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Clima, ecoansia e bias cognitivi: intervista a Luca Mercalli

Ciò che sta accadendo in Emilia Romagna è certamente tragico, ma è una conseguenza di una serie di azioni e inazioni umane che a livello collettivo dobbiamo deciderci ad affrontare se vogliamo davvero evitare che si ripetano, se vogliamo davvero dare dignità e valore al dolore e alla disperazione che stanno attraversando le persone colpite da questo evento estremo causato dalla crisi climatica. Alle persone che hanno perso la vita o che hanno perso la casa, la macchina e degli affetti dobbiamo almeno questo: la presa di coscienza della verità e una concreta azione conseguente.

Proprio su questi temi abbiamo recentemente dialogato con Luca Mercalli, meteorologo e climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana, responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e docente in varie università. È direttore della rivista “Nimbus” e collabora con testate giornalistiche come “Il fatto quotidiano”. La sua attività di divulgazione scientifica l’ha portato alla pubblicazione di molti libri, ad essere ospite assiduo del programma RAI di Fabio Fazio Che tempo che fa e conduttore di un suo programma, Scala Mercalli, andato in onda nel 2015-16 su RAI 3.

 

Giorgia Favero – Ondate di caldo in febbraio e poi ritorno repentino del freddo, improvvisi e continui temporali e poi ritorno a settimane di calma piatta e arida; “bombe” d’acqua e siccità, caldo e freddo accostati come sulle montagne russe. È facile a volte per i giornali titolare con l’espressione ormai classica “meteo pazzo”: ma non sarà che, più che il meteo, siamo noi i pazzi?

Luca Mercalli – Certamente è una definizione anche un po’ di tradizione storica: “il tempo è impazzito” lo si diceva anche prima del riscaldamento globale nei momenti in cui si verificavano fenomeni anomali. Questo andava bene finché si trattava di essere spettatori di una variabilità naturale: la nostra vita è breve – soprattutto in un tempo passato in cui non c’erano osservazioni satellitari e banche dati – quindi è chiaro che la memoria storica di una vita poteva essere al massimo di un secolo e di conseguenza riscontrare anomalie che ogni tanto si ripetono giustificava quest’espressione: il tempo è pazzo. Oggi sappiamo che oltre che alla normale variabilità del tempo per motivi naturali – che ci sta per motivi naturali –, si è sovrapposta una variazione nuova indotta dalle attività umane: il riscaldamento globale. Direi quindi che ci dovremmo interrogare sulle sue cause, e questo significa prendere coscienza del danno che le attività umane stanno compiendo su tutti i processi che governano il pianeta, non solo sul tempo atmosferico. Certamente le attività umane cambiano il clima, ma cambiano purtroppo anche tutti gli altri processi che governano la natura: la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la plastica negli oceani, la cementificazione, la deforestazione… sono tutti fenomeni che poi si traducono in cambiamenti irreversibili che portano effettivamente a qualcosa di nuovo sotto il sole rispetto a queste definizioni di “meteo pazzo” che potevano andare bene come battuta fino a un secolo fa, oggi sono da analizzare con maggiore responsabilità individuale. Adesso infatti abbiamo una parte di responsabilità relativamente a questa pazzia, e si chiama Antropocene

 

GF – Nella sua duratura e preziosa attività di divulgazione relativa al cambiamento climatico, ha parlato più volte di bias cognitivi che ci ingabbiano puntualmente nella sottovalutazione dei rischi, dunque una vera e propria distorsione nella nostra capacità di ragionare di fronte a una situazione. Quali sono questi bias cui accenna?

Luca Mercalli – Ci sono due elementi quando parliamo di clima che ci allontanano dalla presa di coscienza: uno è legato al fatto che dei cambiamenti climatici cominciamo a vedere i sintomi ma i danni peggiori li vedranno probabilmente le generazioni più giovani, coloro che verranno dopo di noi. Come sempre, quando c’è un rischio a lungo termine, proprio la fenomenologia del comportamento umano è quello di rimuoverlo. Lo vedo spesso anche in situazioni più semplici, banali e individuali, come quella del fumatore. Chi fuma, anche se avvertito dall’impatto che il fumo ha sui polmoni, tende a ignorare questa prevenzione perché il momento nel quale sperimenterà il danno sanitario è molto lontano nel tempo. Con il clima è ancora peggio perché i tempi possono essere più lontani ancora rispetto alla possibile formazione di un tumore per un fumatore e il clima è anche più astratto rispetto al fumo. Se già il malanno da fumo non convince il fumatore a smettere di fumare, pur essendo un danno su se stesso, a maggior ragione il clima convince ancora meno a prendersi delle responsabilità perché è un danno fuori da se stessi.
Il secondo motivo è invece al contrario legato alla dimensione del problema. Il problema è così grande e così globale che spesso il bias cognitivo è un modo di rimuoverlo. È qualcosa di così fuori dalla mia portata che è meglio ignorare: lo ignoro così non ho un’ansia o una nuova responsabilità generata dal prenderne coscienza.
Questi sono i due grandi elementi che fanno sì che le persone o ignorano il problema, quindi ne sono indifferenti, o addirittura lo negano con grande veemenza. Pensiamo infatti al negazionismo climatico, è una forma di difesa interiore, o almeno per chi non lo fa per interessi economici: sappiamo benissimo che c’è anche un negazionismo mosso da una precisa difesa degli interessi di parte, ma ce n’è anche uno molto più banale che è legato al tentativo dell’individuo di rimuovere e allontanare da sé un’ansia.

 

GF – Sul versante opposto c’è anche chi la gravità della situazione l’ha compresa e non solo riesce a individuare la follia di uno stile di vita totalmente incurante del pericolo imminente – direi già presente – ma ha sviluppato quella che oggi chiamiamo “ecoansia”, un termine coniato attorno al 2009 ma accolto solo nel 2021 nel lessico dell’autorevole American Psychological Association. Ritiene che questo fenomeno, che oltretutto riguarda soprattutto la popolazione più giovane, sia destinato ad aumentare?

