Satyricon: il primo romanzo nasce con Petronio

All’interno di una società corrotta, dissoluta, lasciva, dove l’integrità dei costumi è solo un eco dei secoli passati, dove le operette oscene e cafè-chantants dominano la scena culturale e rispecchiano la decadenza morale, nasce del tutto inaspettatamente un nuovo genere letterario: il romanzo. Londra? Parigi? Metà ‘800? Sbagliato. Roma, I secolo d.C.

Ho sempre pensato che tutto quello che si può dire, o pensare, in arte, in politica, in filosofia, insomma nella ‘fabbricazione di idee’, lo abbiano già in qualche modo detto, espresso o almeno abbozzato gli antichi. Vuoi capire Hegel? Studia Platone o Eraclito. Vuoi capire Canova? Studia il canone greco. Vuoi capire Picasso? Studia il canone greco, e pensa il contrario (Picasso senza canone greco sarebbe forse stato davvero un bambino di 5 anni che pocciava una tela. Qualcuno gli disse che lo era comunque. Lui rispose “Magari!”. L’esattezza non la si impara a scuola).

In letteratura, poi, è una battaglia persa. Sai com’è, loro hanno Omero… E’ un po’ come quando, nel campionato NBA ’93-’94, un allenatore si trovava a dover sostenere una conferenza stampa dopo una sconfitta dai Bulls: “Cosa volete che vi dica, loro avevano Michael Jordan…”. Uguale.

Se su Jordan qualcuno ancora dubita (non so con che coraggio ogni tanto sento ancora pronunciare il nome di Wilt Chamberlain), Omero pare mettere tutti d’accordo: tutto quello che è definibile “letteratura” è, in qualche modo, riconducibile a lui. Iliade: il conflitto. Odissea: il viaggio. L’amore e il fato, sempre. Non resta molto altro. E tuttavia, esiste un altro autore che, dopo l’enorme balzo di Omero ha compiuto un decisivo passo verso la modernità. Il suo nome è (probabilmente) Petronio, scrittore del Satyricon.

Il Satyricon, opera a noi giunta gravemente mutilata, è, per la prima volta nella storia, definito ‘romanzo’. Se però consideriamo che il termine ‘romanzo’ è nato intorno al 1400, Petronio ha scritto una cosa che, per più di un millennio, non ha neanche avuto un nome. E anche quando lo ha ottenuto, ha dovuto aspettare altri 300 anni, fino al 1700, perché qualcosa gli assomigliasse davvero (fatta esclusione per Le Metamorfosi di Apuleio, l’unico altro grande romanzo antico). Perché è stato possibile questo? Come ha fatto Petronio a essere precursore, con così largo anticipo, di un genere letterario del tutto nuovo? E’ stato possibile proprio grazie alla distanza che è riuscito a mettere tra la sua opera e quella di Omero, che il filologo Auerbach riassume in tre differenze principali, facendo riferimento al capitolo 37, dove viene descritta Fortunata, la moglie di Trimalchione.

“[…] Certamente esistono anche notevoli differenze nei confronti della maniera omerica. In primo luogo la forma del tutto soggettiva, poiché quella che ci viene presentata non è la cerchia di Trimalchione come realtà obiettiva, ma invece come immagine soggettiva, quale si forma nel capo di quel vicino di tavola, che però di quella cerchia fa parte. Petronio non dice: – È cosi -; lascia invece che un soggetto, il quale non coincide né con lui né col finto narratore Encolpio, proietti il suo sguardo sulla tavolata, un procedimento assai artificioso, un espediente di prospettiva, una specie di specchio doppio che nell’antica letteratura conservataci costituisce non oserei dire un unicum, ma tuttavia un caso rarissimo. La forma esteriore di questo raccontare in prospettiva non è affatto nuova, poiché in tutta la letteratura antica vi sono persone che parlano delle loro esperienze e delle loro impressioni, ma o viene impiegata, come nei racconti di Ulisse presso i Feaci o d’Enea presso Didone, soltanto un’esposizione compiutamente obiettiva, oppure si tratta di presa di posizione d’un personaggio di fronte a uomini o avvenimenti, da cui esso, nella cornice d’un’azione, è per l’appunto toccato, e dove dunque l’aspetto soggettivo è inevitabile e naturale anche senza arte. Qui si tratta invece del soggettivismo più spinto, che viene maggiormente accentuato dal linguaggio individuale da una parte, e per intenzione d’obiettività dall’altra, dato che l’intenzione mira, per mezzo del procedimento soggettivo, alla descrizione obiettiva dei commensali, compreso colui che parla. Il procedimento conduce a un’illusione di vita più sensibile e concreta, in quanto, descrivendo il vicino di tavola la compagnia a cui egli stesso appartiene, il punto di vista vien portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna in profondità così da sembrare che da uno dei suoi luoghi esca la luce da cui è illuminata.[1]

“Un’altra distinzione importante nei confronti d’Omero è la seguente. Al vicino di tavola sta molto a cuore, descrivendo quella gente, di mettere in risalto la sua condizione passata in confronto con quella d’adesso. << Et modo, modo quid fuit? >>, così dice di Fortunata; […]. Anche ad Omero piace, come prima abbiamo notato, intercalare notizie sull’origine, la nascita e la vita precedente dei suoi personaggi. Ma i suoi accenni sono di tutt’altra specie, e non ci conducono attraverso il farsi e il trasformarsi dei personaggi, al contrario ci portano a un punto saldo di riferimento. L’ascoltatore greco che ha notizie di mitologia e di genealogia deve riconoscere l’origine e la famiglia delle persone in discorso, deve saperle collocare, proprio come al giorno d’oggi in un chiuso circolo aristocratico o d’alta borghesia si precisa d’un nuovo venuto l’ascendenza paterna e materna. Con ciò si suscita assai meno l’impressione della trasformazione storica quanto piuttosto l’illusione di un’immutabile saldezza della struttura sociale, accanto alla quale il mutarsi delle persone e dei loro destini sembra relativamente senza importanza. Ma in quest’opera di Petronio predomina ciò che è supremamente pratico e terreno, e dunque i cambiamenti di sorte veduti come storia interna; Trimalchione descrive la nascita del suo patrimonio come fatto supremamente pratico e terreno, e anche altrove si trova qualche cosa di simile, ma l’impressione di storia interna È prodotta soprattutto dal metterci innanzi una serie di liberti arricchiti. Difficilmente nelle letterature antiche si trova un brano che come questo mostri con tanta forza un movimento storico intimo.”[2]

