1490).

Al di là delle motivazioni razionali che legano Bosch alla sua arte, non possiamo non pensare che egli sia un perfetto esempio di alcune riflessioni della psicanalisi sull’arte. Freud, per esempio, dedica una serie di saggi all’arte come sublimazione e come terapia. Il processo di sublimazione consiste nel rendere i nostri impulsi, anche quelli più infimi, attraverso un veicolo socialmente accettato. Gli aspetti dei processi creativi non sono mai sotto controllo cosciente dell’artista proprio perché l’arte permette di rappresentare le proprie pulsioni, anche quelle più profonde, come afferma Dalton Peggy, psicoterapeuta contemporanea. L’artista prende sempre ispirazione dal suo inconscio creando un mondo di finzione, quasi fosse un gioco infantile. E quale esempio migliore di mondi di finzione creati dall’arte se non le opere boschiane?

L’arte è, dunque, una sorta di terapia, sia per l’artista che per noi spettatori, poiché possiamo interfacciarci con il nostro io, toccando corde nascoste ed emozioni spesso messe a tacere. Freud usa il termine perturbante per descrivere ciò che si prova fruendo un’opera d’arte. Si percepisce, cioè, qualcosa di spaventoso e familiare, per usare un ossimoro caro al fondatore della psicoanalisi: si vuole tenere lontana l’opera ma, allo stesso tempo, si è attratti da essa perché rappresenta il nostro io, più nascosto e più vero. Questa contraddizione spiega chiaramente le sensazioni provate di fronte a un’opera boschiana. Bosch, infatti, è – come ciascun artista o ciascuna persona che crei arte, anche solo per piacere – «uomo che si distacca dalla realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia» (S. Freud, Precisazione sui due principi dell’accadere psichico, 1911). L’arte di Bosch ci ha lasciato, dunque, diverse eredità: il legame tra arte e sogno o incubo ha colpito i surrealisti, che si sono ispirati particolarmente alle opere boschiane, tanto che il pittore olandese viene considerato precursore del movimento. Inoltre, grazie al suo rappresentare vizi e conflitti interiori, Bosch ci permette di riflettere sulla funzione dell’arte, soprattutto in stretto legame con le nostre pulsioni.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit Johannes Plenio via Unsplash]

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Arte e Psiche: come rappresentare la realtà?

La relazione tra un artista e la sua psiche è imprescindibile per ben comprendere le sue opere d’arte. Possiamo, e dobbiamo, pensare ad artisti, come Vincent Van Gogh, Joan Mirò e Paul Cézanne, che fecero della loro psiche, intesa come l’insieme di funzioni emotive, relazionali e cerebrali, l’anima della loro arte. Possiamo anche pensare alla psicoanalisi, tramite la quale il legame tra arte e psiche viene studiato in modo approfondito sin da Freud e Jung.

Cosa intendiamo precisamente con relazione tra artista e psiche? Patrick McGrath in Follia (1996) parla di questo legame e ce ne fornisce una lettura. Ci racconta di un artista che riflette i turbamenti e le alterazioni del suo carattere nelle sue sculture, in un’ottica diversa da quella che ci immagineremmo. Questo artista è Edgar, protagonista di una relazione molto complessa con Stella, moglie del vice direttore del manicomio, in cui lo stesso Edgar Stark è detenuto per uxoricidio. I turbamenti di Edgar e la sua malattia si riflettono nella relazione d’amore e nella sua arte, data la sua abitudine a scolpire i visi delle donne amate.

«Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso» (P. McGrath, Follia, 1996).

Così viene descritto Edgar. In effetti, notiamo che il suo isolamento sociale è evidente, proprio come quello di Stella, e può essere ritenuto una delle cause della loro dipendenza affettiva. Un isolamento, il loro, in cui lei si lasciava ritrarre e lui dava sfogo alla sua psiche sotto forma di materia. Lui rappresentava Stella, ne scolpiva la testa ma lasciava trasparire dalle sue opere un animo mosso da sentimenti forti. «Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme» (ivi). L’arte di Edgar, dunque, scaturisce da un isolamento dal resto del mondo, da una relazione complessa e dai sentimenti che tutto ciò può portare. La sua arte è una valvola di sfogo e lui non può assolutamente rinunciarvi, perché è il suo modo di cercare la realtà. Cosa intendiamo con l’espressione ricercare la realtà? Edgar e Stella discutono proprio di quella che è, secondo lui, la funzione dell’arte.