Luca Mercalli – Tenga presente che io studio il clima e non ho certamente le competenze e la conoscenza per giudicare con i mezzi di chi studia la psiche umana, anche se questi diventano via via dei temi che sto cercando anche io di comprendere. Posso solo osservare che l’ecoansia può essere di due tipi: c’è un’ecoansia paralizzante e una che invece promuove l’azione. Io penso che un po’ di ansia sia necessaria, perché se non ci rendiamo conto della dimensione enorme del problema che abbiamo davanti poi è anche facile non occuparsene. Se tutto è sotto controllo, se non appare grave come realmente è, io non prendo dei provvedimenti, perché è molto più facile pensare che ci sarà qualcun altro a risolvere questo problema, oppure pensare che non sia così grande e urgente da risolvere. Io credo che sia necessario un livello minimale di ansia e di preoccupazione che però non deve essere panico, non deve essere qualcosa che blocca o che produce depressione o disfattismo. Una via di mezzo. Quella che vivo su me stesso: anche io ho un’ecoansia ma diciamo che l’ho mutata in azione, nel compiere concretamente delle scelte che migliorino il mio bilancio ambientale. Se ho fatto l’isolamento termico della casa e ho messo i pannelli solari credo di aver fatto qualcosa di giusto e utile a me stesso e alla collettività, quindi ho anche diminuito la mia ecoansia, perché ho potuto trasformarla in un atto concreto. Ho comprato la macchina elettrica e la carico con i miei pannelli solari, ho installato una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana (invece della piscina), non utilizzo più l’aereo, mangio meno carne. Queste sono le cose che sono alla portata di un individuo. Sull’ecoansia legata alle decisioni sbagliate dei leader mondiali non ci possiamo fare molto: non siamo eroi. La psicologia ci insegna anche che dobbiamo essere consapevoli pure dei nostri limiti, altrimenti ci facciamo sopraffare dall’impotenza. Io dico, la via di mezzo è: comincia a fare tu quello che puoi.

 

GF – Nel suo libro Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (Einaudi, 2020) scrive che in una ipotetica realtà parallela in cui lei fosse il Presidente del Consiglio promuoverebbe «un grande sforzo di sintesi tra scienze dure e scienze umane, con un nuovo ruolo della filosofia». Quale dovrebbe essere questo ruolo?

Luca Mercalli – Proprio quello che abbiamo detto finora. Tutta la nostra conversazione di adesso mette insieme questi mondi. Io in fondo rappresento più il mondo delle scienze naturali, però, chiedo e mi piacerebbe, l’aiuto delle scienze umane. Mi piacerebbe parlare di queste cose con l’antropologo, con lo psicologo sociale, con il sociologo e con il filosofo e trovare insieme delle soluzioni.

 

Grazie davvero a Luca Mercalli per questa chiacchierata!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Wikimedia Commons]

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Rughe e odierni tabù: l’attesa, le soglie e la finitudine

Al giorno d’oggi conosciamo sempre meno soglie.
Non concepire soglie significa, innanzitutto, non dover aspettare – per nulla al mondo. Temporeggiare  è, a quanto pare, del tutto inutile. E tale constatazione non può che essere un dato di fatto nell’era di  Amazon che, a ben guardare, è probabilmente il più grande “demolitore di soglie” mai esistito: qualche  tasto, un click ed è fatta, avremo ciò desiderato senza alzarci dal nostro letto: grassi sovrani costantemente già seduti al liscio “tavolo delle merci”, del quale basta tirare un po’ la tovaglia per poter avere  tutto.
Da impazienti cronici quali siamo, l’unico momento in cui accettiamo di dover aspettare è, forse, davanti alla porta di casa di un nostro caro amico, ma con i mezzi odierni di calcolo e comunicazione,  probabilmente non aspetteremo neanche davanti a tale porta, che quasi sempre troveremo già aperta – oramai i navigatori calcolano perfettamente le tempistiche dei nostri spostamenti, e i messaggi via  rete non tardano ad arrivare: perché attendere?
E non è che ce ne siamo dimenticati: la società attuale sembra che proprio non voglia più conoscere soglia o impedimento che non le siano opportuni e necessari, o in qualche modo utili. Si fa di tutto  per eliminarle. L’unico motivo per cui, anche davanti alla casa del nostro amico, potremmo accettare  di dover aspettare è il raro caso di una nostra visita a sorpresa. 

Come per le rughe, non vogliamo soglie.
Vogliamo un mondo liscio come la nostra pelle: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È  ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019). Come un vastissimo  piano, sempre più levigato ed ininterrotto, appare la nostra esistenza. Su una superficie così levigata,  senza attriti, tutto è ed appare a nostra disposizione. La continuità piallata del piano ci permette di non  attendere mai più dell’istante, un po’ per tutto: dagli acquisti agli spostamenti, passando per le cose da  dirsi nel privato come in pubblica piazza, per arrivare fino ai sentimenti, dai più frivoli ai più profondi.
Levighiamo, e non vogliamo rughe – superuomini imbellettati.
Troppo spesso però, ci scordiamo che questo piano sul quale viviamo la nostra vita è sempre e comunque il corpo di un grandissimo scivolo, che è divertente proprio in quanto ha un termine, ha una fine. Qualsiasi caratteristica e lunghezza abbia la parte in discesa, solo sapendo della sua terminazione – cioè della soglia finale, che non è “nient’altro” che la nostra, umana morte – possiamo rendercene veramente conto e “viverla”.
«Le soglie, come passaggi, ritmano, articolano e raccontano […]. Sono, le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture» (B.C. Han, La scomparsa dei riti, 2021): disabituati a queste, perdiamo la coscienza dei momenti di cesura rispetto al piallato ordinario, che in primo luogo sono quelli del dolore

Proseguendo su questa scìa, anche nella lettura di Marc Augé il discorso intorno alla morte fa propri i termini “spaziali” della soglia o, più precisamente, della frontiera: «Il rispetto delle frontiere è dunque un  pegno di pace. Non è un caso che gli incroci e i limiti […] siano stati oggetto di un’intensa attività rituale.  Non è un caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera» (M. Augé, Nonluoghi, 2020).
E il fulcro del discorso sta nell’inizio di ciò appena ripreso: così come, per Augé, geopoliticamente  l’accettazione delle frontiere è un “pegno di pace”, ciò vale anche nella trasposizione macabra del discorso. L’accettazione della finitudine della vita è il pegno per la nostra, interiore, pace. Il discorso intorno alla morte è così, anche, un discorso di soglie.
A ben vedere, aveva ragione l’americano Geoffrey Gorer quando, esattamente sessant’anni fa, nel 1963, profetizzò proprio la morte come odierno – già per l’epoca – e futuro grande tabù nella nostra  società: la morte, diceva, sta prendendo il posto del sesso1.