E con ciò arriviamo alla terza, e forse più importante differenza dallo stile omerico e alla più importante particolarità del banchetto petroniano: più che qualunque altro scritto dell’antichità esso s’avvicina alla concezione moderna della rappresentazione realistica, e non tanto per l’umiltà dell’argomento, quanto per la descrizione precisa, non schematica, dell’ambiente sociale. La commedia ci dà l’ambiente sociale in modo molto più generico e schematico, in luoghi e tempi molto più imprecisi, ed ha soltanto scarsi accenni al linguaggio individuale dei personaggi; nella satira si hanno parecchi spunti simili, ma la rappresentazione è meno diffusa, bensì piuttosto moralistica e rivolta alla critica di qualche determinato vizio o ridicolaggine; […] infine, la fabula milesiaca, […] nelle opere e nei frammenti pervenutici è così zeppa d’incantesimi, d’avventure, di cose mitologiche, e soprattutto erotiche, che riesce impossibile considerarlo imitazione della vita quotidiana del tempo, per non dir nulla della stilizzazione della lingua anti-realistica e retorica. […] Questi, come un realista moderno, pone la sua ambizione artistica nell’imitare senza stilizzazione un qualsiasi ambiente d’ogni giorno e contemporaneo, e nel far parlare alle persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui sia arrivato il realismo antico.” [3]

Adesso capiamo da dove arriva il naturalismo francese, il verismo di Verga, addirittura il realismo magico di Marquez. Vuoi capire Dickens? Studia Petronio.

Un’ultima considerazione. Trovo magnifico il fatto che i due “padri” della letteratura mondiale, Omero e Petronio, forse non sono nemmeno esistiti. O comunque non si sa chi sono. Sarà anche una visione un po’ panteistica, ma trovo che un “caso Fosbury” sia un mutamento necessario (dello Spirito, direbbe Hegel) che prescinde dalla persona in cui si manifesta, è più grande di lui. In questo senso, il Fosbury più grande di tutti forse è nato a Betlemme.

Insomma, che Omero e Petronio siano esistiti o no, o che siano spariti dopo poco, non conta. Fosbury, Dick Fosbury, dopo quell’oro non ha vinto più nulla. Oggi, per dire, è ingegnere.

Alessandro Storchi

NOTE

[1] E. Auerbach, Mimesis, pagg. 31-36

[2] Auerbach, op.cit.

[3] Auerbach, op.cit.

Peter Gabriel, dal Prog alla World Music

 «La Musica deve elevare l’anima al di sopra di se stessa, deve farla librare al di sopra del suo soggetto e creare una regione dove, libera da ogni affanno, possa rifugiarsi senza ostacoli nel puro sentimento di se stessa» (Hegel).

Il “Progressive”: alcuni musicisti, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, intravidero la possibilità di dare spessore culturale al nuovo genere musicale più in voga nel mondo, il Rock. Così, cominciarono ad interpretare quella musica “popolare” e sostanzialmente leggera attraverso gli occhi e gli strumenti della Musica Colta, del Jazz, del Fusion, e al tempo stesso sfruttarono le enormi possibilità che i progressi dell’elettronica e della tecnologia davano loro. Quindi le canzoni vennero rimpiazzate da lunghe suite musicali, che spesso venivano estese alla durata di 20 o 30 minuti, includendo influenze sinfoniche, temi musicali estesi, ambientazioni e liriche fantasy e complesse orchestrazioni. Per dimostrare quanto questo abbia avuto una portata globale e inclusiva, basti dire che l’unico momento in cui l’Italia ha avuto un peso sulla scena mondiale del Rock è stato questo, grazie, tra gli altri, a PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Area e Le Orme, tutti gruppi Rock Progressive anni ’70.

In Inghilterra, patria del genere, i “teorici” del Prog erano sostanzialmente due: Roger Waters e Peter Gabriel, Pink Floyd e Genesis. Mi rivelo: io preferisco il primo. Credo che con i Pink Floyd si sia raggiunto il punto più alto dell’espressione Progressive, per musiche e testi, ed il merito è assolutamente di Waters. Sono andato qualche anno fa alla tappa di Padova del The Wall Tour per il quarantennale dell’uscita dell’album e, oltre a essere il miglior concerto a cui abbia assistito, ho dovuto registrare il fatto che quella Musica vecchia di quarant’anni è ancora avanti anni luce rispetto a oggi. Avevo da poco sentito in concerto i Muse, a mio parere la punta di diamante del Rock contemporaneo, ma non c’è storia, sono più moderni i Pink Floyd.

I Genesis mi piacciono meno, non posso farci nulla. Forse Peter Gabriel è uscito troppo presto dalla formazione per potersi esprimere al meglio in quella Musica. Forse, visto che anche Phil Collins (il cantante successivo, già batterista del gruppo) mi piace di più da solista, ho un problema personale con “l’amalgama” della band. Fatto sta che Peter Gabriel, in seguito al periodo Genesis, penso sia l’unico ad aver superato quel genere. I suoi primi 4 album, dal ’77 all’82, non hanno un titolo, poiché «volevo che fossero considerati come dei numeri di una rivista più che come opere indipendenti». Il successo arriva subito, con la magnifica Solsbury Hill, e si comincia ad ascoltare qualcosa di nuovo, nonostante l’album sia ancora strettamente legato alle sonorità Progressive e Pop, che verranno perse nel successivo, più sperimentale ma di poco successo. La svolta inizia ad intuirsi con il terzo disco, che vede la collaborazione di Phil Collins, Kate Bush e Robert Fripp, fondatore dei King Crimson, che disse una frase magnifica: «la Musica è il calice che contiene il vino del silenzio. Il suono è quel calice, ma vuoto. Il rumore è quel calice, ma rotto». In canzoni come Biko o Games Without Frontiers si sentono i primi accenni di World Music, che ritroveremo in Us.

Ma il vero Peter Gabriel spaziale è quello degli ultimi tre album. Il terzultimo, So (1986), è il suo lavoro più noto. Da qui in poi non si riesce più a classificare la sua musica con categorie preesistenti, c’è Peter Gabriel e basta. Oltre il Pop, oltre il Rock, oltre la New Age, è un’opera che tiene incollato il mondo intero al giradischi per 37 minuti. Molte tracce sono al vertice delle classifiche e l’artista raggiunge il culmine della popolarità. Il penultimo disco, Us (1992), è, insieme a Heroes di David Bowie, una grande dimostrazione popolare dell’influenza di Kierkegaard nel nostro modo di concepire il singolo, essendo entrambi album che parlano dell’importanza dell’esistenza dell’uomo come parte di una relazione. In particolare però, Us è il massimo raggiungimento commerciale della World Music: in tutte le tracce si sente una marcata influenza di musiche e generi da tutto il mondo, con il richiamo a motivi etnici ed esotici. Subito dopo la sua uscita, infatti, Peter Gabriel rilasciò Plus from Us, una raccolta dei brani che lo hanno condizionato nella scrittura di Us, che contiene tracce di artisti africani, medio-orientali e sud-americani. Infine l’ultimo album, Up (2002), riprende le tematiche cupe e sperimentali del suo secondo lavoro, aggiungendovi però una sapienza tecnica e un’impronta elettronica, che fanno di alcuni pezzi come Signal to Noise dei capolavori assoluti.