Edgar, infatti, ritrae la testa di Stella ma ritiene di non riuscire a plasmare quello che si agita nella sua mente, ciò che lo tormenta. Stella gli chiede come mai la sua scultura non abbia i contorni e lo chiede perché l’assenza di contorni le sembra indicare una non conoscenza, come se lui non sapesse chi lei è. L’artista, però, le risponde che proprio ciò che non vuole è vedere Stella, vederla come si vede lei allo specchio o come la vedono gli altri. Vuole semplicemente cercare un’immagine realistica, la realtà. Stella non riesce a capire cosa intenda.
Lui, però, sa bene come definire la realtà: la realtà è ciò che meramente vede, liberata da ciò che sente. Questa è la realtà, e la verità. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel dialogo, visto che, dopo aver detto queste cose, Edgar scoppia a ridere, ma possiamo immaginare che l’artista voglia liberarsi da ciò che sente e dai tumultuosi istinti che ha, dalla sua paranoia e dalla sua malattia. Possiamo immaginare che la realtà per lui sia senza contorni, senza linee definite esattamente come lo è la sua psiche. La scultura indefinita, dunque, rappresenterebbe sia la realtà esterna, spoglia di sensazioni, sia quella interna, frammentata e indecifrabile.

Ecco che il cerchio si chiude e noi comprendiamo come l’arte sia riflesso della psiche: in questo caso l’artista non trasmette i contenuti della sua anima, i suoi turbamenti, ma piuttosto il modo in cui percepisce la sua psiche, caotica e sfocata, agitata e anche ambigua. La realtà, dunque, oggetto della sua arte, altro non è che la cornice in cui l’identità dell’oggetto della sua arte e l’entità delle sue emozioni sono sfocate e indecifrabili.

 

Andreea Elena Gabara

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Visioni dell’amore: il confine dei corpi tra Platone, Klimt e Munch

Parlare di amore è complicato eppure lo si è sempre fatto; tra le discipline che più hanno contribuito alla discussione sull’amore troviamo l’arte e la filosofia. In filosofia, già con Platone, leggiamo spiegazioni su questo sentimento, soprattutto attraverso il mito, a cui spesso ricorre il filosofo ateniese. Tra i miti troviamo quello dell’androgino, raccontato da Aristofane nel Simposio platonico.

Chi è l’androgino? In origine esistevano tre generi, secondo questo mito: quello femminile, quello maschile e quello androgino, che aveva sia caratteristiche maschili che femminili. Gli androgini erano figli della luna, figure rotonde, con dorso e fianchi formanti un cerchio, quattro mani, quattro gambe e sopra il collo due facce simili in tutto e parti della stessa testa. Gli androgini tentarono di scalare il cielo per assalire gli dèi e, a causa di queste intenzioni superbe e della loro forza, Zeus decise di separarli in due così da indebolirli. Ciascuna metà, però, aveva nostalgia dell’altra e la cercava. Così sarebbe nato l’amore: una ricerca della metà perduta. Una ricerca, però, vana perché ciò che le metà desidererebbero sarebbe il ritorno all’unità originaria, che non sarà mai possibile. Ed è proprio per questo che, quando si ama, l’anima dell’uno desidera dell’altro qualcosa che non sa esprimere, eppure «vaticina ciò che desidera e lo manifesta per enigmi» (Platone, Simposio, 191d). L’amore è quindi il desiderio dell’intero, della fusione con l’altro, dell’androgino.

Come fosse fisicamente l’androgino è ben spiegato da Platone e numerose sono le sue rappresentazioni artistiche. Quello che vediamo in queste ultime è l’indefinitezza dei confini dei due corpi: essendo uno solo l’androgino, non si capiva dove finisse un corpo e dove l’altro, dove finisse la parte maschile e dove quella femminile. I confini sono poco chiari, i due corpi sono fusi, non divisi.

L’indefinitezza dei corpi è come quella che si ha in un abbraccio. Se pensiamo a L’abbraccio o al Compimento (1905-1909) o a Il bacio (1907-1908) di Gustav Klimt, notiamo che i confini tra i corpi degli amanti sono come quelli descritti da Platone: incerti, evanescenti e labili. Nonostante, attraverso piccoli dettagli visivi, siano rese evidenti le differenze tra il mondo dell’uno e dell’altro amante, viene rappresentata la loro fusione, una fusione in un luogo astratto mostrata attraverso da un abbraccio etereo e tenero. Lei, con gli occhi chiusi e un volto estatico, è simbolo di un totale abbandono all’unione.