Il momento del dolore – e, come evento estremo, la morte dell’Altro-conosciuto, se non addirittura  amato, o la morte di Sé – è un momento temporalmente intenso. È una ruga – e la vorremmo piallare, ma non si può: disperati, non sappiamo che fare. Vorremmo che tutto si risolvesse in un click, invano.
Di fronte alla morte, al dolore e al lutto, non c’è peggior difetto d’essere impazienti. Ed eccoci qui.

 

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore.

 

NOTE
1. Cfr. G. Gorer, The Pornography of Death, in Appendice a Id., Death, Grief and Mourning, 1963.

 

[Photo credit  via Unsplash]

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Tra le interazioni solitarie nella comunicazione quotidiana con Renato Guttuso

Ogni giorno ognuno di noi ha a che fare con la comunicazione nel senso più ampio del termine. Viviamo, in effetti, in un’epoca nella quale comunicare sembra essere diventata una necessità assoluta e, allo stesso tempo, il nostro pane quotidiano. Soprattutto la comunicazione on-line regna sovrana sulle nostre giornate, il suo trono fatto di aggiornamenti e di notifiche campeggia in un regno nel quale il flusso di notizie non ha più argini e, come un fiume in piena, fluisce senza sosta con buona pace di orologi e calendari. Le notizie, in questo modo, sembrano rincorrersi vorticosamente fino quasi a fagocitarsi l’una con l’altra in un grande caos. La sensazione per gli utenti è, spesso, di essere in ritardo o in bilico, come tanti funamboli sul filo degli hashtag in tendenza. Così si affaccia il dubbio, a volte timido, a volte più forte, della qualità di questo tipo di comunicazione che coinvolge anche il nostro modo di comunicare con le altre persone, siano esse conoscenti, sconosciuti o amici intimi. Infatti, non importa se il calendario indichi con un colore diverso dal nero i giorni festivi, tentando, maldestramente, di farci interrompere le nostre ritualità e separarci dalle nostre routine, compresa quella digitale: siamo, tutti, sempre e comunque, perennemente connessi. Varrebbe forse la pena, a questo punto, di chiederci: esattamente con chi siamo connessi? Stiamo, davvero, perennemente comunicando?

La riflessione sul paradosso tra la grande quantità di mezzi a nostra disposizione e le difficoltà nel comunicare con gli altri e uscire dalla solitudine sembra essere tutta dei nostri tempi. In particolare, dopo la pandemia molti sono stati i dibattiti intorno a questo tema e, i più giovani, sono stati e sono tuttora oggetto d’attenzione in questo senso. Infatti l’altra faccia dell’ipercomunicazione si è rivelata essere molto più problematica di quanto si potesse immaginare, restituendoci un quadro a tinte piuttosto fosche di un’intera generazione che fa i conti con lunghe ore di solitaria interazione. In verità, però, questo tipo di riflessione ha radici lontane e anche l’arte pittorica l’ha rappresentata, in modi diversi, soprattutto lungo il ‘900. A tal proposito mi ha sempre affascinata, tanto da diventare per me quasi ipnotica, un’opera di Renato Guttuso. Si tratta di un quadro, del 1980, probabilmente molto meno conosciuto rispetto ad altri lavori di uno dei più importanti artisti italiani del XX secolo. Il titolo è, già di per sé, emblematico: Telefoni (o l’Incomunicabilità); qui Guttuso si ritrae di schiena e la postura sembrerebbe indicare una certa tensione fisica, l’artista tiene la cornetta di un telefono ben attaccata all’orecchio mentre di fronte a lui altri telefoni creano con i loro fili, tutti staccati così come le cornette, un groviglio caotico. Il tentativo che compie – cioè quello di mettersi in contatto con qualcuno – sembra vano, come a voler suggerire che non sarà la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione a spazzare via le problematiche legate alla comunicazione stessa tra gli esseri umani. La figura al centro del dipinto resta, così, “appesa”: impossibilitata nello stabilire un contatto; solitaria pur tra tanti colori.

Per tornare ai nostri giorni, quell’immagine pare rappresentare molto bene l’impotenza e l’impossibilità di sentirci realmente connessi e in comunicazione con qualcuno, una sensazione che potrebbe coglierci proprio avendo, di fronte a noi, sterminati mezzi di comunicazione. Soprattutto se pensiamo ai social network: da un lato, la percezione è quella di avere tra le mani un potere nuovo (siamo infatti padroni di un’esperienza senza precedenti, in fondo possiamo scegliere cosa comunicare, cosa eliminare quasi totalmente dai nostri profili, costruirci un piccolo universo a nostro piacimento e così via); dall’altro, potremmo sentire una sorta di smarrimento nella difficoltà di riuscire, realmente, a comunicare in maniera sincera davvero qualcosa. Restare in contatto facilmente con conoscenti e sconosciuti nello stesso, pressoché identico, modo potrebbe, paradossalmente, portare a sentirci molto soli nonché isolati, ognuno nella sua bolla di confortevole alienazione. Le cerchie intorno a noi, intanto, non fanno che estendersi inglobando parenti, amici di vecchia data, persone che frequentiamo ogni giorno, personaggi famosi, influencer, completi sconosciuti ecc., e noi ci sentiamo sempre più muti, fermi sulla soglia dell’incomunicabile. È importante non ignorare questa sensazione ma prenderne atto e cercare delle possibili soluzioni; non si tratta di condannare né le vecchie né le nuove forme di comunicazione quanto di affinare la capacità di non smettere di interrogarci, di capire cosa va bene per noi come individui nella società e continuare la nostra indagine quotidiana dentro e fuori di noi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit Volodymyr Hryshchenko via Unsplash]

