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Ars moriendi, affrontare la morte mentre si continua a vivere

Da quando siamo bambini gli adulti ci ripetono che la morte fa parte della vita, forse per evitare le nostre domande insistenti, o forse per convincere loro stessi a mettere un fermo a tutti i pensieri che sorgono quando muore una persona cara. Questo continuo tentativo di giustificare la morte, che sia per mezzo della religione o della morale, presuppone il fatto che la morte non sia così naturale come continuiamo a ripeterci da sempre, o forse, che non tutto ciò che è naturale ci lascia impassibili.

Il problema principale in realtà è capire come convivere con qualcosa che arriverà sicuramente e che porrà fine a tutto ciò che siamo. Accettare la fine della nostra vita infatti è una delle cose più difficili che possiamo fare, perché è qualcosa che ci terrorizza e paralizza nel profondo. L’essere umano ha provato a porre rimedio alla paura della morte in una molteplicità di modi già da quando lo stesso concetto di morte ha cominciato a preoccuparlo.

Alcuni modi per sfuggire a quell’angoscia li fornisce la religione, che ci culla e ci dice che tutto andrà bene, visto che la morte non segna la fine della vita, ma anzi è solo un rito di passaggio per arrivare a quella eterna. In un rapporto di premio o punizione con il divino, i cristiani ad esempio, non si preparano ad accettare veramente la morte come qualcosa di definitivo, loro vivono per morire, non rispettando questa vita e agognando la morte in vista di qualcosa di migliore. Questo è uno dei motivi per cui Nietzsche considera i cristiani degli schiavi, in quanto loro non affrontano la vita con tutti i problemi ad essa legati e fondano sul risentimento verso gli altri e sul disprezzo di questa unica vita la loro cieca fede. Si potrebbe dire quindi che i religiosi risolvono il problema della paura della morte evitandolo direttamente.

Per chi non crede alle verità rivelate è un po’ più complesso di così. I non religiosi si preoccupano di poter morire da un momento all’altro, e nel caso in cui la morte dovesse arrivare, di non aver speso al meglio il loro tempo su questa terra.

Queste preoccupazioni noi le ritroviamo già in autori molto più antichi di quel che potremmo pensare. Seneca ad esempio basa la maggior parte dei suoi scritti sul tema della morte e soprattutto sul buon modo di morire, ed è universalmente conosciuto per il suo più grande consiglio, ovvero quello di agire per essere colti dalla morte nel momento di maggiore felicità, un consiglio che non sembra proprio un buon augurio ma che in realtà è una delle poche cose che noi possiamo fare per prepararci all’ineluttabilità della morte stessa.

Seguendo quella che è la tradizione stoica, Seneca non considerava il male come qualcosa di intrinseco alla natura o come qualcosa che fosse presente fuori di noi. La morte non ci tange se non permettiamo che lo faccia, se abbiamo vissuto esattamente come ci eravamo prefigurati. Una felicità sincera e non apparente quindi, raggiungibile sfruttando al meglio il nostro tempo e non rimandando più quello che vorremmo davvero fare.

Fabrizio De Andrè durante la presentazione di Tutti morimmo a stento nel 1969 parlò di un tipo di morte in cui tutti gli uomini si imbattono mentre vivono, quella morte morale o psicologica che si affronta quando si perde un amico, un lavoro o qualcosa a cui si tiene con tutto il cuore. Noi tutti moriamo un po’ per rinascere subito dopo, come se la vita stessa ci abituasse a tutti i tipi di morte possibili prima che arrivi quella vera. Questo significa che non bisogna cercare di scacciare via tutti questi archetipi di morte, perché solo le nostre esperienze formano la nostra persona e ci preparano ad affrontare quello che ci rende fragili e di cui abbiamo più paura.

Dobbiamo imparare quindi a pensare un po’ più spesso alla morte, nonostante questo possa renderci ansiosi o malinconici, evitare i «divertissement» religiosi o morali alienanti e riappropriarci del nostro tempo, diventandone del tutto padroni. Conducendo nel mentre una vita degna di essere vissuta, con cinquemila rimorsi e nessun rimpianto.

 

Marco Catania

Marco Catania, classe 2000. Studia attualmente storia e filosofia presso l’università di Palermo, impegnandosi nel mentre a scrivere su temi filosofici riguardanti l’esistenza, l’etica e la religione.
Interessato soprattutto ad autori francesi come Sartre e Camus, ma anche a tanti autori fondamentali della storia della filosofia, quali Spinoza, Nietzsche e Kant.
Amante del pensiero critico, del dialogo costruttivo e della chiarezza ritiene indispensabile un corretto uso della facoltà di giudizio per potere vivere al meglio all’interno della realtà sociale.
 

NOTE:
1. Ars moriendi (L’arte di morire) è il nome di due scritti latini che contengono suggerimenti sui protocolli e le procedure per una buona morte secondo i precetti cristiani del tardo Medioevo.

[Photo credit Paweł Czerwiński su unsplash.com]

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