Anche Munch rappresenta un bacio tra due amanti, ma ciò che trasmette è totalmente diverso. Egli non ha intenzione di mostrare la tenerezza quanto, invece, l’angoscia. Osservando la sua opera Il bacio (1897), lo spettatore non vorrebbe immedesimarsi nei due amanti ma piuttosto allontanarsi da essi, scappare attraverso la finestra che fa da sfondo e che illumina il quadro. Quello che vede è sì una fusione, ma una fusione inquietante. Strindberg, di fronte all’opera di Munch, scrisse che la coppia rappresenta «una fusione di due esseri umani, dei quali il più piccolo, nelle sembianze di una carpa, sembra pronto per divorare il più grande» (S.W. Cordulack, Edvard Munch and the Physiology of Simbolismo, 2022). Questa è anche un’estasi ma «sembrano un orecchio abnorme… sordo nell’estasi del sangue» (ibidem).

I confini di questi due amanti sono davvero difficili da riconoscere perché l’amore, per Munch, rappresenta la perdita della propria identità e della propria persona, il divenire un’unica forma indefinita. Se amare significa perdere la chiarezza di sé, però, per Munch l’amore non può che essere qualcosa da cui fuggire.

L’amore, quindi, non è solo unione di menti, ma può esserlo anche di corpi. I confini tra due persone svaniscono e diventano quasi inesistenti di fronte alla volontà, e forse alla necessità, di questa fusione. I confini e i conflitti dei due corpi creano armonia, esattamente l’armonia dell’androgino, nell’opera di Klimt, e creano, invece, inquietudine nell’opera di Munch. Platone, Klimt e Munch ci presentano visioni dell’amore; noi dobbiamo capirne limiti e possibilità, per applicare la riflessione alla quotidianità, per trovare la nostra prospettiva. Dobbiamo confrontarci con le visioni altrui, per cercare o creare la nostra, nell’abisso delle emozioni.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Marco Bianchetti via Unsplash]

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Alterità e perdono: i rapporti duraturi seguendo Recalcati

Quotidianamente constatiamo di vivere in una società frenetica, che corre incessantemente senza permettere alcun momento di pausa. In una società così caratterizzata, chiediamoci come risulta essere il rapporto con l’alterità, con l’Altro, che si inserisce nel tempo che abbiamo a disposizione per correre e, tendenzialmente, ci porta a rallentare il nostro incedere. In questa realtà, le relazioni sono sempre più instabili ed effimere, nel senso etimologico della parola poiché durano poco, quasi un giorno solo (epì eméra = per un giorno). Sono relazioni liquide, come direbbe Zygmunt Bauman, i cui legami e vincoli sono fragili, deboli e incerti non solo nel domani, ma anche nel presente. E ciò a cosa può essere dovuto se non alla nostra voglia di correre per soddisfare immediatamente tutti i nostri desideri, senza alcuna attesa? Al per sempre, quindi, non viene dato modo di esistere e Massimo Recalcati (Milano, 1959) se ne rende conto, come racconta in una sua intervista:

«L’amore non è destinato a durare ma a spegnersi in breve tempo. Il suo doping ha il fiato corto. Le coppie non credono più al matrimonio, al vincolo del legame, si disfano più facilmente. Il nostro tempo è il tempo, come direbbe Bauman, degli amori liquidi.»

Soffermiamoci sulla relazione più totalizzante, sulla cui durata, però, noi non abbiamo più tempo di interrogarci, poiché ci risulta naturale pensare all’amore come qualcosa di passeggero. Eppure esiste la possibilità di un amore duraturo, che in certi casi è anche il risultato di un lavoro sul perdonare l’altro, sforzo che si nasconde dietro a questo sentimento malleabile. Se la società frenetica tende a plasmare l’amore con le categorie che identificano la realtà, cioè incertezza, mutamento continuo e fugacità, noi, con la riflessione, possiamo esprimerci su un lavoro lento e faticoso, un lavoro che richiede tempo e impegno.

«L’amore eterno non esiste. Eppure esiste la promessa, l’aspirazione degli amanti a rendere il loro amore eterno.»

Il per sempre, dunque, non ci è garantito: sta a noi renderlo realtà e volerlo fare non è mostrarci immaturi bensì trasformare l’eventualità dell’incontro con l’altra persona nella continuità di una relazione. Per far ciò potremmo dover perdonare, ma perchè farlo?
Nel momento in cui l’Altro ci volta le spalle, la sua presenza subisce un’eclissi traumatica: ci dobbiamo confrontare con un vuoto che l’Altro ha creato nella nostra vita e in noi, come persona. La sua assenza è una perdita, senza dubbio, ma non una perdita irreversibile: per questo sarà il soggetto a doversi chiedere, nel caso in cui l’oggetto del perdono voglia riprendere il discorso amoroso che lui stesso ha frantumato, se decretare una fine definitiva dell’amore o richiamare l’altro alla presenza.