 

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Il dolore fisico, questo grande maestro

Nelle nostre occupazioni quotidiane ci sono momenti che vorremmo far durare a lungo, attimi di gioia, traguardi raggiunti che ci fanno sentire invincibili e fieri di noi stessi. Ci sono poi le sconfitte e i fallimenti, che a fatica sosteniamo e che spesso abbattono ogni nostra sicurezza. Quello che molte volte dimentichiamo, però, è la condizione necessaria perché tutto questo avvenga, ossia il benessere del corpo e della mente. Noi pensiamo di essere padroni delle nostre decisioni, siamo convinti di avere pieno possesso delle nostre facoltà, ma diventiamo estremamente fragili e impotenti di fronte alla sofferenza fisica. Quando il dolore impedisce le ordinarie attività, il nostro io si ritira in se stesso e ogni prospettiva cambia.
Anche la persona più cinica, di fronte al dolore, è costretta a rivedere le sue priorità. Questo perché la nostra attenzione viene completamente assorbita da esso. Tutto si cancella, ogni cosa scivola in secondo piano e l’unico obiettivo che vediamo è la fine del patimento. Quello che prima ritenevamo indispensabile per la nostra felicità, ora si fa corollario. C’è un prima di cui dobbiamo occuparci.

Nel suo breve scritto La serata col Signor Teste (in P. Valery, Monsieur Teste, 1961), il filosofo e scrittore francese ci regala uno scorcio di vita estremamente realistica e al tempo stesso fortemente simbolica di un personaggio letterario, che incarna la piena coscienza di sé, un uomo che «quando parlava non alzava mai né un dito né un braccio: che aveva ucciso la marionetta» (ivi), ma che si trova a combattere con la sofferenza del corpo.
Il signor Teste è un cervello senza limiti, una creatura eccezionale nata dal bisogno di Valery di costruirsi un linguaggio puro, di sfiorare la perfezione. Ma il breve scritto evolve in maniera inaspettata. Questo personaggio apparentemente imperturbabile, nell’atto di uscire dal teatro dove ha trascorso una serata con l’amico (che poi è lo stesso Valery), comincia a parlare in modo strano, a fare discorsi incomprensibili. «Improvvisamente tacque. Soffriva», si legge nel testo.

Nel corso dell’opera, monsieur Teste diventa via via meno personaggio e più uomo. Egli invita l’amico a salire nel suo appartamento e a stare lì con lui finché non si sarà addormentato. L’uomo dall’attenzione profonda cede pian piano il passo al bambino impaurito e bisognoso di vicinanza. Emerge dal racconto un velo di malinconia che accompagna i due fino all’interno della casa. «Il mio ospite esisteva nel più generico degli interni. Pensai alle ore che passava in questa poltrona. Ebbi paura dell’infinita tristezza possibile in quel luogo puro e banale» (ivi). L’appartamento del signor Teste è lo specchio della sua interiorità. Piccolo, spoglio, svuotato di ogni possibile abbellimento perché la sofferenza del corpo annulla ogni bellezza esteriore e concentra lo sguardo su di sé.

«Che cosa può l’uomo?»chiede a un certo punto il signor Teste al suo interlocutore.

«Io combatto tutto – tranne le sofferenze del mio corpo, oltre una certa dimensione. Proprio di lì tuttavia dovrei cominciare ad affondare in me stesso. Perché soffrire significa dare a qualcosa un’attenzione suprema» (ivi).

Ecco lo spiraglio di luce da cui ripartire. La sofferenza del corpo annienta, ma amplifica la capacità di attenzione. I dolori catturano il nostro sguardo e ci portano completamente dentro di noi. Si accendono come si accende un’idea, permettendoci di comprendere. È quasi un’esperienza mistica. Il dolore fisico può diventare un mezzo per sottrarre da noi ogni distrazione e farci tornare in noi stessi rinnovati. Da lì si può intraprendere una conoscenza più profonda e più vera. Infatti, quando si soffre e si deve rinunciare alle abituali attività, il nostro io ha una grande opportunità: incontrare se stesso. Sfruttando la luminosità che la sofferenza del corpo ha prodotto, possiamo illuminare un problema, una questione, e trovare le risposte che cercavamo da tempo.
Il dolore, inoltre, è un bravo maestro perché ci riporta a uno stato primordiale, ci fa ripartire dal primo gradino della scala e ci mostra come la felicità possa trovarsi già nel gradino successivo e non necessariamente in cima a essa. Si ridimensionano le aspettative, tutto diventa più lineare. La stessa posizione corporea ti pone in un’altra prospettiva; da seduto o da sdraiato molte attività non le puoi fare, quindi riscopri la bellezza di attendere, di leggere, di progettare. La prima passeggiata, allora, avrà davvero il gusto delle prime volte, così come un incontro con gli amici o il ritorno sul posto di lavoro, una volta guariti.

 

Erica Pradal

 

[Photo credit Mitchel Hollander via Unsplash]

 

 

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I diritti al centro della vita. Intervista a Giovanna Donini

Giovanna Donini è una scrittrice e autrice televisiva teatrale, da anni impegnata nel dare voce ai diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+. Ha co-fondato l’associazione Il filo di Simo, in onore di suo nipote Simone, con lo scopo di offrire supporto a chi sta vivendo un momento di difficoltà emotiva e alla sua famiglia. Tra pochi giorni sarà a Treviso in occasione del Q.Pido – Treviso Equality Festival, di cui sarà protagonista mercoledì 17 maggio alle 21 alla Loggia dei Cavalieri. Ne abbiamo approfittato per qualche domanda sul suo lavoro e sui suoi valori, tra cui appunto la difesa dei diritti e delle fragilità di ciascuno di noi.

