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Atiq Rahimi: le parole non ascoltate sono lacrime

«Le parole non ascoltate sono lacrime»1.

Così termina l’evento tratto dal romanzo Terra e Cenere del Festival Dedica, che si concentra sullo scrittore e cineasta afghano Atiq Rahimi, tenutosi lunedì 12 marzo a Pordenone e di cui voglio narrarvi in questo promemoria filosofico.

L’autore nato a Kabul appare con un cappello in testa, un sorriso sereno, nonostante il passato. Fuggito nel 1984 dall’Afghanistan, invasa dalle truppe sovietiche, viene accolto in Francia come rifugiato: vive l’esperienza di “migrante”, resta per sempre ferito nell’anima dei ricordi della guerra.  Racconta nelle sue opere la cruda verità, senza sconti e giri di parole, il dolore, la disperazione, il caos e il sangue di tutte quelle storie di chi ha vissuto in territorio di guerriglia e dove la morte è all’ordine del giorno.
Ma partiamo dall’inizio, facciamo un passo indietro. Le luci si offuscano, non siamo più all’inizio di uno spettacolo ma all’interno del romanzo di Atiq Rahimi attraverso la voce di Fausto Russo Alesi.

Si sente rintoccare un orologio, il suono fastidioso riempie la sala e si ripete ancora e ancora, resta solo quello oltre alla terra e alla cenere.

«A mio padre e a tutti gli altri padri che hanno pianto durante la guerra».

A fermare i rintocchi un colpo, un forte suono irrompe e tutto si tinge di rosso.

La voce narrante dell’attore richiama l’attenzione della fame di un bambino, Yassin è il suo nome, si ripete spesso, quasi a ripetizione viene urlato.

Senza denti da latte vuole mangiare una mela ma non ce la fa, non ha denti buoni.

«O i denti o il pane, questo è il libero arbitrio».

Suo nonno Dastghir allora lo aiuta, per aiutare anche se stesso e placare quel vuoto e quella fame che soli sono rimasti, come la cenere a terra, mentre aspettano. Stanno aspettando un camion che da lì a poco dovrebbe passare per arrivare alla miniera di carbone dove lavora il padre del bambino, Morad.

Il vecchio deve assolutamente salire su quel mezzo e raggiungere il figlio per condividere con lui la terribile notizia della morte della madre, di sua moglie e del fratello.

All’avanguardia nessuno ha pietà di quel nonno e di suo nipote, anche se il bambino piange e urla. Non c’è parola che lui però possa comprendere davvero. Il mondo di Yassin è diventato senza rumore e per lui il suono ha abbandonato l’uomo e il mondo. Il piccolo è stato vittima del bombardamento nel suo villaggio, che lo ha reso sordo.

«La bomba era troppo forte e ha zittito tutti».

L’unica umanità rimasta la ritrovano incarnata nel negoziante lì vicino alla sbarra dell’avanguardia. Offre dell’acqua e delle giuggiole al bambino che per un momento pare calmarsi. Il vecchio allora può trovare conforto dalle poche parole che scambia con quell’uomo gentile.

«È da tempo che una parola nella tua lingua o in una lingua straniera ha dato calore al tuo cuore. È il dolore che si scioglie, lascialo correre».

È arrivato il momento, è arrivato intanto il camion, Dastghir può raggiungere Morad nella miniera di carbone. Ma è davvero un posto dove portare un bambino, il padre non si dispererà a vedere in quelle condizioni disgraziate suo figlio? Allora il nonno lascia quel nipote in custodia al negoziante e sale sul mezzo che si allontana lentamente e lascia nella nebbia tutto dietro di sé.

Morad, racconta il vecchio, è un uomo fiero e orgoglioso, che prende seriamente e vendica anche i piccoli sgarbi. Dopo un insulto alla madre, era stato capace di uccidere un uomo con una pala e per questo era stato in carcere per un anno e poi aveva deciso di allontanarsi dal villaggio e lavorare in miniera.

Il vecchio padre sa che gli arrecherà un dolore lancinante, ma si sente in dovere di comunicargli la sciagura. Arriva al posto, ma ad accoglierlo è il capo reparto che lo avvisa che suo figlio è in turno.

Il capo reparto dice che il figlio sa già tutto. Dastghir è sconvolto: perché Morad non è tornato a vendicare la morte dei cari, perché non è tornato a pregare sui corpi lacerati dal bombardamento sovietico?

Lo ha impedito il capo reparto, gli viene confermato.

Allora non resta più niente da dire e il padre torna sui suoi passi, lasciando al figlio solo una piccola scatola che lui stesso gli aveva fatto in dono per ricordarlo.
Resta solo cenere, la morte non ti chiede di chi sei madre o di sei figlio, resta solo terra e cenere.

Dastghir mangia la sola terra rimasta e la scena termina.

Le luci si riaccendono e non siamo più in Afghanistan tra il sangue e le bombe, ma nella nostra piccola realtà, che per quanto movimentata è serena nel suo svolgersi nella routine di tutti giorni, dove si dà per scontata la bellezza e la gentilezza. Siamo liberi di scegliere, siamo liberi di camminare all’aria aperta, liberi di vivere, senza l’agguato della morte di una crudele guerra, e neanche ce ne aggiorgiamo. Solo per noi lo spettacolo è finito.

Grazie, al prossimo promemoria filosofico

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE:
1. Questa e tutte le successive citazioni sono stratte da A. Rahimi, Terra e Cenere, Einaudi, Torino 2002

[Immagine di copertina di Monica Galentino su unsplash.com]

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