Ma la cosa più sconcertante, dal mio punto di vista, è questa: nonostante l’enorme successo commerciale e i milioni di ammiratori nel mondo, non è stato raggiunto da nessun altro artista, si trova ancora anni-luce avanti a qualsiasi altro cantante Rock. E tuttavia, sebbene la musica in particolare nell’ultimo ventennio sia sostanzialmente assoggettata alle logiche di mercato, e vere e proprie espressioni che vogliano portarsi avanti, scoprirsi come avanguardie riuscendo a non restare nelle nicchie non si vedono all’orizzonte, forse un giorno arriverà ancora una voce che spaccherà il vetro della musica commerciale, e sono sicuro che avrà preso da Peter Gabriel. La domanda a questo punto è una, già posta da Massimo Cotto¹, e si crea unendo il titolo degli ultimi tre album: «So, Us Up?», che suona più o meno così: «Allora, siamo pronti?».

Alessandro Storchi

[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
1. Massimo Cotto, Everybody’s talking: 50 interviste alle leggende del rock, Aliberti 2007.

Verso ‘I mari del sud’

“I mari del sud” è la poesia di apertura della raccolta “Lavorare stanca”, pubblicata per la prima volta nel 1936 da Solaria. Essa condensa e intensifica l’intera produzione poetica della raccolta, la quale, come ben mostra Vittorio Coletti[1], è senza precedenti ed in assoluta controtendenza nel panorama letterario italiano. Con “I mari del sud” nasce la poesia-racconto: 102 versi liberi, attentamente scanditi dal serrato ritmo degli accenti, presentano una narrazione ricca di discorsi diretti, aneddoti, flashback. Ma procediamo con ordine.

Nell’appendice alla raccolta l’autore scrive a proposito dell’interpretazione delle sue opere, negando di aver voluto inserire concetti astratti nei suoi componimenti, senza tuttavia negare che essi si possano trovare.[2] In sostanza, il fatto che Pavese non voglia dire nulla più di ciò che è scritto, non significa che non dica di più; anzi, è proprio in questa volontà di non dire altro che dobbiamo addentrarci per cogliere il senso di un dire essenziale. Questo può essere fatto solo mettendosi in ascolto del linguaggio della poesia.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle»

Qui vogliamo muoverci “Verso il luogo” della poesia di Cesare Pavese. Verso il luogo vorrebbe tradurre il termine tedesco Erörterung [Discussione], ben caro ad Heidegger, il quale evidenzia la presenza di Ort [Luogo] all’interno del termine: «Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo. E poi significa: osservare il luogo»[3]. L’idea è che la poesia di Pavese debba essere avvicinata, che mettersi in ascolto del suo dire significhi innanzitutto: osservare un luogo. Proprio perché il linguaggio si fa casa dell’essere, è la poesia stessa a indicare, sin dal primo verso, il luogo (geografico) della vicinanza all’origine.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio.»

La poesia si apre con un verbo che sottintende un “noi”: a camminare sono l’autore ed il cugino. L’atmosfera è fin da subito familiare. L’espressione “una sera” conferisce carattere aneddotico al racconto, molto più di “la sera” o “di sera”, lascia presupporre che fosse una di tante, passate vicino al focolare della propria terra natia. Si intuisce che il colle e la vetta sono componenti del paesaggio delle Langhe, e questo ci viene confermato dal discorso diretto del cugino, nella seconda strofa. Più in generale, l’intera raccolta Lavorare Stanca e la quasi totalità delle opere di Pavese è riferita al luogo della sua origine: l’intero pensiero poetante dell’autore rimanda al proprio Heimat, alla propria terra natia.

«Mio cugino ha parlato stasera»

Nel corso della prima strofa, ricorrono quattro volte termini riferiti al silenzio. La seconda strofa si apre invece all’insegna della parola. Il parlare del cugino è registrato come evento straordinario. Parlerà direttamente altre due volte durante la poesia. Sappiamo però che ciò che leggiamo non coincide con le parole da egli effettivamente pronunciate:

«Tutto questo mi dice e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito.»

La questione del dialetto merita un’attenzione particolare. Martin Heidegger ha dedicato un breve saggio al rapporto tra linguaggio e terra natia:

«Linguaggio, detto dal suo vigere ed essenziare, è di volta in volta linguaggio di una terra natia, linguaggio che si risveglia nativamente e parla della dimora della casa dei genitori. Linguaggio è linguaggio come lingua materna.[4]
[…] Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto. […] Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre, il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua.[5]»

Il linguaggio inteso come terra natia[6] si fa tesi centrale del pensiero di Heidegger, e al tempo stesso intuizione fondamentale della poesia di Pavese. Al ritorno dalla città, l’autore ritrova le Langhe e il dialetto, come un tutt’uno che viene al linguaggio nel suo poetare.

«Tu che abiti a Torino…»

E’ rimarcata più volte la dicotomia città-paese: all’ombra del tardo crepuscolo sul colle si contrappone la luce del faro di Torino, dove si profitta e si gode per poi tornare alle Langhe che non si perdono. E’ un tema, questo, che accompagna tutta la produzione di Pavese: nonostante egli abbia trascorso tutta la sua vita in città, continua a ricordare le colline infantili di Santo Stefano Belbo, e a renderle luogo prediletto di tutta la sua produzione letteraria. Si fa interessante una possibile lettura parallela a quella che Heidegger dà della poesia di Rilke[7]. Si può infatti senza esercitare particolari forzature leggere il senso della distanza tra paese e città come distanza tra modernità e antenati, e quindi tra tecnica e originalità. La città è il luogo dove l’uomo è posto di fronte al mondo: può e deve dominare le cose. E’ il luogo della maturità, degli studi e soprattutto del lavoro: «si profitta e si gode». In quest’ottica risulta chiara dal titolo della raccolta (Lavorare Stanca) la posizione di Pavese a riguardo: ciò che si aspetta, per tutta una vita, è il ritorno (a dimostrazione di ciò va intesa la posizione conclusiva occupata da La luna e i falò nella cronologia delle opere, che si chiudono pochi mesi prima della morte dell’autore con il ritorno all’infanzia nella Valle del Belbo). Lo scontro tra le due realtà avviene nell’aneddoto riguardo al ritorno in paese del cugino, e al suo tentativo di portarvi i motori. La vita nel paese è antecedente all’opposizione soggetto dominante oggetto dominato conseguente all’attuarsi della tecnica:

«Dovevo sapere / che qui buoi e persone son tutta una razza.»