 

Giorgia Favero – Giovanna, tra pochi giorni sei attesa nella tua Treviso per il Q.Pido – Treviso Equality Festival, un’iniziativa del Coordinamento LGBTE per sensibilizzare la cittadinanza sulle istanze della comunità LGBTQIA+. Sei stata ospite anche in altre edizioni: che cosa significa per te partecipare a queste iniziative e sostenere queste istanze?

Giovanna Donini – Per me partecipare a queste iniziative è necessario e molto importante. Sono lesbica e ho sempre cercato, a modo mio, di non sottrarmi mai all’attivismo, anzi ho sempre cercato di dare, attraverso la scrittura, il mio contributo perché credo che sia, soprattutto adesso, ma lo è sempre stato, fondamentale lottare per ottenere e difendere i diritti.

 

GF – Al festival porti il tuo spettacolo Ti lascio per riprendermi, tratto dall’omonimo libro pubblicato per Solferino con Andrea Midena. In effetti la parte della separazione è quella meno indagata di una relazione, nonostante ci sia moltissimo da dire, molti consigli da poter dare, e molti motivi per provare a riderci su. In una società che ancora innalza la relazione e la coppia a status sociale preferibile, cosa fare per contrastare lo stigma dell’esser single?

GD – Noi nel libro diciamo chiaramente che nella nostra società la felicità è concepita solo per due, anche quando vai al ristorante da sola ti dicono: “Sola?” come se dicessero “Sfigata!?”. Io credo che non sia così. Però passa sempre questo messaggio che se non hai qualcuno sei infelice, sei incompleto. Io invece penso che prima di tutto e tutti devi amare te e poi sperare di avere fortuna e incontrare la persona che ti piace a cui piaci. Senza accontentarti mai. 

 

GF – In qualità di autrice per teatro e televisione, anche per artisti come Teresa Mannino che portano a gran voce sul palco una visione femminista, quale ritieni siano i punti nevralgici del dibattito sulla parità di genere oggi e quali a tuo parere dovrebbero emergere maggiormente?

GD – Conviviamo negli stereotipi, nei limiti culturali di cui siamo anche portatori sani, conviviamo nel patriarcato che è un virus pericoloso che però si può e si deve combattere dialogando in libertà. E a proposito di dialogo e quindi di linguaggio, per me, ad esempio, il dibattito sul linguaggio più inclusivo e ampio è fondamentale. È necessario dare un nome a ogni cosa perché abbiamo bisogno di nominare la realtà per poterla raccontare. 

 

GF – Cultura e intrattenimento: due cose che nel pensiero comune (e anche nelle riflessioni dei legislatori di turno) sembrano non convivere, anche perché la cultura sembra qualcosa di elitario mentre l’intrattenimento è pensato per un gruppo più ampio e indistinto di persone. Qual è secondo te il giusto punto d’incontro?

GD – Io amo definire tutto quello che faccio, penso e scrivo molto “pop”, il che non significa solo popolare ma indica qualcosa che ha a che fare con la cultura, una cultura che però raggiunga tutt* o almeno tantissime persone. Per me è – o meglio dovrebbe sempre essere – PoP il punto di incontro tra cultura e intrattenimento. 

 

GF – Pochi mesi fa la città di Treviso, la Commissione comunale Pari Opportunità e la Consulta Femminile ti ha insignita del riconoscimento “Riflettore Donna”, sottolineando l’importante percorso professionale ma anche “per essere un’attiva testimone del ruolo determinante delle donne nella crescita della nostra Comunità”. Pensi che sia importante per un artista lavorare sul proprio ruolo sociale, cioè all’interno di una collettività?

GD – È stato per me un onore ricevere questo premio così importante. Penso che chiunque faccia un mestiere come il mio non possa mai dimenticare che arrivando a molte persone può lanciare messaggi e “muovere” pensieri che possono fare bene alla collettività. 

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina fornita da Giovanna Donini]

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Scoprire qualcosa mentre si stava cercando altro: il metodo serendipità

Una sintesi perfetta.
Una sintesi perfetta tra le espressioni latine homo faber fortunae suae e carpe diem.
Il concetto di serendipità, introdotto per la prima volta da Horace Walpole in una lettera del 1754, ha i crismi del valido metodo scientifico e dell’efficace strategia di coping. Ma non solo: cogliere l’attimo in una determinata situazione ci rende non solo artefici del nostro destino, ma ci fornisce anche una prova empirica di aver saputo trovare il bandolo della matassa.
Farlo in maniera consapevole restituisce, infatti, la dimensione dello stupore provato dal grande autore gotico nello scoprire inaspettatamente un dettaglio in un quadro antico. Una piccolezza, a suo dire, entusiasmante.

Tre prìncipi di Serendippo, l’antica fiaba persiana a cui fa riferimento Walpole, racconta di come i protagonisti, partiti alla scoperta del mondo, trovino sul loro cammino una serie di indizi che li salvano in piú di un’occasione. Serendip, antico nome persiano dello Sri Lanka, diventa quindi l’ispirazione per descrivere una piacevole e fortunata scoperta non preventivata.

Quando parliamo di serendipità, parliamo quindi di fortuna? Non esattamente. Perché la serendipità é sì fortuna, ma anche qualcosa in piú. È la risultante di una combinazione di sorte, circostanza e conoscenza pregressa.
Lo studio dal titolo Talent vs Luck: The Role of Randomness in Success and Failure di A. Pluchino, A. Rapisarda ed E. Biondo indaga, in questo senso, la valenza di talento e fortuna. Grazie ad una simulazione computerizzata, i tre ricercatori sono stati in grado di quantificare il ruolo del caso nel raggiungimento del successo di un determinato numero di persone, dotate di un talento distribuito “a campana”, ricalcando l’effettiva distribuzione del quoziente intellettivo nella popolazione attuale. Con queste premesse, nello studio sono stati distribuiti gli stessi capitali iniziali ai soggetti partecipanti i quali – dopo alcuni incontri casuali con eventi negativi (perdita del 50% del proprio capitale) o positivi (raddoppio dello stesso) – hanno mostrato un risultato molto interessante, ossia che quasi sempre le persone che raggiungono il maggiore successo, nell’arco di un’ipotetica carriera lavorativa di 40 anni, sono quelle più fortunate e con un talento poco sopra la media.