«Sono io a decidere se la sua immagine deve morire o no.»

Dovrà chiedersi se perdonare, se intraprendere un lavoro sulla sua imperfezione, non sull’imperfezione dell’Altro, un lavoro che permette di giungere faccia a faccia con le contraddizioni e i contrasti quotidiani della nostra vita. Il perdono non potrà cancellare la ferita, e nemmeno ricomporre il vaso, per ridargli la forma precedente la caduta, ma potrebbe permettere di amare l’altro nella sua più radicale libertà, che aveva offeso la promessa e frantumato l’immagine inedita della realtà. Il rapporto con l’Altro non sarà lo stesso di prima, perché la nostra percezione dell’Altro sarà cambiata, dato che lui ha subito una metamorfosi: da anima totalizzante si è eclissato con il tradimento e ora tenta di riaffermarsi nella nostra vita.

In una società così dedita all’hic et nunc, al qui ed ora, permettiamoci di rischiare per una promessa, di concederci di perdonare, se sentiamo che la felicità si trovi al di là del correre incessante. Concediamoci di tornare sui nostri passi, concediamoci un gesto gratuito di perdono per essere liberi di ricercare rapporti duraturi, in un’epoca che ci inonda di sensazioni effimere. Permettiamoci di vivere la fiducia in un mondo nuovo, creato dall’unione dell’Io e dell’Altro.

Andreea Gabara

[Photo credit Alex Schute via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Alla riscoperta della tenerezza

È raro sentir parlare di tenerezza, forse per il suo essere un sentimento delicato e sensibile, che fa poco rumore nel rapportarsi all’alterità. Quotidianamente, infatti, parliamo di gentilezza, rabbia, bontà, ma non di tenerezza, quasi fosse un sentimento dimenticato dal nostro tempo, e la ragione di questa dimenticanza può essere dovuta alla delicatezza di quest’emozione poco totalizzante, al suo fungere quasi da sfondo delle nostre percezioni. Se percepiamo amore e rabbia come un fuoco, come sensazioni che bruciano, la tenerezza è semplicemente leggero calore.

Nonostante quest’eclissi della tenerezza, non appena abbiamo a che fare con bambini e anziani in particolare, ma anche con le persone in generale, possiamo riscoprirne il significato e svelarne la natura. Non si tratta semplicemente di gentilezza ma di un sentimento di fiducia verso l’altro e di leggera commozione, una sensazione che fa capire a chi la prova di essere poco resistente, fragile e dunque soggetto a emozioni e sentimenti. È un sentimento che funge da indice del nostro arcipelago di emozioni, per usare un’espressione di Eugenio Borgna, e che proviamo spontaneamente.

Riscoprendo la tenerezza, la scarsa resistenza, comprendiamo quanto sia giusto prendersi cura di essa e prendersi cura del proprio corpo e della propria mente, ma anche di quelli altrui. Riconoscendo ciò, scopriamo l’umanità che ci accomuna e possiamo ricercare l’armonia, una consonanza che non sia solo di voci. Ad essa, però, ci si deve educare per proteggere i rapporti dall’indifferenza e dalla noncuranza, le più grandi dimostrazioni di inumanità. Ci si deve educare alla tenerezza per evitare che le relazioni perdano di nitidezza e svaniscano. Si deve tentare di provare tenerezza perché questo vorrà dire desiderare che tutti gli esseri siano felici, come dice un mantra indù, e agire in vista di ciò, come se fosse la nostra legge morale.

Ci si deve educare e, anche se forse non lo crediamo, i maestri che possono aiutarci sono tanti: Eugenio Borgna in Tenerezza parla di Leopardi, Pascoli, Sant’Agostino, Rilke. Tra questi, Leopardi in La sera del dì di festa, scrive:

Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente.

L’accostamento della fine del giorno di festa e del canto solitario che l’io lirico sente a distanza, dà origine sia all’angoscia dovuta alla caducità del mondo sia a parole caratterizzate da una tenerezza fuggitiva ed eterea. Proviamo un senso di commozione nel leggere queste riflessioni esistenziali e nel renderci conto che l’io lirico racconta ciò che anche noi abbiamo sicuramente già provato; racconta di aver atteso una felicità, e, dopo averla vissuta, di aver capito quanto fosse vana. Nel leggere le parole dell’io lirico ci immedesimiamo, e riconosciamo in lui alcune nostre fragilità. Proprio da ciò scaturisce la tenerezza.

La tenerezza di cui parliamo, però, non esula e non nasconde, come potrebbe sembrare, la realtà cruda. Le parole di Etty Hillesum, citate anche da Borgna, ci spiegano la simbiosi tra consapevolezza e tenerezza:

«Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così!» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, 1985).