Infine, il parlare della poesia nomina i ricordi del passato del cugino:

«Solo un ricordo gli è rimasto nel sangue»

«Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama»[8]. In questo caso la chiamata è duplice: viene chiamata a noi la chiamata del sogno, si avvicina a noi l’avvicinarsi al poeta dei mari del sud. E’ importante che la poesia si concluda sul tema dell’immaginazione, con la chiamata del ricordo dal luogo della lontananza al luogo dell’origine nel linguaggio. Lo spazio aperto dal linguaggio tra il suo essere vicino e il chiamare da lontano, è l’abisso in cui si fa di casa l’uomo, nel dialetto, nel silenzio, nel ritorno alla terra natia. Questo, appena accennato, è il luogo della poesia di Cesare Pavese.

 Alessandro Storchi

[immagine tratta da Google Immagini]

NOTE

[1] Cfr. Vittorio Coletti, La diversità di Lavorare Stanca in Lavorare Stanca, Torino, Einaudi, 2001
[2] ibidem
[3] Martin Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 45
[4] Martin Heidegger, Linguaggio e terra natia, ed. it. in “Aut-Aut” 235 (1990), p.3
[5] ivi, p.4
[6] Cfr. ivi, p. 24
[7] Cfr. Martin Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968
[8] Martin Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 34

Punto Cinema – And the Oscar goes to…

La notte degli Oscar di Los Angeles è l’Olimpiade del mondo del cinema. Innanzitutto, perché è l’evento più atteso dai fedelissimi e al tempo stesso il più seguito dai tifosi “occasionali”. Quasi tutti, in entrambi i casi, vogliono dare uno sguardo al medagliere, giusto per sapere com’è andata. Quasi tutti vanno a rivedersi i video della cerimonia di apertura, o dell’opening al Kodak Theatre. Molti, prima dei due eventi, si lanciano in una delle attività preferite dagli amanti delle competizioni: i pronostici. Qui però la similitudine finisce, perché sebbene sempre di competizioni si tratti, è relativamente semplice misurare la velocità o la distanza, mentre un metro per misurare il “Miglior attore non protagonista” ancora – che io sappia – non lo abbiamo inventato. Dunque, laddove siamo sicuri che chi salterà più in alto durante la gara vincerà la medaglia d’oro, non siamo invece per nulla certi che il vincitore dell’Oscar a “Miglior film” sarà il miglior film dell’anno (in fondo, cosa ci dice obiettivamente qual è il miglior film dell’anno?).

Quindi, intendo cogliere l’occasione degli ormai prossimi premi Academy Awards 2016 per parlare dei tanti film in corsa, e quindi nelle sale (alcuni già usciti in Italia, altri no), e intendo anche esprimere da buon appassionato di sport i miei pronostici, come giocassi una schedina: quindi osservando la regola per cui non è sempre la squadra più forte a vincere la partita.

Iniziamo con i film in corsa per la medaglia d’oro: “Best Picture”. Ho davvero apprezzato tutti gli otto film candidati, e avrò modo di parlare di tutti, ma bisogna ammettere che questa è sostanzialmente una gara a due. Infatti bisogna tener presente una cosa: nell’ottica degli Oscar il miglior film non è quello con la trama migliore (per quello ci sono i premi alla sceneggiatura), né quello girato meglio (premio alla regia e premi tecnici), né quello meglio interpretato (premi agli attori). Il miglior film è in sostanza, alla luce dei precedenti, quello che riesce a tenere meglio insieme tutti questi aspetti, senza eccellere in uno di essi tralasciando gli altri. Se teniamo presente questo, è inevitabile che i film con più candidature in assoluto siano i favoriti alla vittoria del “Miglior film”. Quest’anno è il caso di “The Revenant” (12 candidature) e di “Mad Max: Fury Road” (10 candidature). Messa in questi termini, il livello sembra decisamente inferiore rispetto all’anno scorso, dove i due sfidanti (con 9 candidature a testa) erano due capolavori assoluti come “Birdman” e “Grand Budapest Hotel”, tuttavia è giusto considerare la passata edizione come particolarmente fortunata in termini artistici, quasi straordinaria, quindi è logico che il paragone possa spaventare. Ma entriamo nel merito del discorso e parliamo di Revenant. Indubbiamente il film più atteso dell’anno, se non altro perché il suo regista, scrittore e produttore –  Alejandro González Iñárritu – l’anno passato ha fatto doppietta con “Birdman”, vincendo “Miglior Film” e “Miglior Regia”. Il ruolo di protagonista interpretato da Leonardo Di Caprio non ha aiutato a smorzare le aspettative. Volendo riassumere il mio giudizio in una frase, direi che il film è tecnicamente perfetto e interpretato magistralmente, ma manca completamente di trama. La storia infatti è lineare e scontata, con una sceneggiatura senza infamia né lode e nessuna profondità di contenuti. Secondo il mio gusto personale, questi sono gli aspetti più importanti in un film, quindi sicuramente The Revenant non è il film che ho preferito nell’ultimo anno. Tuttavia resta un film davvero ben fatto, e sono assolutamente convinto che vincerà (meritatamente) i premi alla “Miglior Fotografia” (il pezzo forte dei film di Iñárritu), al “Miglior Sonoro” e al “Miglior montaggio sonoro”. Credo che vincerà anche “Miglior Film”, garantendo a Iñárritu in fantastico tris in due anni (2 film e 1 regia), ma a rovinare i sogni di un poker che avrebbe dell’incredibile quest’anno c’è George Miller, alla regia di Mad Max: Fury Road: sul podio dei registi quest’anno salirà lui. Mad Max è un film bellissimo, a tratti geniale (il chitarrista che suona metal appeso davanti al camion da guerra e Tom Hardy attaccato davanti alla vettura d’assalto come una polena sul vascello valgono il prezzo del biglietto), girato in maniera perfetta. La mancanza di trama risulta essere giustificata dal genere di film – azione, post-apocalittico – e l’ambientazione, le scenografie e il ritmo incalzante tengono lo spettatore attaccato allo schermo dall’inizio alla fine. Non vincerà il Miglior Film perché manca di profondità e di interpretazioni memorabili, ma si assicurerà un buon bottino tra Regia, Montaggio, Scenografia, Costumi e Trucco.