Proprio come accaduto ai tre principi, il talento è necessario, ma non sufficiente. Per avere un qualsiasi tipo di successo, sia esso il raggiungimento di un obiettivo o il superamento di un ostacolo, serve anche una dose di buona sorte. Lo studio appena citato ci offre, tuttavia, solamente uno spunto su cui riflettere, volendo effettivamente indagare qualcos’altro. Quello che è stato definito dagli stessi autori come risultato interessante ci aiuta, praticamente, a dimostrare come le fondamenta della serendipità siano una solida realtà e non solamente un’artefatta teoria. L’occasione di trovare una cosa in maniera imprevista, mentre se ne stava cercando un’altra (cioè appunto la serendipità) si concretizza, allora, non solo con fortuna e talento, ma anche e soprattutto grazie ad un socratico spirito critico, “sapendo di non sapere”.

Più volte è stata tirata in ballo la parola talento. Vale a dire? Potremmo forse considerarlo una predisposizione naturale a fare o comprendere qualcosa “meglio” di altri. Questa innata attitudine, coltivata con i giusti mezzi, può portare a risultati strabilianti. Banalmente: non c’è percorso di studi che tenga senza quell’acume in grado di poter dare significato a tutto il materiale raccolto.

Praticamente quello che accadde all’astronomo Wilhelm Herschel che, nel 1781, cercando delle comete, si ritrovò ad osservare, per la prima volta nella storia, il pianeta Urano. L’astronomo tedesco se ne rese effettivamente conto notando l’orbita ellittica del gigante gassoso, tipica appunto dei pianeti e non delle stelle comete, obiettivo iniziale della sua osservazione. La scoperta di Herschel ci dimostra come l’attenta ricerca di effetti non calcolati, utili per portare alla formulazione di nuove teorie, possa essere effettivamente usata dal ricercatore come un paradigma valido scientificamente. Un metodo vero e proprio. 

Di questo ce ne possiamo rendere conto anche nella vita di tutti i giorni. In situazioni di novità ed incertezza, infatti, la mente è attiva e vigile e, per certi versi, lavora pure meglio. Saper divergere dalle ipotesi iniziali e considerare positivamente soluzioni inedite e non preventivate sono tutte valide strategie di adattamento. In fin dei conti, la capacità di far fronte a determinate situazioni, usando tutte le risorse possibili immaginabili (fortuna compresa), come anche dover risolvere problemi, altro non è che superare una serie di ostacoli per raggiungere un obiettivo. Pensare out of the box, in modo creativo e laterale, aiuta non solo ad allargare gli orizzonti ma anche a riconoscere i colpi di fortuna quando questi si presentano, anzi: quando siamo proprio noi a fare in modo che diventino realtà.

Milo Salso
Nato a Venezia nel 1987, si laurea in psicologia sociale e del lavoro a Padova. Dal 2015 lavora e risiede a Vienna, dove si occupa di marketing e di project management. Avido lettore, nel tempo libero crea cruciverba a tema libero.

[Photo credit Alois Komenda via Unsplash]

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Territorio e paesaggio. Uno sguardo filosofico per una geografia profonda

Che differenza c’è tra territorio e paesaggio? Chiederci come scegliamo di usare un termine piuttosto che l’altro può spingerci a fare interessanti considerazioni sul nostro rapporto con l’ambiente e sulle sottese visioni filosofiche. 

Il significato di territorio ha a che fare con spazi racchiusi in confini, delimitazioni, suddivisione in porzioni; inoltre, il concetto include sempre anche varie operazioni di calcolo: grandezza, produttività, proprietà, redditività. In genere il territorio appartiene a uno o più proprietari e si presta a un certo tipo di sfruttamento.
Il termine paesaggio, invece, richiama in noi un’idea un po’ diversa, innanzitutto connotata esteticamente: è di solito qualcosa di bello da ammirare e questa bellezza si fa garante della sua richiesta di salvaguardia. Un paesaggio è un insieme di elementi naturali e, volendo, anche antropici, che hanno trovato una loro coesistenza armonica e la cui visione si traduce in una fruizione preziosa per gli sguardi umani che lo possono contemplare. Questa armonia si ammira, se ne fruisce attenti a non esaurirla, a non fare dell’utilizzo un consumo, perché il consumo, appunto, consuma, e non rimane granché per chi arriva dopo. La fruizione, diversamente, è un concetto che sottende un approccio meno consumistico e più slegato dalla materia. 

Nei discorsi di politica ed economia la parola territorio risuona insistentemente, molto più di rado si sente parlare di paesaggio. È difficile giustificare lo sfruttamento del paesaggio, sappiamo che la nostra bramosia manipolativa è pericolosa e difficilmente lascia intatto quello su cui mette le grinfie; esso ha bisogno di noi solo come garanti della sua incolumità. Laddove l’urbanizzazione è intensa, però, è difficile trovare paesaggi a cui affezionarsi e per i quali fremere in mozioni di difesa. Il territorio, caratterizzato dalle sue manifestazioni di intensa antropizzazione, si configura come un manto coprente dell’originale geografia dei nostri luoghi di vita. Chi ricorda come erano gli scorci di bellezza nei luoghi del proprio passato, se ha fatto in tempo a conoscerli, quando in quel preciso luogo fisico, conservato oramai solo nella propria memoria, l’intervento urbanizzante non oscurava ancora definitivamente il paesaggio?