Cos’è, quindi, la tenerezza? Cos’è se non la malleabilità che rende umani? Se non un liberarsi dai confini asfittici? È un anelito di cura, che trascende la consapevolezza della realtà, a volte troppo cruda.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Daria Gordova via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Il velo come simbolo di inconoscibilità in Magritte

Ciò che mi ha sempre attratto di Magritte e delle sue opere sono i volti nascosti che sembrano far trasparire paura dell’alterità e del viso altrui, che viene spesso coperto da vari oggetti, per esempio da veli, oppure non rappresentato perché il soggetto è di schiena. Tra ciò che più copre i visi nelle sue opere c’è il velo bianco, che compare quasi in maniera ossessiva.

Nei due dipinti Gli amanti del 1928, Magritte rappresenta due figure con il volto nascosto proprio da questo velo bianco, probabilmente a ricordare il suicidio della madre, che è stata ritrovata coperta da esso. Questo velo non svela nulla, nessuno sguardo, nessuna fragilità, e rende i personaggi più distanti, quasi eterei, in una dimensione di sogno o di irrealtà. Suscita una sensazione di inquietudine perché i due amanti sono impossibilitati nella loro scelta e nella loro conoscenza. Sono costretti a tenere questo velo e non possono vedersi: non possono guardare il volto dell’altro e non possono dunque nemmeno conoscerlo. Devono vivere un conflitto tra visibile e non visibile, conoscibile e non conoscibile; un conflitto che lacera la relazione. Senza alcuna espressività e senza alcun tocco, i due amanti tentano di amarsi, tentano di baciarsi, danno voce a un amore che però ci sembra destinato a rimanere muto. Il suo essere muto ci attira, perché ci interessa ciò che è nascosto e lontano.

Le interpretazioni date sono numerose: mi convince maggiormente quella che mi sembra ben allinearsi alla filosofia del pittore, ovvero quella che evidenzia l’impossibilità di conoscere non solo la realtà, non solo la pipa che viene dipinta, ma anche le persone con cui ci relazioniamo. Il velo impedisce di conoscere la vera identità dell’altro e questo non ci deve stupire perché siamo spesso impossibilitati anche a conoscere la nostra identità, come si può osservare nel quadro La reproduction interdite. L’interiorità altrui, e per alcuni tratti anche la nostra, non potrà mai essere totalmente conosciuta, ma ci sfuggirà sempre per una sua qualche sfumatura e, soprattutto, sarà sempre filtrata attraverso la nostra esperienza. L’altro è sempre uno, nessuno e centomila, e conoscerlo a pieno è impossibile.

In generale, le opere di Magritte ci portano a riflettere sul nostro vedere e percepire il mondo, mai esaustivo perché, come abbiamo già detto, non solo nessuna persona, ma anche nessun oggetto può essere conosciuto nella sua totalità. Rimarrà sempre inafferrabile ciò che lui dipinge: lo sono sia la pipa sia il volto dei due Amanti.

Con questa riflessione, Magritte è vicino a Socrate: esattamente come la torpedine marina, per usare l’immagine platonica del Menone, essi ci intorpidiscono perché sono intorpiditi a loro volta, fanno sorgere in noi dei dubbi perché loro stessi li hanno, ci trascinano nei meandri perché loro ci sono già giunti. Entrambi vogliono disilluderci: Socrate vuole eliminare l’illusione della nostra mente, Magritte dei nostri occhi. E perché saremmo noi ingenui e illusi? Perché la nostra mente è convinta di sapere, di aver finito la ricerca e di avere raggiunto una o più verità, eppure Socrate ci dimostra che la ricerca della conoscenza è senza fine. Lo siamo, inoltre, perché i nostri occhi sono convinti di poter cogliere immediatamente la realtà, eppure le nostre percezioni automatiche si rivelano erronee. Entrambi pervadono chi sta dall’altra parte delle domande ma non forniscono risposte perché non solo non vogliono, ma non possono. Entrambi sanno di non sapere, di non avere verità da svelare sul mondo. Entrambi sanno che la realtà ha un velo di inconoscibilità che non può essere squarciato.

Il velo, dunque, può essere una condanna sia nella realtà che nella dimensione più piccola delle relazioni. Potremo togliere il velo e svelare il volto dell’altro? O rimarrà sempre un velo, anche non materiale, a impedirci di conoscere? La risposta di Magritte la conosciamo, ora è tempo di articolare la nostra.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Ian Keefe via Unsplash]

la chiave di sophia 2022