I premi alla sceneggiatura sono forse quelli che mi stanno più a cuore, poiché ovviamente guardano al contenuto del film, alla profondità della trama e alla struttura dei dialoghi. Quest’anno i vincitori in queste categorie sono quasi scontati, e sono due dei più bei film in concorso fuori d’ogni dubbio. Alla “Sceneggiatura originale” trionferà l’eccezionale Spotlight, già presentato a Venezia lo scorso settembre e acclamato da pubblico e critica. Nulla da dire, un film bellissimo sulla più grande inchiesta giornalistica sul tema della pedofilia nelle gerarchie ecclesiastiche. Credo che nonostante le sei nominations trionferà solo qui, ma sostanzialmente senza rivali. Lo stesso discorso in sostanza vale per La grande scommessa (basato sull’omonimo libro di Michael Lewis), che con ogni probabilità vincerà il premio a “Miglior sceneggiatura non originale”. Il film sul grande crack finanziario del 2007/2008 infatti riesce a rendere avvincente un tema decisamente complesso, spiegando nel frattempo (in termini più o meno semplici) i passi fondamentali che hanno portato al crollo delle borse mondiali. Anche in questo caso credo che nonostante l’ottimo montaggio e la fantastica interpretazione di Christian Bale, il film trionferà solo nella categoria della sceneggiatura, sebbene i bookmakers lo propongano come outsider nella corsa a miglior film. Onestamente lo vedo difficile, però mai dire mai.

Chiudiamo infine con gli attori, ovvero la categoria che quest’anno sta già facendo parlare di sé più di ogni altra. Si, è l’anno di Di Caprio come “Miglior attore protagonista”. Ormai la pressione mediatica è tale che se non dovesse vincere sarebbe una vergogna, e se dovesse vincere sarebbe una vergogna che abbia vinto con questo film, oppure che abbia vinto solo perché non poteva non vincere. Insomma, compito infame quest’anno per la Academy. In ogni caso va detto che l’interpretazione di Leo quest’anno è davvero perfetta, soprattutto se letta alla luce della sua carriera. Vedendo il film mi chiedevo: ma questo ragazzo che striscia nel fango e nella neve, che pur dicendo 5 battute in tutto il film riesce a comunicare col solo linguaggio del corpo, che estremizza il concetto di espressività fino a diventare quasi teatrale, è lo stesso di “The Wolf of Wall Street”, di “Inception” e di “Shutter Island”? Fin qui però mi si potrebbe ribattere che questa estrema versatilità e il gran numero di interpretazioni memorabili possano al limite candidarlo per un Oscar alla carriera, ma non siano garanzia del fatto che vincerà il premio di miglior attore per quest’anno. E così infatti è sempre stato, se non che le circostanze che hanno sempre sfavorito Di Caprio quest’anno paiono invece a suo favore: non è un grande anno per gli attori protagonisti e il suo vero unico rivale è Eddie Radmayne in “The Danish Girl”, il quale ha vinto la statuetta già l’anno scorso interpretando Hawking ne “La teoria del tutto”. Per lui, anche quest’anno interpretazione estrema ed eccezionale, che personalmente preferisco a quella dell’attore di Revenant, tuttavia il fatto che abbia vinto l’anno scorso e il vento mediatico a favore di Di Caprio quest’anno lasciano pochi dubbi sul trionfatore nella categoria. “The Danish Girl” rimane un film stupendo, che vedrà trionfare una fantastica Alicia Vilkander come “Miglior attrice non protagonista”, anche se poteva benissimo concorrere come protagonista data l’importanza del ruolo e il tempo trascorso in scena. In ogni caso, la coppia Radmayne-Vilkander ha fatto centro, film da vedere! Sul versante maschile della categoria ci sono molti dubbi. Credo che Mark Rylance vincerà “Miglior attore non protagonista” per “Il ponte delle spie”, non solo per la magistrale interpretazione, ma anche perché non credo che il film di Spielberg che si presenta con sei candidature vada a casa a mani vuote – anche perché nonostante le molte critiche ricevuto lo ritengo davvero un buon film, per interpretazione e per contenuti. Sulla “Miglior attrice protagonista” invece non ho dubbi: Brie Larson per “Room”, bravissima lei e bellissimo film, probabilmente quello che ho preferito tra tutti i candidati. Vederlo è d’obbligo.

Per finire la schedina (quasi completa), aggiungiamo senza ombra di dubbio Inside Out come Miglior film d’animazione, e direi The Martian agli Effetti speciali (vedo difficile che il film con Matt Damon vinca da qualche altra parte, ma anche che non vinca nulla). Per quanto riguarda le musiche invece pare che Lady Gaga porti a casa la Miglior Canzone con “Til it happens to you”, più per il significato sociale e politico che per il merito musicale, che altrimenti andrebbe senza ombra di dubbio alla “Simple Song #3” del magnifico “Youth”, o quantomeno a “Writings on the wall” di Sam Smith per Spectre, che di certo non è bella quanto Skyfall ma resta uno dei pochi punti positivi dell’ultimo (orribile) film su 007. Infine, pare che l’Italia sarà rappresentata dal maestro Morricone alla “Miglior colonna sonora” per The hateful eight del maestro Tarantino – cosa che un po’ dispiace perché sebbene sia una buona musica e un film eccezionale, è un peccato che Morricone vinca il suo primo Oscar alla colonna sonora per dei pezzi su sua stessa ammissione “riciclati da vecchi lavori”. Comunque, per il gusto personale di chi sta scrivendo, un riciclo di Morricone-Tarantino è oro che cola.

Insomma, previsioni oggettive o scommesse del tifoso? Non ci resta che attendere qualche giorno per scoprirlo: 28 febbraio 2016, Kodak Theatre – Los Angeles, California – in una delle notti più magiche dell’anno.

Alessandro Storchi

“Due modi ci sono per soffrirne…” Calvino in dialogo con Marco Polo

Ci sono storie, poche, che ascolteresti mille volte, senza mai chiederti se sono vere. E’ che proprio non ti interessa, non è importante.

Una di queste racconta di Kublai Kan, imperatore dei Tartari, che dopo aver conquistato un impero sterminato, si accorge della sua corruzione e capisce di avere solamente ereditato la rovina dei sovrani avversari. Incontra però Marco Polo, venuto da Occidente, che lo incanta con i suoi resoconti di viaggio: descrive le città che ha incontrato, città di memoria, di desiderio, di segni del linguaggio, città con cupole d’argento, altre costruite su palafitte, altre ancora del tutto identiche ad Amsterdam o a New York. Di tutto questo ci racconta Italo Calvino, appunto, nelle città invisibili, e ci racconta di come il Kan segua le storie dell’esploratore sfogliando un atlante, dove sono contenute le mappe di tutto il suo impero, e di tutti gli altri imperi del mondo, e di come interroghi Marco Polo sulle città che vede, e su quelle che immagina, e su quelle che sogna. Arriva infine, l’imperatore, a sfogliare sul suo atlante le carte delle città “che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. E dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.”