Siamo sempre meno propensi a focalizzarci sui significati dei cambiamenti dei nostri luoghi. Il paesaggio ha bisogno di essere guardato e vissuto con sguardo profondo, per sedimentarsi della nostra memoria, affinché noi capiamo la nostra terra in un senso non superficiale, non cancellabile da un momento all’altro. Ma la conoscenza profonda del proprio ambiente richiede tempo e saggezza, mentre l’antropizzazione è veloce, ci promette benessere, ci garantisce di tutto e di più prendendolo da ogni angolo del pianeta. Ad esempio, non ho più bisogno di conoscere la mia terra per sapere come trarre da lei i frutti per il mio sostentamento, capire come adattare i miei bisogni ai cambiamenti stagionali, cogliere lo stato di salute dei suoli, quello delle creature che la abitano, se tanto posso interamente demandare ai processi industriali l’approvvigionamento di cibo. Posso scegliere di non capire niente di tutto ciò e continuare comunque a nutrirmi. Infatti, nella totale distrazione della routine urbana, trascuriamo i mutamenti della geografia dei nostri luoghi e poi accade che, come scrive Barry Lopez: «Se una società si dimentica o non si preoccupa più di dove vive, chiunque abbia il potere politico e la voglia di farlo potrà manipolare il paesaggio per conformarlo a determinati ideali sociali o visioni nostalgiche»; e ancora: «Più una società ha una conoscenza superficiale delle reali dimensioni della terra che occupa, più quella terra sarà vulnerabile allo sfruttamento e alla manipolazione per il guadagno a breve termine» (B. Lopez, Una geografia profonda, 2018). Il problema è che la conoscenza profonda, fatta in prima persona, quella in cui si incorpora il paesaggio in una geografia personale consolidata, richiede tanto tempo e attenzione, risorse di cui siamo sempre più carenti.

Si tratta di un processo di costruzione dei propri luoghi che incalzava anche il filosofo norvegese Arne Næss, con la sua ecosofia, consapevole che l’urbanizzazione, la dipendenza da beni e tecnologie che arrivano da luoghi che non ci appartengono, nonché l’aumento della complicazione strutturale della vita, sono tutti fattori che indeboliscono l’appartenenza a un luogo. 

L’invito, allora, è quello di trovare i nostri paesaggi, esercitarci a creare con essi connessioni intime, costruire una geografia, che è la scienza dei luoghi della terra e delle loro caratteristiche di interrelazione, che sia personale e profonda. Una conoscenza che si connota di una versione fotografica interiore e di tipo estetico del nostro paesaggio, che sia punto di riferimento capace di trasformarsi in campanello d’allarme alla prima minaccia di deturpazione.  Una geografia della fisicità dei nostri ambienti che, una volta consolidata, potrebbe trasformarsi in visione etica e azione politica non appena ve ne fosse urgenza.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit pine watt via Unsplash]

 

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Eraclito, Buzzati e il divino a portata di mano

A volte leggendo un autore capita di sentirsi come sopraffatti dalla bellezza e dalla profondità dei suoi scritti, e sembra di trovarsi di fronte a qualcuno di eccezionalmente dotato, dalle qualità superiori alle nostre, quasi facesse parte di un’altra dimensione, quasi vivesse in una realtà diversa dalla nostra. Forse è per questo che ci affascinano gli aneddoti sui grandi uomini del passato: contribuiscono a ridimensionare l’immagine che abbiamo di loro e a farceli sentire più vicini alla normalità.

Uno degli aneddoti più eloquenti a nostra disposizione riguarda Eraclito. Si racconta che dei visitatori venuti ad Efeso per sentirlo parlare, una volta bussato alla sua porta, rimasero interdetti constatando che questi si scaldava vicino al fuoco. Vedendo la loro titubanza, egli li incoraggiò così: «Entrate, gli dèi si trovano qui come dappertutto!»1. Non conosciamo la reazione dei visitatori, ma ciò che conta è che il vedere quell’enorme pensatore in un contesto così banale, così indegno per qualcuno del suo calibro, abbia prodotto una sorta di turbamento in loro, che lo figuravano intento in chissà quali elucubrazioni metafisiche.

La visione del saggio “fuori contesto” produce uno choc, ed è questa la cosa affascinante. Eraclito afferma che gli dèi sono anche lì, nel più banale dei contesti. Perché i visitatori sono turbati? Il fatto è che nell’immaginario collettivo il filosofo, l’artista, il letterato – insomma colui che dedica la sua vita a produzioni fuori dal comune, nel senso più letterale di questa espressione – in qualche modo disdegni le esperienze per così dire banali e si preoccupi di vivere soltanto quelle cariche di senso, che esulerebbero dal quotidiano perché rare e di difficile accesso. Lo choc dei visitatori è quindi prodotto dal contrasto tra quest’idea e la constatazione che Eraclito non sta vivendo nulla di straordinario. Eraclito, dal canto suo, risponde loro bonariamente che lo straordinario non è da qualche parte al di là delle esperienze quotidiane, e che ciò che fa la differenza sono la sensibilità e la penetrazione dello sguardo, la capacità di coglierlo nei contesti quotidiani, perché, in fin dei conti, la vita si svolge giorno per giorno, e dà agli ospiti l’insegnamento che forse erano venuti a cercare, ma che probabilmente non colgono.

La filosofia tende all’astrazione perché il suo sguardo è universale e vuole cogliere il mondo nella sua totalità, non lasciandone fuori alcun aspetto. Tuttavia il mondo prende significato in quanto è vissuto da noi, ed il vissuto è sempre legato al contesto, alla situazione particolare in cui ci troviamo. Il filosofo riesce a non perdere mai di vista questa lezione, ed è anzi consapevole che le grandi verità si nascondono nelle piccole cose, che come tali passano inosservate e richiedono una grande sensibilità per essere colte. Non è senza consapevolezza che Eraclito stesso afferma che «La natura ama nascondersi» (Eraclito, Frammenti, B123 D-K), o che Aristotele ci dica che la filosofia nasce dal sentimento della meraviglia di fronte a ciò che abbiamo davanti2.

Vi è un altro autore, più vicino ai nostri tempi, che sembra volerci persuadere con forza che lo straordinario si nascondono nei contesti più comuni. Si tratta dello scrittore, giornalista e pittore bellunese Dino Buzzati. Profondamente convinto che il misterioso abiti ed animi il mondo e sia sempre dietro l’angolo, nei suoi racconti egli mette in scena gli avvenimenti più surreali e paradossali, a volte anche incomprensibili, partendo da situazioni assolutamente banali ed apparentemente prive di qualsiasi interesse filosofico: una passeggiata nel bosco si trasforma nella più grande delle avventure, una semplice visita medica diventa un’angosciosa odissea verso l’ignoto e la consapevolezza della propria impotenza, una normalissima nuvola ci mette di fronte alle nostre debolezze più recondite, la quotidiana ricerca di un parcheggio finisce col liberarci definitivamente dalle nostre gabbie mentali3.
Insomma, pare che in molti cerchino di suggerirci che il sale delle cose si trova proprio davanti a noi, dentro le pieghe, e che si tratti soltanto di saperlo e di volerlo cogliere.

Concludiamo riportando una singolare esperienza capitataci di recente. Leggendo Le avventure di Pinocchio, il testo all’improvviso si è arrestato e nella pagina successiva continuava un romanzo a noi ignoto. Il fatto, che di per sé può sembrare ridicolo, ci ha però riportato alla mente la vicenda di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Proveremo quindi a recuperare il libro sconosciuto e vedremo dove ci porterà.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Questo aneddoto ci è trasmesso da Aristotele, Le parti degli animali, libro I, cap. 5.

2. Cfr. Aristotele, Metafisica, libro A.
3. I racconti cui facciamo riferimento sono, nell’ordine: Il borghese stregato, Sette piani, Le tentazioni di Sant’Antonio, Il problema dei posteggi in Sessanta racconti, 1958.

 

[Photo credit Stefan Widua via Unsplash]

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Filosofia da tastiera

Questo è il primo articolo che scrivo utilizzando il mio nuovo PC. Come prevedibile, questo vuol dire che ci metterò il doppio del tempo: il computer è più piccolo del suo predecessore, la tastiera idem, i tasti sono leggermente sfalzati e alcuni hanno del tutto cambiato di posizione. Il corpo ha ormai memorizzato i movimenti, scrivo senza guardare dove metto le dita, e gli automatismi mi portano a cercare l’invio dove ora c’è la A accentata, o la freccia in alto dove ora incontro il tasto del maiuscolo. La tastiera non ha pietà di me, e mi osserva beffarda arrancare per apprendere nuovi automatismi, per adattarmi alla sua disposizione. Per imparare.

È stato Alan Turing, il geniale matematico che decrittò Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale e che è a ragione considerato uno dei più brillanti matematici del secolo scorso, a coniare il termine learning machine, ovvero “macchina che impara”. Da bravo padre dell’informatica, Turing aveva teorizzato quella tipologia di algoritmi euristici denominati “algoritmi genetici” che sono alla base della moderna intelligenza artificiale, una serie di quesiti a risposte multiple (brutalmente riassumibili nella formula “se x allora y”) che permette ai software di memorizzare pattern logici, riconoscerne di analoghi e imparare a risolvere problemi sulla base dell’esperienza appresa.

Senza andare a cercare meraviglie moderne come i computer quantistici, anche il mio PC è nel suo piccolo una learning machine, che si struttura diversamente a seconda delle abitudini e delle preferenze dell’utente. Eppure, alle prese con il nuovo acquisto, sono io che mi sento una learning machine, io che percepisco di stare adattandomi alla macchina, capirne il funzionamento, insegnare nuovamente alle mie dita dove sono i tasti giusti, imparare le specifiche del nuovo sistema operativo, sempre più intuitivo ma comunque percepito come più complesso rispetto a una vecchia versione che era ormai diventata un’estensione del mio pensare e del mio lavorare.

Ecco, forse sta qui il cuore del problema: più che uno strumento che uso, il computer monopolizza la mia attività fin quasi a diventare una parte di me. Quando provo a scrivere a penna ormai mi sembra di essere un neanderthal che impugna una clava, e ne condivido la grazia e la leggiadria. Mi è poi diventato impossibile andare da qualunque parte senza quell’onnipresente surrogato del PC che è il cellulare, altra potentissima learning machine che mi condiziona molto più di quanto non faccia io con essa. La possibilità di usare il navigatore per arrivare a destinazioni sconosciute senza studiarsi una cartina, di cercare rapidamente su internet qualsiasi informazione mi serva, di leggere il giornale, consultare l’agenda, scambiare comunicazioni con famiglia, amici e lavoro, consultare orari di negozi e cinema, giocare, controllare il meteo, fare di conto e quant’altro tutto su uno stesso strumento ha radicalmente trasformato le mie abitudini e il mio modo di vedere il mondo e muovermici dentro.

Più ci penso, e più realizzo che la learning machine nel mio rapporto con le tecnologie digitali sono proprio io. Sono io che volta volta devo imparare a modificare la mia vita e le mie abitudini in funzione di un nuovo computer, un nuovo telefono, una nuova app, una nuova risorsa tecnologica di cui non sapevo di avere bisogno ma che diventa indispensabile. Sono io che vengo “riprogrammato” per essere compatibile con i nuovi sistemi.

Purtroppo, però, come intelligenza artificiale non risulterei un buon acquisto: ci metto decisamente troppo a sviluppare nuovi automatismi, sono talmente refrattario alle novità che ancora uso un’agenda cartacea, e da bravo essere umano ho una garanzia limitata data da un hardware in progressivo deterioramento. Dovrò accontentarmi di essere una fallace e imperfetta intelligenza organica in mezzo a sempre più perfette macchine che, loro sì, imparano velocemente.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Christin Hume via Unsplash]

 

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