La risposta che gli dà Polo penso che sia una delle cose più esatte che abbia mai letto. Credo anzi che sarebbe buona cosa farla stampare in serie su una bella carta da lettere con tanto di ceralacca sulla busta, e attaccarla insieme alla targhetta distintiva alla caviglia dei bambini nei reparti di neonatologia, che ognuno abbia la sua, con tanto di foglietto illustrativo: “Da leggere con cura ogni sera, prima di dormire, e ogni mattina, prima di lavarsi i denti. Le domeniche, anche dopo pranzo.”

Religioso silenzio…

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Ecco che troviamo, unita e ben formulata, la risposta a mille quesiti che oggi, nell’arrivato e al tempo stesso progressista XXI secolo, si sentono formulati un po’ ovunque: che senso ha conoscere i Canti di Leopardi? O ascoltare Chopin? O studiare il latino, leggere Omero, andare a teatro a vedere l’Othello?

Ci si capiscono anche le piccole cose di tutti i giorni, in quella chiave lì. Alcune frasi profonde di alcuni film profondi, ad esempio. La Grande Bellezza gira tutto intorno a questa idea di inferno, per dire

«Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore»;

o ancora:

«A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”».

[Breve digressione. Questo ricorda molto il momento in cui Holden Caulfield, lo scapestrato studente del romanzo di Salinger, torna a casa una notte, dopo essere stato espulso per l’ennesima volta dall’ennesimo college, e trova la vecchia Phoebe. La vecchia Phoebe è sua sorella, ha in realtà 10 anni, ma Salinger nella sua genialità le conferisce una saggezza degna di una guida spirituale. E qui si apre uno dei dialoghi più belli (e più celebri, non sono sicuramente il primo a dirlo) della letteratura americana contemporanea. Phoebe è amareggiata dall’atteggiamento di Holden, il quale cerca vanamente di giustificarsi, e gli risponde ripetutamente con la medesima sentenza: “Papà ti ammazza.” Questo una, due, tre volte, non lo guarda nemmeno in faccia, finché all’improvviso si volta verso il fratello e chiede: «Holden, ma a te piace qualcosa, nella vita?». Quello rimane spiazzato, butta lì un paio di risposte poco credibili, subito smontate dalla sorella, poi ci pensa un attimo e dice: «hai presente quella canzone che fa “Se scendi dai campi di segale, e ti prende al volo qualcuno…» Phoebe lo interrompe: è una poesia, di Robert Burns, e dice “e ti viene incontro qualcuno”… Ne sa, eh, la vecchia Phoebe? Comunque Holden riprende, e dice una cosa geniale:

«Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale (in inglese, “The Catcher in the Rye”, titolo originale del romanzo, ndr) e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia»

E’, sostanzialmente, la stessa risposta del film. Sorrentino ho trovato, in mezzo all’inferno, qualcosa che inferno non è, e l’ha fatto durare, e gli ha dato spazio. E un Oscar, tra l’altro.]

E’ stato sempre Calvino a rispondermi, quando a lungo mi sono chiesto se avesse senso, oggi, studiare filosofia. Mi è bastato tirare fuori Le città invisibili. D’altronde, «d’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».

A me, per dire, ha risposto Venezia.

Alessandro Storchi

 

X Factor: the sound of silence

Premessa: guardo X-Factor, e mi piace. Ricordo di aver visto la prima stagione su Rai 2, un po’ delle successive stagioni, e poi quasi tutte le puntate da quando è una produzione Sky – Freemantle Media. Lo guardo perché mi diverte, è un prodotto curato, ben confezionato – e soprattutto: avvincente, estremamente avvincente.
Tuttavia, non parliamo di musica. La musica è un elemento talmente marginale in questo programma da risultare quasi un elemento accidentale, superfluo. Come di fatto è. Il modello del “Talent Show” è tale da potersi plasmare a qualsiasi prodotto commerciale in grado fare audience: canto, ballo, moda, scrittura, tutto. Perché di questo si tratta – di un prodotto perfetto e convincente della più grande macchina da soldi che il mondo dell’intrattenimento abbia mai visto: l’industria dello ShowBusiness.
La musica commerciale non è necessariamente “la musica che vende”: non direi che The dark side of the moon dei Pink Floyd sia un album commerciale, nonostante i 50 milioni di copie vendute (è il terzo album più venduto di sempre). La musica commerciale è piuttosto la musica “fatta per vendere”, e cioè la musica inizialmente concepita come prodotto commerciale, e non artistico. Oggi (ma possiamo dire da trent’anni a questa parte) il mondo della musica è stato permeato e soppiantato dall’industria dello ShowBusiness, e diventando una delle tante “componenti” del mercato, non è più essenzialmente un mondo artistico. Non a caso si parla di “producers”: si producono canzoni e album, come si producono maglie, piastrelle o qualsiasi altro bene di consumo. Canzoni scritte con lo stampino, da alcuni bravi manager che sanno cosa vende e cosa no, perfettamente impacchettate per essere trasmesse dalle radio e dalle emittenti un tempo musicali e oggi più interessate a problemi di peso e ragazze madri, ed affidate alle star del momento. Per trovare qualcosa di artistico bisogna cercare tra le etichette indipendenti e sparuti casi di artisti prestati allo ShowBusiness – e qui si può trovare del bello e dell’originale, solo che molto spesso, per dirlo alla scolastica: ciò che è bello non è originale, ciò che è originale non è bello.
Ma allora perché da anni si sente dire che l’industria discografica è in crisi? Semplicemente perché, per dirla con una proporzione matematica, le case discografiche stanno allo ShowBusiness come le botteghe dei falegnami stanno all’Ikea. Oggi non si guadagna più sui dischi venduti: si guadagna con le visualizzazioni su Vevo o su Youtube, con il merchandising, con i download di iTunes dei singoli, con le pubblicità, con le comparizioni in TV, eccetera. Non è un caso che le tre più grandi “etichette” del momento (Sony, Warner Bros. e Universal) facciano parte di multinazionali che si occupano di elettronica, telefonia, cinema, videogame, televisione.
In tutto ciò, uno dei migliori modelli commerciali all’interno dello ShowBusiness è il Talent Show, grazie alla sua presa mediatica che coinvolge TV, Social Network, radio, etichette, insomma tutte le componenti dell’industria, le mette in moto e le fa fruttare. La mossa geniale di questo format è la spudorata autodenuncia che viene messa in luce ed esaltata ad opera degli stessi produttori. Potremmo descriverla così: io, multinazionale dell’entertainment, dimostro che sono talmente interessato alla componente artistica da andare a scovare giovani talenti genuini, farli competere e produrre un album al migliore di tutti, facendogli saltare la famosa gavetta. Se non che, in questo modo metto in luce che il successo o l’insuccesso di un talento oggi è interamente deciso non dalla qualità della sua arte bensì da un investimento o un non investimento economico o mediatico da parte dell’industria. E così, in trasmissioni di più di tre ore di diretta, il totale delle esibizioni musicali non supera la mezz’ora, i veri protagonisti sono i giudici, il presentatore, le coreografie, gli ospiti internazionali che vengono a promuovere le nuove uscite di proprietà degli stessi produttori della trasmissione, e così via. Al pubblico piacciono i siparietti, piace vedere cosa fanno i concorrenti durante la settimana, piace scoprire chi vince e chi perde. E questi talenti, che fino al mese prima suonavano nei bar o alle feste di paese, portando i propri pezzi, senza coreografie, soli con la propria autenticità, questi talenti dicevo sono un perfetto esercito di penny stock per i Jordan Belfort dello ShowBusiness, che con un investimento pari a zero possono sfruttarli finché fan comodo, magari produrre anche un paio di canzoni, venderli finché vendono, e cambiarli ogni anno, prima che il pubblico si annoi. Quello che resta, anno dopo anno, è la grande macchina, il grande show. Va tutto benissimo, ma non parlatemi di musica.
PS. Il motivetto pubblicitario della appena conclusa edizione di X-Factor Italia era un adattamento (orribile) di una delle più belle canzoni mai scritte: The sound of silence di Simon and Garfunkel. E’ talmente superflua la componente artistica in questi talent che i produttori forse non hanno neanche letto il testo della canzone. Voglio riportare qui una strofa particolarmente significativa.

And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
People hearing without listening
People writing songs that voices never share…
And no one dare
Disturb the sound of silence

Alessandro Storchi

[immagine tratta da Google immagini]

Perché i poeti?

Il linguaggio è il linguaggio[1]. Da questa apparente tautologia inizia la Erörterung di Martin Heidegger sull’essenza del linguaggio. Ciò che la logica classica definirebbe tautologico, spalanca invece un orizzonte di significati, o meglio: «ci lascia sospesi sopra un abisso [Abgrund]»[2]. E perché questo? Quale fondamento [Grund] viene a mancare affermando: il linguaggio è il linguaggio? La cosa è evidente: da Aristotele in avanti, la filosofia ha pensato l’uomo come “zoon logon echon”, ovvero “animale dotato di pensiero- linguaggio”. In termini aristotelici il linguaggio è quindi differenza specifica dell’uomo, la sua caratteristica più propria e distintiva. Il linguaggio è dunque dell’uomo, è ciò che lo fa essere tale, che gli permette di esprimere la propria interiorità e di comunicare. È uno strumento dell’uomo. Tuttavia, non è la foné lo strumento che ci permette di comunicare ed esprimere la nostra interiorità? Non comunicano infatti, e non si esprimono, anche gli animali, i quali hanno foné ma non hanno logos? L’affermazione “il linguaggio è il linguaggio” sottrae all’uomo al contempo strumento e differenza specifica, ma soprattutto sottrae al linguaggio il suo fondamento sull’uomo. Questa duplice sottrazione apre l’abisso «la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo [Ort] nel quale vorremmo farci di casa per trovare una dimora [Heimat] per l’essenza dell’uomo»[3]. Le stesse parole ricorrono nelle prime pagine della Lettera sull’umanismo, di poco precedente agli scritti sul linguaggio:

Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora [Heimat] abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa casa. [4]

Il linguaggio non è dell’uomo, bensì dell’essere. L’Essere è Parola (la sostanza del sein [essere] è il sagen [discorso]), e ogni parola umana, in quanto parola, è resa possibile da quella Parola. Così l’Essere di Heidegger non crea il mondo, e tuttavia gli conferisce senso: il Mondo è luogo della Lichtung [Radura], in cui il filtrare della Luce dà senso.[5] L’uomo abita questa casa. Alcuni uomini possono custodirla. Alcuni: i pensatori ed i poeti.

Il pensiero porta a compimento il riferimento [Bezug] dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa casa. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e in esso la custodiscono.[6]

Il pensiero accoglie la Parola e tenta di ridirla: il parlare dell’uomo è un cor-rispondere al Linguaggio. Pensatore e Poeta si risolvono nel pensiero poetante. Così Heidegger risponde alla domanda “Perché i poeti?”:

Il dire del cantore dice l’intero intatto dell’esistenza del mondo, che invisibilmente si distende nella spaziosità dello spazio interiore del cuore. Il canto non è la ricerca di ciò che deve esser detto. Il canto è l’appartenenza al tutto del puro Bezug.[7]

E poche righe prima, citando Herder:

Dal moto di un soffio dipende tutto ciò che sulla terra gli uomini hanno pensato, voluto e fatto, e ciò che faranno di umano; tutti noi ci aggireremmo ancora nelle foreste se questo soffio divino non ci avesse avvolti nel suo calore, e non pendesse dalle nostre labbra come un suono magico.8

In sostanza, il dire poetico, il pensiero poetante, è ciò che meglio coglie la Parola dell’Essere, e cor-rispondendole ci parla. Questo dire [Sagen] come cor-rispondenza all’Essere [Sein] è l’essenza del Linguaggio [Sprache]. In verità è doveroso notare che il termine Sprache si traduce sia “linguaggio” sia “lingua”. La lingua è il linguaggio della terra natia: Heimat. In tal senso, la Parola dell’Essere, come essenzialità del linguaggio, è vicina alla nostra lingua, e la casa che l’uomo abita è proprio questa coincidenza di Sprache – Sein – Heimat.

Nei pressi di questa casa si aprono le radure, ovvero i luoghi illuminati dalla parola e che, sottratti dal buio del bosco, appaiono come significanti. Il romanzo, la poesia, il racconto: essi ci aprono i panorami di significato più suggestivi. Per osservarli è sufficiente seguire le tracce che escono dal bosco dell’insignificanza e mettersi in ascolto della loro parola.

Alessandro Storchi

 

Note

1 Cfr. Martin Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013

2 ivi, p. 29

3 ibidem

4 Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adelphi, 2013, p. 31

5 Cfr. Alberto Caracciolo, Presentazione in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, pp. 12-13

6 Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adelphi, 2013, p. 31

7 Martin Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 294

8 ibidem.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Punto Cinema. Venezia “da vicino”

Venezia da vicino non vuole significare solamente un avvicinamento critico – o meglio analitico – da parte nostra alla 72esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. “Da vicino” è prima di tutto la locuzione che quest’anno esprime il senso complessivo della Mostra. Ma come, esclamerà qualcuno! Ma se il film vincitore del Leone d’Oro si intitola “Da lontano”! Eppure, terminato il festival, questa è l’espressione che mi rimbombava in testa. Da vicino. Procediamo con ordine.

Falsa partenza. Partiamo con una considerazione, a scanso di equivoci: Everest di Baltasar Kormákur non è un brutto film. Eppure, subito dopo aver aperto le danze della Mostra, è stato criticato (per non dire stroncato) da buona parte di pubblico e critica, quest’ultima alle volte anche eccessivamente ingenerosa. Come mai? Credo i motivi siano principalmente due. Innanzi tutto va ricordato che il film di apertura della passata edizione 2014 era Birdman di Inarritu: film che ha sbancato agli Oscar (4 statuette, tutte di prima rilevanza) e ai Golden Globe (Miglior Sceneggiatura e Miglior Attore al fenomenale Michael Keaton), oltre ad aggiudicarsi diversi altri premi e nomination. E in ogni caso, al di là del palmarès strepitoso, un capolavoro sotto tutti i punti di vista. Quindi, già in partenza, per il film d’apertura di quest’anno l’aspettativa era altissima ed il paragone difficile da sostenere. Tuttavia, anche prescindendo da queste considerazioni, Everest pecca per molti aspetti. La trama è scontata, prevedibile, lineare. Ma essendo tratto da una storia vera, personalmente tendo a giustificare la mancanza di colpi di scena elaborati e la scarsa originalità della sceneggiatura. Giustifico meno la scarsa profondità nella costruzione dei personaggi, che sono molti, troppi, troppo simili e confondibili. Inoltre, si dimostra ancora una volta che la montagna è un soggetto poco adatto al grande schermo: la montagna, e l’alpinismo in particolare, sono esperienze da vivere, che risulta estremamente difficile raccontare, e quasi impossibile rendere cinematograficamente (e sono particolarmente gentile, rispetto ad alcune voci dal mondo dell’alpinismo che hanno apprezzato decisamente poco il film, fino a definirlo “una boiata pazzesca”). Insomma, avvincente ma niente di più, con uno spiegotto finale riassumibile così: non si scherza con la montagna. Ma risultano più suggestivi e convincenti i racconti degli alpini che si sentono nelle baite, e nell’anno in cui la vetta più alta del mondo ha mietuto il maggior numero di vittime di sempre (ad oggi 22, al secondo posto il 2014 con 18) ci si aspettava qualcosa di più.

I premiati. Veniamo ora alle note positive: i due Leoni sono stati assegnati a due film notevoli. La statuetta d’Oro va a “Desde allà” (“Da lontano”), che racconta da vicino una storia di perversa intimità, fisica ma anche (e soprattutto) psicologica, tra un “adescatore di fanciulli” e un ragazzo cresciuto sulla strada, in una Caracas sporca e volgare. Da vicino perché la trama si scorda della follia che circonda i due protagonisti e li divide (uno teppista di strada, l’altro odontotecnico benestante) e si concentra sulla follia che li unisce: un rapporto violento ma non volgare, che inizia come perversione per mutare verso il sentimentale. E qui il colpo di scena. Un film estremamente intimo ma anche difficile (e accolto ingiustamente da qualche fischio alla proiezione conclusiva dopo la premiazione). Pablo Trapero si aggiudica il premio di miglior regista per El clan, che – tratto da una storia vera – racconta l’Argentina dei rapimenti e di fine dittatura dal punto di vista di una famiglia che non può neanche essere definita criminale. E qui sta la genialità del film: riprende da vicino la vita di una famiglia come tante, con i figli sportivi, la figlia che va a scuola, gli amori, le questioni domestiche, e che per mantenersi rapisce rampolli di famiglie benestanti, e spesso li uccide. Un film di impatto, girato con grande abilità. Il candidato argentino all’Oscar per il miglior film straniero, tuttavia non credo sia all’altezza della nomination. Infine, per parlare di un Italiano, Per amor vostro di Gaudino è valso a Silvia Golino la Coppa Volpi per una magistrale interpretazione femminile. E’ un film che di vicino ha tutto: riprese (primi piani quasi abusati), intimità (anche in questo caso, il centro del film è la vita domestica di una famiglia napoletana), condanna (questa non la spiego, guardate il film e capirete). Un bel film, che ha richiesto alla Golino una prova di carattere non da poco, sostenuta in maniera quasi commovente.

Due belle sorprese. La prima: in concorso per la categoria Orizzonti un documentario davvero notevole. Human del noto fotografo Yann Arthus-Bertrand, che ha viaggiato per tre anni raccogliendo interviste da più di 2000 persone in tutte le parti del mondo e riprese aeree mozzafiato. Le tre ore di alternanza tra questi due elementi creano un’intermittenza vicino/lontano che non lascia indifferenti, e se il film è stato proiettato in contemporanea presso la sede delle Nazioni Unite un motivo c’è. In particolare, uno stacco dopo alcune testimonianze drammatiche su una ripresa aerea di New York (una delle più belle che abbia mai visto) risulta sublime, e quindi perturbante. Un documentario che lascia con delle domande, perché propone risposte forti e meno scontate di quanto potrebbe sembrare. Da vedere.

La seconda: un film semplice ma perfetto di Atom Egoyan, Remember. Se a prima vista potrebbe sembrare una trama già vista (io ho pensato subito a Nolan e Sorrentino), il simpatico vecchietto ebreo (interpretato da un ancora eccezionale Christopher Plummer, mai banale) affetto da demenza senile a caccia del giustiziere nazista che sterminò la sua famiglia, ci prende per mano all’inizio e non ci molla più. E’ un film lento, pacato, dal ritmo anziano. Eppure avvincente, coinvolgente, ricco di suspense, al limite del thriller. Un protagonista trainante, una trama ben fatta, un finale da capogiro. Non vorrei sbilanciarmi, ma questo è sulla buona strada per una certa serata di gala in quel di Los Angeles, California, il 28 febbraio prossimo. Film? Attore? Sceneggiatura? Chi lo sa, ma le carte sono in regola.

A questo punto i più attenti avranno notato la grande assenza di un film presentato a Venezia e pochi giorni fa selezionato come concorrente italiano per la nomination tra i film stranieri in quel di Academy Awards. Sto parlando di Non essere cattivo di Claudio Caligari. Ma questa è un’altra storia.

Alessandro Storchi

[immagini tratte da Google Immagini]